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CESARE ANGELINI

TESTIMONIANZA A PAPINI

In C. Angelini,
Cronachette di letteratura contemporanea,
Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 155-165.

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Giovanni Papini


A dieci anni dalla morte, si discute di quanto c’è ancora di vivo in quella sua vasta produzione tutta nata all’insegna della preghiera: — Dàcci oggi la nostra poesia quotidiana. O, forse, nemmeno se ne discute, che è peggio.
Certo, Papini è di quegli scrittori che, per salvarsi da quel loro avere scritto a dismisura, hanno bisogno d’una scelta, d’un libro d’oro che ne liberi il meglio. Nei suoi ultimi anni s’era provato lui stesso, dandoci alcune raccolte di pagine rilette con più calma: Poesia in prosa, Foglie della foresta...; in verità, d’una splendida foresta. Ma Papini non era il più adatto a far questo lavoro; sul distacco necessario all’antologista, in lui prepoteva la tenerezza dell’autore, mancandogli quella coscienza critica che è cosa diversa dalla natura lirica. Il libro d’oro poteva darcelo qualche lettore fedele; e questa del decennale era la buona occasione. Ma non s’è visto nulla; né, per quanto tendessimo l’orecchio, abbiamo udito di commemorazioni degne, sui giornali o nella sua città, come se non tornasse più conto parlarne.
E ci domandiamo se in questi ultimi dieci anni (ma la disattenzione verso Papini è di molto prima) la nostra poesia si è così arricchita da poter buttare via uno scrittore come lui. Pensiamo al bene delle sue ore migliori: i capitoli dell’Uomo finito, le Cento pagine di poesia, che parvero al Serra (forse con un più di benevolenza) «le nostre illuminazioni». O taluni capitoli del Carducci dov’è l’ultima nostra prosa sanguigna, carducciana, della quale in repubblica buona non è ancora lecito vergognarci. O l’Opera prima, piena d’anticipi sui modi e sul linguaggio della poesia moderna. Non dimenticando certe Scheggie dettate nei suoi ultimi mesi, quando il pilota cieco era tutto un eschileo splendore d’occhi che vedevano dentro.
E accanto agli scritti, non si può dimenticare quella che fu la sua persona viva, magari rumorosa e spiacevole, ma che in quegli anni — dal ’10 al ’30 — raggiunse posizione di vertice per le idee che ha mosse, le spinte ideali promosse, gli ingegni stimolati, le muffe spazzate via, i problemi sollecitati e spesso, secondo un suo maltalento, contaminati.
A questo aspetto specialmente ci riporta il primo volume dell’Epistolario Papini-Prezzolini uscito quest’anno, dov’è narrata, a due voci, la storia di una grande amicizia, destinata a restare uno dei capitoli più interessanti della nostra cultura letteraria nei primi decenni del secolo, raccolta intorno ai due principali protagonisti.
Con un certo interesse abbiamo cercato nel volume le lettere che Papini scrisse all’amico verso il 1920 e negli immediati dintorni — il tempo del suo travaglio spirituale — per vedere con quali parole gli confidava la sua crisi e la sua novità. Ci abbiamo trovato poco; la confidenza è introdotta, per così dire, in filigrana. Si spiega con la riservatezza che i due amici hanno sempre avuto sui fatti della loro vita privata, e non certo perché Papini considerasse Prezzolini «insensibile al problema religioso», che sarebbe un meno di umanità, come scrisse Henri Giordan in un cahier uscito qualche mese fa su Romain Rolland et le mouvemente florentin de La Voce. Dove, tra l’altro, è segnalato (riprendendolo dalla Vita di Papini del Ridolfi) qualche frammento di lettere che Papini mi scrisse al tempo della crisi. Ed è in seguito a questa segnalazione che non ritengo inutile pubblicare alcune sue lettere o parti di lettere di quegli anni, che riguardano quel momento. Il cui primo accenno trovo in un veloce biglietto mandatomi al fronte in data 15-IV-1918:
«In questi tempi turbati, io non sono più quel di prima. Vorrei aprirle meglio la mia anima; in ricordo anche di quello spirito che amiamo... Mi scriva. Ho bisogno di sentirmi vicino anime che sentono».
Papini — direbbe Alfredo Gargiulo — era già «ai piedi del confessore».


