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CESARE ANGELINI RINGRAZIAMENTO AD ASSISI
In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1992, pp. 121-126.
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Una via di Assisi (anni ’50). |
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Una luna tonda avvolge d’aria incantata la città, colmando di silenzio la contrada di San Francesco, che dalla piazza maggiore scende alla Basilica. Un passo sul selciato scocca un improvviso dialogo, rapidissimo.
Lui (dalla strada): — Buona notte, Bellezza.
Lei (dal balcone): — Bellezza, buona notte.
Il passo s’allontana, cadenzato. I cieli tornano improvvisamente trovadorici, in una cortesia che s’intona col clima spontaneo di Assisi. Sono pure i balconi e le finestre a cui salivano serenate, al tempo di Francesco e di Chiara. Le intonava Bernardo Quintavalle, il re dei versi, squillandoli con una voce che tremava sulle dolci parole.
La città vaniva nel plenilunio.
Qui, uno è subito preso di lui, da lui, il capo spirituale della città, una «presenza» che abbatte: il soprannaturale penetrato nel naturale, insostenibile quasi alla nostra misura. Ma è una prima impressione che passa: perché anche il credere, qui, è un modo familiare; più che un intendere, è un amare. È la teologia dell’amore che costruisce agevolmente in noi quello che non potrebbe una logica che esaudisse i problemi della mente. È la novità d’Assisi e il beneficio del Santo; il quale ci ha insegnato che più giova parlare a Dio che parlare di Dio. Parlare di Dio è del teologo che sillogizza e spesso non ama; parlare a Dio è dell’anima innamorata. E allora si capisce che vivere in Assisi è un privilegio e, naturalmente, una responsabilità.
Dev’essere stato Cecchi a dire che la collina di Assisi è la nostra Delfi. E non era cultura, ma alta suggestione religiosa che gli faceva dire così. Come nell’antica Delfi (prima che essicasse in mitologia) in Assisi si respira una magica aura di rinnovamento, un soffio innocente di origini religiose dove ognuno viene a prendere il suo oracolo. Abbiamo sentita questa verità molto naturalmente, come una nuova bontà che si comunica a tutti, da qualunque parte vengano e da qualunque Credo. Bontà che in terra d’Umbria può chiamarsi, senza sospetto di inzuccheramento, la nuova gentilezza del Cristo.
Uscite pure dalle porte d’Assisi e dilungatevi per la valle spoletana a visitare Spoleto, Foligno, Gubbio, Spello, Montefalco, Todi... Vi sentite sempre dentro il reliquario d’Assisi; non è altro che che un voltar pagina, pagine di Fioretti. Anche Perugia, la capitale, è in soggezione davanti ad Assisi.
Il senso estatico e irrimediabilmente mistico della città è sollecitato dalle iscrizioni latine che si inseguono sui portali di pietra simile a pergamena accartocciata: — In Domino confido. Deo et tibi. Spes mea in Domino. Un senso di adorare Dio in spirito e verità; un vivere la vita rivestita della nostra fede e della nostra speranza.
In Assisi è nato Properzio; ne è oriundo il Metastasio... Notiziette che si pescano nella memoria non senza qualche sforzo e meraviglia. Qui domina lui, lui solo, il capo spirituale della città.
Sul taccuino d’una ignota pellegrina che voleva una parola come ricordo, ho scritto: «Ci siamo conosciuti in Assisi». Modestia a parte, m’è parsa la più bella tessera di riconoscimento che potessimo scambiarci.
È enorme il valore di questa collina, se pensiamo che da qui è partita la più alta rivelazione umana: la cordialità delle cose, la loro vicinanza e parentela con noi. Francesco ha approfondito o, forse meglio, esteso, il senso della Redenzione. Se Cristo ha redento gli uomini, Francesco (qualcuno deve averlo detto) ha redento le cose, le «creature», inventando per esse un nome che le chiama a vivere su un medesimo piano di umanità: sorella acqua, fratello vento, fratello fuoco... Anche il sole, altissimo. Quanti poeti l’avevano celebrato e, tutt’al più — come nelle religioni iranico-egiziane — ne avevano fatto un dio. Con Francesco, il sole diventa nostro fratello, frate sole.
