CESARE ANGELINI RICORDO DI ADA NEGRI
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 141-148.
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La nostra ultima poetessa di fama nazionale. (O, forse, la penultima, se, puntando sulla cronologia, vogliamo tener conto di Sibilla Aleramo morta cinque anni fa, nel ’60). Poi abbiamo avuto scrittrici, e alcune eccellenti (nomineremo la migliore, Gianna Manzini) ma non più poetesse nel senso tradizionale dello scrivere in versi e in rima.
Morì il 10 gennaio 1945, a settantacinque anni, essendo nata a Lodi nel 1870. Aveva appena finito di rivedere le bozze dei suoi ultimi versi, Fons amoris (Mondadori, 1946) dai quali non ci aspettavamo novità, ma restano testimonianza di strenua fedeltà a una vocazione diventata disciplina. Poche vite sono state, come la sua, vissute metricamente, su ritmi e cadenze. Ha scritto anche molte prose, belle, specialmente, le autobiografiche. Ricordiamo alcuni capitoli di Stella mattutina, la sua biografia più distesa; ma noi non riusciamo a pensare Ada Negri staccata dai versi, quasi una meravigliosa condanna. Ella stessa deve aver scritto una volta che le pareva sempre di camminare sul ritmo degli endecasillabi.
A diciotto anni, già ne mandava alla Illustrazione popolare; e formarono il suo primo libro, Fatalità, 1892. Titolo torvo, scettico; e i temi spregiudicati scappano fuori dall’indice come anguille dal canestro. Fatalità denunciava non soltanto una vena, facile, ma un’anima, una voce. Che squillò, libera, audace, e le acquistò subito il nome di poeta, che, verso la fine del secolo, pareva più santo, meno sciupato. C’era il Carducci che vigilava a proteggerne la serietà.
La Negri divenne popolarissima e amata più di altri poeti che forse non valevano meno di lei. Vi concorse anche il dato biografico. Che il poeta venisse dalla cattedra di Bologna o magari di Catania, si capiva: l’uomo di studi, i fastigi della cultura e dell’insegnamento ecc. Ma che venisse da Motta Visconti, un paesello della Bassa lombarda incavernato tra risaie e boscaglie; che fosse una maestrina elementare, sorprese e accrebbe l’interesse attorno alla sua persona, quasi un elemento di favola.
Ma più vi concorse il mondo dei suoi canti, i suoi temi, che non erano d’amore, come si poteva pensare trattandosi d’una fanciulla; erano temi proletari, interpretavano con indomita foga la nuova ansia sociale, le rivendicazioni del lavoro, e la sua persuasione di accompagnare la marcia degli operai verso le giuste ascensioni:
E i miei versi andarono pel mondo
dalla potenza del dolor sospinti,
e parvero campane
a martello, e le case senza pane
e senza foco, e la miseria inane
dissero, e l’agonia torva dei vinti.
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Nel ’96 uscì l’altro libro, Tempeste. Insisteva sulla fisionomia già nota, selvaggia, strana. I critici non sapendo come classificarla, la dissero indipendente. Certo non rientrava nell’educazione letteraria «classica» e dei maggiori, nonostante la loro vicinanza autorevole e imperiosa: Carducci, D’Annunzio, Pascoli. Pareva ignorarli; li ignorava. Tutt’al più, si poteva pensare a un Rapisardi, quello del canto dei minatori. I suoi versi nascevano dalla violenza del sangue, «sangue di popolana ardente e fiero». Corsero delle formule: poeta degli umili, dei vinti, la vergine rossa... Fu amata, esaltata, servì alle celebrazioni dei calendimaggi. Ce ne ricordiamo come di cosa nostra, della nostra prima giovinezza. Lei stessa ebbe l’inebriata sensazione d’un’aureola che le circondasse le chiome, negrissime; e più tardi confessò che, se fosse scomparsa dopo Fatalità e Tempeste, sarebbe passata alla leggenda.
Forse. Ma i nostri tempi non hanno più fede nelle leggende. Con disposizioni canore notevolissime, i due libri soffrono di un evidente equivoco: poesia in funzione sociale o sociologica, poesia rivendicativa, e perciò cattiva poesia, legata a un programma, a una condizione di tempo provvisorio. E l’amarezza degli accenti, il coraggio dell’ingiuria, dello scherno, non permettevano quasi di notare sotto il rumore tribunizio, i ripieni e le zeppe, la sciatteria della lingua approssimativa e malviva. Interprete dell’epoca socialista, aveva patita la giustizia ma non la poesia. Oggi, Fatalità e Tempeste sono una lettura massacrante: vocabolario povero, rime squallide e previste, assenza di stile, declamazioni; versi appassiti insieme coi garofani rossi che in quei calendimaggi s’infilavano all’occhiello della giacca. Lei stessa, la Negri, nei suoi ultimi tempi non voleva più sentirne parlare.