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Santa Marinella (Roma)
16-V-1918

Carissimo Angelini,

ho aspettato fino ad oggi con la speranza di poterle scrivere una letterona lunga con tutte le cose che da tanto tempo mi stanno a cuore e destinate a lei. Ma non ci riesco. Io sono, a dispetto delle apparenze, pigrissimo, specie nello scrivere lettere… Questa è una semplice staffetta per dirle: 1) che le voglio sempre bene e che ho ricevuto e letto con infinito piacere la sua ultima; 2) che si sta ristampando il Carducci; e che penso, nientemeno, a una storia della letteratura italiana dalle origini a noi; 3) che De Robertis è allievo alla scuola di Modena; 4) che io son qui al mare da un mese e mi tratterrò tutto maggio; 5) che prima di partire le scriverò una lettera come si deve, per parlarle della mia lenta ma profonda mutazione spirituale. Sono sempre stato, nel fondo, contro le apparenze, un mistico, ma ora sto diventando, e non soltanto per teoria, un cristiano. E anche i fatti di questi anni mi hanno riportato alla grande scoperta che è nel Vangelo, l’unica, che tutti conoscono e quasi nessuno applica e vive.
Mi voglia bene, e scusi la stanchezza. (Vede come scrivo?).

Suo Papini


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Pieve S. Stefano (Arezzo)
20-VII-1918

Caro Angelini,

lei ha ragione. Ma forse ha indovinato anche le mie ragioni. Sono pigro, prima di tutto; eppoi la lettera che voglio scriverle è difficile, terribilmente difficile, e lunga. Ho cominciato a scriverla e ho visto che andavo rifacendo un capitolo del mio libro, di quello che sto scrivendo e che porto dentro di me da dieci anni: Il rapporto sugli uomini. E allora ho smesso, ma forse la finirò...
Sto facendo tra me e me la teoria dell’amore; non di quello che serve alle esalazioni dei porcellini lirici, ma dell’amore che fu comandato da Gesù. E a Gesù mi sono riavvicinato con nuovo spirito, e credo d’averlo sentito come pochi, oggi, lo sentono, anche tra quelli che si dàn l’aria di mistici. E ho scoperto che Gesù è sempre solo, come solo è stato fin dal principio; e che pure non c’è salvezza al di fuori di lui (non nel senso tradizionale, teologico). Lei forse mi intende...
Mi voglia bene, benché le abbia mancato di parola.

Sempre Suo Papini


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Pieve S. Stefano (Arezzo)
11-X-1920

Caro Angelini,

non ho potuto risponderle, prima d’oggi, perché stringeva il tempo per terminare il famoso libro. Ieri, finalmente, ho scritto l’ultime parole della mia «Storia di Cristo». Quasi 700 pagine di stampa e 130 capitoli. Ma, forse, lavoro non tutto inutile oggi.
Le manderò il volume appena uscirà e forse le darà occasione per scrivere su me qualche pensiero che nessuno ha saputo dire.¹ (Vede che la superbia, anche ora, non mi lascia. Ma lei, che è sacerdote, mi perdonerà).
Avrei alcune cose da ribattere circa il suo discorso su quella povera Antologia... In qualche punto m’è sembrato di risentire l’eco d’alcune cose dette da noi quella sera, in casa mia; ed ella mi sarà testimonio che già un anno fa, io ero fuori, come spirito, da questa letteratura di stanche minuterie...
La crisi di cui le parlai due anni fa, come vede, s’è sviluppata ed è prossima alla conclusione. Non si dimentichi

del suo Papini


[1. Angelini riceve il volume con la seguente dedica: «A Cesare Angelini / che primo ebbe la / confidenza e primo / parlò di questo libro / offre con amicizia / il suo G. Papini / 28.III.1921».]


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Pieve di S. Stefano (Arezzo)
17-VIII-1921

Caro Angelini,

le sue domande non richiedono una lettera, ma un opuscolo; e lei mi scuserà se in questo momento, preso da un altro lavoro, non posso rispondere. Alla prima, lei che è sacerdote cattolico, potrebbe rispondere da sé. Il messaggio cristiano postula una chiesa; e c’è una chiesa fuori di quella di Roma? Non si scordi che il mio articolo del Carlino (Francesco d’Assisi, l’unico cristiano) è del ’19 e che il mio libro è uscito nel ’21. Nel frattempo, ho seguitato a pensare; io sono il primo, e forse l’unico, convertito dalla mia opera...
Mi voglia bene, e non dimentichi

il suo Papini


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Via Colletta 10 – Firenze
24-III-1923

Caro Angelini,

lei sa che vogliono per forza far di me un professore. Ho rifiutato, squadernando sinceramente tutte le ragioni, buone e cattive.
Insistono. Fra l’altro, dicono che per diminuire a me il lavoro (e l’obbligo di star molto a Milano) mi darebbero un assistente. Ho fatto il suo nome...
Ancora non mi sono legato: e rifletterò meglio quale sia il mio dovere e dove Dio mi chiama.
Lei che consiglio può darmi? Sento che la mia missione è tra gli infedeli, coll’arte; mettendomi tra i fedeli, con l’insegnamento, potrei forse fare un po’ di bene, ma temo, meno.
Ha ricevuto il Salvatico¹? Avrà visto che è assai diverso dalla St.[oria] di C.[risto]. Il Dizionario è uno strumento di guerra e tutte le armi si son dovute adoperare. Vedrà che ci sono riposi lirici e nostalgici; e ho paura che lei preferirà questi. Sono una concessione dell’apostolo all’artista.
Mi scriva. Auguri affettuosi per la Pasqua di Resurrezione,

del suo Papini.