E che anche il corpo non sia più il nemico dell’anima ma il suo compagno di via, è conquista tutt’altro che trascurabile, capace di approfondimenti sostanziali, vitali, su cui Francesco s’incontra col teologo Tommaso: spiritus creatus indiget corporeo sollatio.
E poiché in Assisi anche la grammatica si fa poesia e fede, chissà se dopo tante discussioni, riusciremo a metterci d’accordo sul per del Cantico: «Laudato sii, mi Signore, per...» Insomma, se la paroletta ha valore casuale o strumentale; se vuol dire che Dio è lodato dalle sue creature (complemento d’agente) o nelle sue creature, a causa delle sue creature (complemento di causa). Da Sabatier a Salvadori, a Misciattelli, a Foscolo Benedetto, a De Robertis, se n’è discusso senza litigio, con carità francescana. Ma chi tenga presente il temperamento di Francesco, sereno goditore di bellezze naturali (insomma, poeta), sente nel per un valore casuale: dice che si tratta non di creature lodanti che è piuttosto liturgia, ma di creature lodate che è fede. E Il cantico assume un valore non meno corale e più intimo, gustoso, quasi che le creature siano più ricche di Dio. L’elogio di Dio, non fatto dalle sue creature, ma nelle sue creature, è elogio più alto; è un riconoscere ciò che in esse c’è di divino.
E dice un’altra cosa più grande: che Francesco nel mondo ha rivelato Dio ma non l’ha distaccato dalle sue creature. Un altro spirito mistico non italiano (diciamo il grandissimo Plotino) si sarebbe chiuso in una trascendente e isolata contemplazione di Dio, immoto, immobile. Francesco vede Dio nelle creature, scaturite da Dio. Anche il vento è usciito da Dio. Anche l’acqua e il fiore e il ramo sono usciti da Dio. E il Cantico, che pare tutto aperto sull’esterno — sull’acqua, sul vento, sul sole — ha invece tutta l’interiorità di una Imitatio Christi; una profondità metafisica che non turba la sua lirica purità. Simile alla serenità razionale che scorre sotto la Somma di Tommaso, ma corretta da un tono di ingenuità evangelica, purificata e rischiarata nel cuore.
«Quivi è perfetta letizia». E dicendo questa parola, Francesco ne ha fatto un dono ad Assisi, per sempre; le ha fatto la dote. Ha aperto un fonte. Né diminuisce con l’incessante accorrervi delle folle; anzi, aumenta. Ne partecipa anche il pellegrino d’oggi che, scendendo dalla collina, si volta indietro a ringraziare.
Assisi, Assisi... Ora Dante ci avverte: — Chi vuol parlare di questo luogo, non dica Ascesi, ché direbbe corto. Dica Oriente. Sgomenta questa sua sensibilità storica. Vivere quasi gomito a gomito con Francesco, e presentirne la gigantesca santità, con l’amplissima, universale novità del messaggio.
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NOTIZIA
Dall'agosto 1946 Angelini partecipa in Assisi ai corsi religiosi della Pro Civitate Christiana, insieme ad altri studiosi, tra i quali, Giovanni Papini, Antonio Baldini, Silvio D'Amico, Daniel-Rops, Piero Bargellini, Nazareno Fabbretti, Michele Saponaro; ai corsi, fino agli anni ’60, Angelini torna puntualmente di anno in anno; Assisi è una meta prediletta del sacerdote pavese.
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In Assisi 1950. Sul verso della fotografia autografo di A.: «da sin. | Michele Saponaro | Nazar. Fabbretti | A. | la signora Saponaro»
archivio privato |
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Sul verso della fotografia autografo di A.: «“motivo d’Assisi 1950” | dall’alto in basso | il poeta Colsalvatico | uno che ti pensa | Joergensen | Bargellini | ecct. | Mandami (in cartolina) | tue notizie. | tuo A.»
archivio privato |
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CESARE ANGELINI SALUTO AI MAESTRI PERDUTI
In C. Angelini, I discorsi di Assisi,Milano, Bignami, 1973, pp. 5-16.