Col terzo volume, Maternità (1904), celebrazione dell’amore come grandezza di donna (molte cose sono entrate nella sua vita: ha sposato un uomo, è diventata madre, ha divorziato) esce dalla posizione ribelle e, più riconciliata, va verso un mondo di sentimenti e temi più umani. Forse giova indicare nel libro i Canti della culla e i Canti del ritorno, dove i moti istintivi si sono purificati in un ordine di discorso poetico ed è lecito trovarvi qualche virtù di gusto e di misura. La maternità le ha placata la vita, e la vita le affina il canto.
Affinamento che continua in Dal profondo (1910) dov’è nostalgia d’arte pura e maggiore attenzione e qualche vero principio poetico.
Nel ’19 esce il Libro di Mara, che rappresenta un’esperienza d’amore incontenuto. È il libro nato dalla carne, dalla passione; il dolore lo fa sacro («Tu lo sai, se ho peccato, fu per amore»). E c’è una certa novità, non soltanto nel lungo verso alla Claudel ma nel linguaggio ricco, nei movimenti più duri, in certa potenza di immagini. Tuttavia la cronaca passionale non è interamente assolta in arte; e il libro resta un documento umano, un dato che aiuta la biografia.
La Negri ha patito l’amore ma non ha ancora patita la poesia. Ha ormai cinquant’’anni, con un nome di grande popolarità, ma non ha ancora scritto il libro che ci consegni la sua anima vera. Dopo il momento socialista, anche il momento passionale si chiude con qualche delusione.
Pure, nella sua strenua devozione alla poesia, c’era il pegno di un incontro sicuro con lei: doveva venire il momento in cui, fatto silenzio dentro e attorno a sé, ella sarebbe entrata nella zona rarefatta della contemplazione, raggiungendo il riposo dello stile. Se non temessimo d’incomodare cose troppo alte, vorremmo dire che, come ai tempi di Saffo, la rivelazione del poeta, anche per lei, è nell’ultimo canto: il quale, per la Negri, è in Vespertina (1931) e ne Il dono (1936). La Negri ora sa che la poesia non è un manifesto sociale né l’affanno amoroso, ma è patimento del fatto espressivo: «Non sapevo che la Bellezza fosse sì gran patimento». È uno dei suoi versi che bisogna tenere presente. Ricca d’intelligenza, di sensibilità, ella ha assorbito tutte le esperienze stilistiche del nuovo tempo, s’è impossessata di tutti i segni del gusto corrente. La malattia della grazia espressiva le ha fatto trovare fili di una melodia felice, fili d’un incantesimo per l’ordìto dei suoi canti. Si è anche arricchita dell’esperienza religiosa. È il suo momento mistico, che è aumento d’anima e d’arte.
Chi le visse vicino nei suoi ultimi anni, ha avuto il senso nettissimo di questa sua nuova rivelazione... La rivedo nella mia città che era diventata un po’ la sua («Rossa Pavia, città della mia pace...») camminare rasente i muri, improvvisamente fermandosi a guardare la posterla d’un monastero o l’erba d’un sagrato. Piena d’anni era, ma ribelle a invecchiare. Diritta e invitta; pallidissimo il volto, tutto osso e fermezza, balenato da occhi grandi e bizantini difesi da sopracciglia pesanti. La testa, un cespuglio nevicato; da ricordare per contrasto, a chi l’aveva conosciuta quarantenne, la massa dei capelli neri a riflessi azzurri come l’ali dei corvi. Correggeva la persona tozza e tracagnotta con movimenti lenti e dominati. Abitavano in quel suo portamento la dignità di una regina e la fresca audacia della zingara. E non l’abbiamo vista, un giorno d’estate, fermarsi alla fontanella pubblica, premere la bocca alla cannella, lasciando poi sgocciolare l’acqua per il mento e gettare attorno quegli occhi magnetici in sfida a passanti? Bastò quel movimento poco controllato, perché dalle spalle le si scaricasse improvvisamente tutto il peso degli anni e delle sofferenze e delle esperienze e ci ribalzasse davanti, nel suo corpetto rosso, la vergine ventenne, la leggendaria monella di Fatalità e Tempeste.
[1965]
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