[1. Angelini riceve il volume con la seguente dedica: «a Cesare Angelini cogli affettuosi auguri del suo G. Papini».]


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Firenze, gennaio 1924

Caro Angelini,

ripensando ai nostri discorsi di queste sere milanesi (aggiunga lei in questa parentesi gli aggettivi patetici e tutte le assonanze spirituali che io non ho il tempo di trascegliere) mi sento sempre più d’accordo con lei, che malagevole cosa è, in questo paese, in quest’anni, far capire al buon popolo cristiano non dico la bellezza e grandezza ma la necessità del fatto poetico. Dicco difficile per noi che intendiamo insegnare ai perduti non già il cancello dell’ovile, ma il portale alto, istoriato, solenne della Chiesa.
Troppi sono ancora fra noi che nel poeta vedono alla lettera ciò che il Carducci, ironizzando, cantava: un perdigiorni.
A tanti ottimi, candidi, santi uomini, ancora manca, tra tante fedi belle, anche questa: che la Poesia è dono divino e può essere mezzo divino; che la poesia può esser «bello e forte arnese» apostolico; che la Poesia amata con purezza di cuore, è anche Apologia.
Ammettono, tutt’al più, per concessione alla noia delle vigilie e delle insonnie, la «letteratura edificante», che è, quasi sempre, non letteratura, non arte, e perciò in eterno incapace di «edificare» nonché un’anima, neppure il casotto di un cane da guardia.
Ma nella bellezza i mistici senton quasi sempre puzzo di zolfo e di bruciaticcio, dimenticando, nientemeno, che la Liturgia nella quale trovano, e fanno bene, nutrimento e inebriamento, è una mera istrumentazione di canti quali più belli (anche di bellezza esteriore, ritmo, immagini e sonorità) di rado uscirono dal cuore degli ispirati. Fino a pochi secoli fa il Cristianesimo si rivelava, crescendo, in parole e forme belle; e i creatori più potenti e perfetti quasi altro non facevano che mettere ai piedi di Dio, quasi magi in ritardo, tutto l’oro che fluiva dai loro labbri e dai loro diti.
E sia benedetto come nostro patrono Sant’Ilario da Poitiers il quale nel suo Tractatus super psalmos, affermava che il brutto stile è peccato.
L’uomo non vien mutato davvero che mutando i suoi sentimenti e questi non si mutano quasi mai per sillogismi ma con l’esempio e la parola. La poesia — e si può mettere insieme anche il ragionamento amoroso intorno alla poesia — è sempre santa, anche quando può sembrare men pura.
La catarsi non avviene soltanto nell’anima del poeta, ma anche in quella del lettore degno; perché ogni grandezza, come il fuoco, va in alto, porta in alto.
Va da sé che per noi il problema è doppio, forse triplice, e di doppia difficoltà. La santità dello spirito è condizione prima per riuscire artisti veri; e dappertutto dove c’è bellezza assoluta c’è santità d’ispirazione e d’affetti. Ma non bisogna cadere nell’ondulamento degli estetizzanti che molto spesso vedono i giardini di Sciraz nella vetrina d’una modista, o la perla del Vangelo nelle bolle arcobalenanti d’uno stagno turbato.
Lei sa, caro Angelini, quanto è rara al mondo la poesia nella pienezza del senso divino, vera poesia, poesia grande. Rara, direi, come la santità; forse più. E allora tutto sta nel salvaguardare noi (e i nostri lettori, se ne abbiamo, e se credono in noi) dagli sdrucciolamenti nella mediocrità, dalle lascivie dei trucchi, dalle vergogne dei compromessi. Questo compito tocca anche a lei, che è due volte consacrato: al Verbo che si fece carne e al verbo che tenta di farsi bellezza.

Suo aff.mo Papini.

[Pubblicata su "La Festa" del 5 gennaio 1924, p. 8, con titolo Santa letteratura.]

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Confidenze brevi, asciutte, senza effusioni; com’era nell’indole dell’uomo salvatico. Piuttosto, subito intenzioni apologetiche, preoccupazioni apostoliche del neofita che, tornato all’ovile, fatalmente prende in mano il bastone del pastore.
Le abbiamo scelte da una cinquantina di lettere; e, pubblicandole, ci è parso il modo più bello di onorare uno scrittore che ci fu caro e ci ha fatto del bene.

[1966]


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  Vedi anche altri studi di C. Angelini su Giovanni Papini  

  Vedi anche Giovanni Papini ai Corsi della Pro Civitate Christiana in Assisi