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Cari Amici,
ieri sera, risalendo la collina nell’ora che Assisi accende la luna sulle sue basiliche e sul fresco buio delle sue piazze quiete nel lungo silenzio della valle spoletana, la mente riandava ai Corsi dei primi anni, 1946-47-48-49, quando le adunanze si tenevano ancora nel modesto «Teatro Metastasio»; e ritrovava i volti di cari corsisti che ora, per quanto mi guardi attorno, non si vedono più.
Dov’è don Carlo? il fratello silenzioso, che nella meditazione e nella preghiera, preparava queste «settimane di studi cristiani» in cui fermamente credeva, perché fermamente credeva nella Pro Civitate; nella quale, precorrendo i tempi, vedeva un pulpito ecumenico da cui lo Spirito avrebbe soffiato sempre più animosamente sui fedeli e sugli infedeli, sui fratelli uniti e sui fratelli separati. Perché questa è sempre stata l’atmosfera dei Corsi, intesi a comporre in terra umbra il canto dell’amore cristiano che converte anche le fonti del Clitunno in fonti pasquali.
Dov’è monsignor De Santis? il buon vescovo di Todi che sapeva cantare come il poeta della sua città: «Bello è, e cortesia — impazzir per il Messia». Assistente dei Corsi, faceva le sue felici improvvisazioni con quella sua voce allegra e l’animo già invaso dal vento delle aperture giovannee. Ma non erano mai improvvisate le parole di un uomo che ogni giorno meditava e viveva la divina verità. Anch’egli, alla chiamata di Dio, ha buttato il pastorale e la vita per entrare nella casa dei più.
E dove sono i valentuomini che in quei giorni rappresentavano tra noi l’eccellenze delle lettere, dell’arte, del diritto, delle scienze sacre e profane? Giovanni Papini, Antonio Baldini, Silvio D’Amico, Guido Manacorda, Francesco Carneluti, Francesco Severi, l’accademico francese Daniel Rops, e altri e altri. Il cuore che li ricorda, è un lungo cimitero pieno di croci: ma ricordarli qui, è un atto di umana gratitudine per i lumi e gli esempi che ci hanno lasciato.
Ogni anno tornavano quassù, umili corsisti tra umili corsisti, a recitare il Credo, a respirare nel vento cattolico del Credo, robustoso e forte «nella eternità del suo latino» — Credo in Deum Patrem omnipotentem... Credo in Iesum Christum, filium eius unigenitum... Credo in Spiritum Sanctum... Credo ecclesiam sanctam catholicam et apostolicam... E qui le parole si incontravano con l’oggetto vivente, dico in quei vescovi, quegli arcivescovi, in quei cardinali, sempre presenti, dei quali due diventati papi. Non dico che le verità cristiane aumentassero di valore per la presenza di quei valentuomini; ma la loro presenza diventava un valore apologetico, perché la persuasione di tali maestri di sapere e di scienza ha sempre un suo inevitabile peso nella nostra esperienza religiosa. Credevano anche per noi; e i Corsi erano atti di fede, come erano giorni di festa.
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Con Giovanni Papini in Assisi (anni ’50) |
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Ho nominato Giovanni Papini; e i corsisti veterani lo rivedono nella dominanza della sua persona, camminare alto e cecuziente per le vie d’Assisi, protetto dalla semplice e saggia signora Giacinta, e fermarsi a firmare contro i muretti cartoline ad amici e a sconosciuti, con gli occhi negli occhiali e gli occhiali sulla penna. E chi sapeva del suo passato eretico e bestemmiante e il suo capaneismo, a vederlo lì così docile, pensava, nella inevitabile aria dei Fioretti, al lupo della vicina Gubbio che Francesco ammansì.
Tutti ricordiamo quella sua Storia di Cristo, uscita in Firenze nel marzo del 1921, conobbe trionfi internazionali, anche se nessuno oggi ha più tempo di chiedersi se sia un capolavoro o un libro accantonato. È un fatto che quel libro ha aperto a Cristo le porte della nostra letteratura, e Cristo vi è entrato regalmente con le Beatitudini e le parabole del Regno.
Tutta l’Italia timida e dormiente, agnostica o indifferente, sentì il suo nome e ne ebbe quella scossa provocatoria a cui si deve il nascere d’una animosa letteratura cattolica anche tra noi. Valore di un libro o suggestione di un nome, Papini che in quegli anni era ancora il pontefice delle nostre belle e brutte lettere, portò la letteratura cattolica nella corrente della letteratura italiana, e non al secondo posto.
Qualcuno ha dubitato della sincerità della sua conversione? Qualcuno che avrebbe desiderato non fosse stata sincera o che non fosse creduta sincera. Ma, a parte che dopo la Storia di Cristo, tutta la sua attività letteraria, tutto il suo bruciante amore per la poesia e la sua umana tristezza non di essere un uomo finito ma di non essere un uomo infinito, la buttò ai piedi di Cristo, a confermare la sua sincerità basta ricordare la sua morte avvenuta l’8 luglio del 1956. Impietrito dalla malattia, crocifisso a una poltrona, tutto spento e disseccato fuorché nella intelligenza rimasta vivissima e nel cuore rimasto fermamente cristiano. Una sventura, scrisse allora Bargellini, di apparenze bibliche che parve mettergli attorno al capo un alone e consegnarlo al mito.
Corsisti di Assisi o semplici lettori di poesia, a Papini, maestro di scrittura e di vita, ciascuno di noi deve qualche cosa; qualcuno gli deve molto. Scrisse una volta Prezzolini che apprezzare Papini è un premio, quando non è un castigo per i superficiali.
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L’altro letterato che incontravamo ogni anno al Corso — puntuale a giungervi fin dalla prima sera, puntuale alle lezioni, ultimo a lasciare Assisi con un certo magone che il Corso fosse finito — era Antonio Baldini che rivediamo con quel suo volto tondo e pacioso come fosse appena uscito da un dipinto di Giotto. Tanto agitata e tumultuante la figura di Papini, quanto mansueta misericordiosa quella di Baldini.
Temperamento nato all’insegna della tranquillità — come quel Ludovico a cui rubò parte della festosa fantasia — Baldini come letterato entrò subito e quietamente nella nostra tradizione letteraria appoggiata a sette secoli di vita; come uomo di fede entrò subito e quietamente nella tradizione cattolica sorretta da due millenni di civiltà. Gusto letterario e fede religiosa, Baldini li ebbe come dono, come premio.
E si capisce come un uomo così fatto tornasse volentieri ai corsi di Assisi, dove la felicità dei cieli trovadorici e la purezza del paesaggio paiono rendere più trasparente e leggero lo stesso sentimento della verità.
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Dedica di A. ad Antonio Baldini; nell'opuscolo C. Angelini, Ricordo di Romeo Borgognoni, Pavia, Il Regisole, s.d. (ma 1944): «Al mio caro Baldini, | ritrovato sotto le pergole d’Assisi | più bello e vivo che mai. | Angelus sine coelo. | Pavia, 24 settembre 1948»
Biblioteca Comunale “Antonio Baldini” di Santarcangelo di Romagna |
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Buon amministratore del suo gusto e del suo talento, Baldini seguendo la ilarità del suo temperamento, riusciva a ricomporre affabilmente nelle sue pagine la Madonna alla bellezza umana e accettevole di donna, e la donna a purezza di Madonna, fosse Laura o Ilaria o Lucia. I corsisti del 1948 non hanno certo dimenticato quel suo cesellato commento al Vangelo di Luca, l’evangelista della mansuetudine di Cristo: accentuando le parabole del perdono e dell’amore, dove, scrisse P. Nazzareno Fabretti, la dolcezza di Gesù uomo vero e vero Dio, fa pensare al paradiso del cielo e fa paradiso la terra. Per Baldini, il corso era qualche cosa che durava, che continuava anche dopo; lieto se, tornato a Roma, qualche corsista, riconoscendolo, lo fermava per strada e gli ricordava Assisi e un vago di sentimenti che pareva farli parenti.
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E non è possibile dimenticare la perfetta letizia che portava ai corsi Silvio D’Amico, il più convintamente cattolico dei cattolici romani e il più romano dei romani cattolici. Il cattolicesimo era la suprema eleganza dello spirito e per lui romano, non esser cattolico voleva dire non essere interamente romano. Critico teatrale temibile e temuto per la sua competenza e pertinenza del suo giudizio, D’Amico scrisse la Storia del teatro dei Greci fino a noi, un’opera fondamentale che occupa tutta la vita di un uomo. Fondatore della Compagnia drammatica di S. Cecilia in Roma, il meglio dei nostri attori degli ultimi decenni è uscito da quella scuola. La chiarezza era la sua vocazione: chiarezza d’espressione plasmata sulla chiarezza interiore del convincimento. D’Amico aveva quel dono di immediata intesa col pubblico che si chiama simpatia: facesse conferenze o si presentasse alla radio o alla televisione moderatore ai convegni. Anche in Assisi camminava con in tasca e nella mente molti versi dei suoi poeti romaneschi: il Belli, il Pascarella, il Trilussa da cui derivava quel naturale scoppiettio d’arguzie ingegnose che era il sapore e la sorpresa delle sue parole. Lettore amoroso dei nostri grandi poeti, diceva che se Dio ha dato all’Italia Dante e Manzoni, è perché Dio parla italiano.
Alla fine d’un corso, congedandosi da un amico, gli disse, e parve, purtroppo, un presagio: — Quando busserò alla porta del paradiso e S. Pietro mi chiederà che tessera presento per essere dignus intrare, gli mostrerò la tessera di corsista d’Assisi. Grandi uomini? Uomini grandi? Certo grandi credenti, e con loro si sono spente delle luci che nessuno ha più riacceso; son taciute delle tastiere che nessuno ha più riaperte.
Con l’omaggio delle lettere, ai Corsi non è mai mancato l’omaggio delle scienze; e se per le giuridiche nominiamo Francesco Carneluti, principe dei giuristi, nelle scienze positive nomineremo Francesco Severi, principe delle matematiche.
Il prof. Carneluti che aveva insegnato ogni diritto — civile, penale, romano, amministrativo — nelle università d’Italia, non nascondeva la sua soddisfazione di poter continuare a insegnare da questa cattedra di Assisi. Anche i profani sanno la profonda innovazione che Carneluti ha segnato nel suo campo: studiando i rapporti tra Diritto e Morale, ha visto che man mano che la regola etica va acquistando la sua forza, il diritto va via via perdendo la sua ragione. E parve negli ultimi tempi arrivare alla svalutazione del diritto rispetto alla norma morale, parlando con insistenza della miseria del diritto.
Sono ancora famosi i suoi commenti alle Opere di misericordia, al Pater noster. Lo studioso che aveva arato tutto il campo della legge, si era salvato nel cuore un angolo per le lettere e per la poesia. Rimunerativa la sapienza filologica con cui indugiava a frugare nelle etimologie delle parole facendone balenare le radici d’argento. E tutti ricordiamo il commento all’Ave Maria che tenne in uno degli ultimi Corsi, gareggiando in esso la pietà del cristiano col sentimento del poeta. Sicché, sulle sue pagine che restano, vorremmo porre l’omaggio di un fiore di geranio — il fiore di Assisi —, perché l’animo suo era ben aperto alla bellezza di un fiore.
Ma è bastato poco fa aver nominato il principe delle matematiche tenebrose, Francesco Severi, per vedercelo ora venir incontro nell’alta e altezzosa persona, grigia la barba a punta, gli occhi piccoli e pungenti. Eccolo: nel suo irriducibile orgoglio, egli ha qualche cosa da dire. Dice, rubando le parole ad Archimede: «Datemi un punto d’appoggio e io vi solleverò il mondo».
Ricordiamo, tra le altre e sopra le altre la lezione che tenne al corsi del 1948: Dalla matematica a Cristo che, se era il racconto del suo itinerario spirituale, era anche l’esaltazione della progressiva e sempre più accentuata adesione della scienza ai valori religiosi; e nessuno si è scandalizzato nel sentirlo affermare che le verità scientifiche non sono che incompiuti riflessi delle verità soprannaturali ed eterne. Concludendo che la verità quando si identifica con l’assoluto di Dio, è sempre il premio di chi la cerca e sa accoglierla nel cuore puro.
Illuminando il calcolo matematico con la luce religiosa, aveva trovato quel punto d’appoggio con cui si può veramente sollevare il mondo.
Questi sono i nomi di alcuni maestri che hanno insegnato ai Corsi di Assisi. Ce ne sono altri e altri, anch’essi morti nella immortalità, che in Assisi ritrovavano la patria dell’anima.
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È poco più d’un mese che è scomparso l’accademico francese Daniel Rops, l’uomo che ha dedicato tutta la vita a far conoscere Cristo e la Chiesa. Diceva: — Non bisogna vergognarsi di aver fede nel Regno che non è di questo mondo. E la sua vita fu una testimonianza a quella fede. Nell’ultimo articolo pubblicato su un giornale bolognese cinque giorni prima di morire ricordava una visita al monastero di Taizé, la collina di Borgogna dove vive forse la porzione più cristiana ed eletta del protestantesimo, e da cui è partito il primo invito alla riunione coi fratelli separati.
In esso Daniel Rops nomina Assisi: e nella citazione par che voglia riunire i fili di fede, di speranza, d’amore contemporaneamente tesi dalle due colline — la Borgognona e la Umbra — per farne una tela di unità.
Un altro corsista, un eccezionale corsista dovremmo ora ricordare. Ma ier sera, affacciandomi all’Auditorio, l’ho incontrato e non mi pareva nel marmo ma nella persona viva: Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, che, preferendo le «beatitudini» ai «canoni», gli apostoli ai teologi, diceva, e dice ancora: — Cercate quello che ci unisce e non quello che ci divide.
Verità, che danno sollievo anche ai non credenti.
Assisi, 28 agosto 1965.
LETTERA A DON GIOVANNI ROSSI
Pavia, 30 agosto ’65
Caro don Giovanni,
quest’anno, al Corso, ci ho trovato meno cardinali e meno ministri (anche meno vescovi); ma ho l’impressione di averci trovato più Spirito Santo.
Quei tuoi volontari, quelle tue volontarie, dovresti farli parlare un po’ di più: essi ne sono sinceramente pieni. Sai quanti desiderano di sentirli, più degli “oratori”? Stando tra la folla (dov’è sempre il mio posto vero) ne ho avuto la prova. E tu, dopo, nemmeno li ringrazi, e nemmeno ci lasci il tempo di ringraziarli con un più lungo battimani...
E poi — il punto più alto del Corso — quei padri di Taizé¹, belli come figure uscite dagli affreschi del Beato Angelico; e, forse, già di quei “Santi” a cui si sarebbe rivolto volentieri S. Paolo: «salutatemi i santi della Chiesa di Taizé...»². Anche l’Archimandrita doveva pure difendere i diritti di San Basilio..., e io gli do ragione.
Poi le note nuove della “tavola rotonda”, genialissima.
Bravo don Giovanni! è stato un corso tutto nuovo e colmo. Lo ricorderò a lungo.
E grazie della bella ospitalità cristiana, nel refettorio dove credo che per molti si potrà dire sinceramente: «In fractione panis cognoverunt eum»³. Perché il pane, dopo “quella Cena”, è sempre una presenza eucaristica: pane come mezzo di conoscenza. Io non so mai toccare il pane, senza sentirmi almeno in Emmaus.
Di tutto ti sono infinitamente grato. E credimi, con un abbraccio,
il tuo Angelini
“pauper et humilis”.
1. Monastero ecumenico della Francia, fondato dal monaco protestante Roger Schutz.
2. L’espressione è ricalcata sulla conclusione della lettera di san Paolo ai Filippesi (Fil. 4,21-22; cfr. anche 2 Cor. 13,12).
3. Citazione a memoria da Lc. 24,35.
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[da C. Angelini, I doni della vita. Lettere 1913-1976, a cura di Angelo Stella e Anna Modena, Milano, Rusconi, 1985, pp. 449-450.]
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