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CESARE ANGELINI

DOV’È BALDINI?

In C. Angelini, Il lettore provveduto,
Milano, Il Convegno Editoriale, 1923, pp. 144-150.

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Antonio Baldini


Da un paio d’anni in qua il letterato Antonio Baldini non si fa più vivo su nessuna delle riviste e rassegne che l’accoglievan con molta ambizione e un poco anche lo contendevano. Che è, dunque, accaduto? I più scaltriti e gli iniziati ai secreti del mondo letterario, dicono che un bel giorno Baldini, stufo della vita di Roma pettegola e accademica come qualunque altra, abbia preso il treno alla stazione di Termini riparando in Alta Slesia, commissario dei carboni per conto dell’Italia.
Ora nessuno penserà certo a Rimbaud che, a venticinque anni, dopo essere vissuto esclusivamente di poesia, l’abbandona definitivamente e scappa in Africa a fare il mercante d’olio e di grani tra i negri. Baldini non ha ancor scritto il libro delle «Illuminations» per concedersi questo diritto e nessuno dei suoi lettori, rimastigli fedeli con un po’ di nostalgia, gliela perdonerebbe mai.
Però se Baldini non ha ancora scritto le Illuminazioni, ci ha dato delle pagine illuminate che son tra le più chiare e fresche di quest’ultima stagione. Sicché, mentre lui è assente, forse portando in cuore un suo vasto sogno faraonico (il sangue di Baldini non manca di mescolanze orientali) val la pena di discorrerne un poco; tanto più che il parlar di Baldini è sempre una cosa gioconda.


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Dei sette ch’erano fino a ieri gli scrittori costanti e consentanei della «Ronda» (poi sono entrati elementi spuri ed eterogenei) non sapremmo dire chi possedeva più grande persona o più sincera cultura o bravura più agile; però se dovessimo dire chi portava con maggior chiarezza il proprio nome di scrittore, non faremmo fatica a indicare Antonio Baldini.
Penso al lento uscire della rivista romana, che non è soltanto la più macchinosa del tempo presente, ma senza dubbio la più seriosa: dove tra gli scritti tardissimamente stillati da gente usa a sedere su freddi sedili di marmo per creare un doveroso distacco tra sé e la propria materia, le pagine di Baldini, che ci cadevan rare, eran come solate, lumeggiando tutta la rassegna. Non so mai scordarmi di un numero, quello che portava «la parlata di Giotto a Cimabue» nell’osteria del Mugello, la quale m’è entrata così fissa nella fantasia come il ricordo di certi lunghi tramonti che il sole s’è incantato in cielo e non vuol più andar sotto.
Chi, come Baldini ha dentro di sé un po’ di cielo, è di giusto che debba risplendere.
All’incontrario di parecchi suoi colleghi di lavoro, i quali su l’orme dei letterati del settecento, son andati in Francia e in Inghilterra o altrove, riportandone poi il dono delle lingue, Baldini s’è piantato saldamente nella nostra terra, brillando di gioia sotto la sua vite e il suo fico; da sotto al cui pedale dissotterra pian piano, ché la pigrizia è tanta, la parte del suo tesoro.
E in verità, noi non sappiamo quante lingue possegga o quante letterature conosca: sappiamo però che possiede e conosce molto bene quella di casa nostra; e questo ci basta. Baldini ha in bocca un filo d’oro che lo lega sinceramente alla nostra tradizione in quanto fu allegramente riveduta e messa in musica da un tal Giosuè Carducci.
S’è fatto un nome e suscitato un vespaio. Giuriamo di non volerci inasprire in esso; trattandosi che noi teniamo affar ridicolo il chiedere al Carducci perché — adempiendo la sua personalità — ha fatto una qualità di poesia piuttosto che un’altra; o perché scrivendo spassosamente di critica letteraria non ha adoprata la prosa del Manzoni. L’importante è vedere se il Carducci ha creato poesia, arte, spiritualità; ben sapendo che di lui, quando sia spogliato d’un certo vano rumore, resta sempre quel suo gran cuore che in certi giorni di sole a sentirlo a cantare in musica era pure un bel piacere. E, anche a volerne scordare la verdezza dell’invenzione, c’è in quella sua prosa tal nobiltà di movimenti e di effetti ritmici che è già di per sé consolazione di poesia, e di quella che non intarla.
Il che si diceva ora per concludere che negare il Carducci, o saltarlo via a piè pari come vorrebbero taluni, significa negare almeno tre dei quattro o cinque scrittori che oggi ci permettono di non vergognarci in faccia ai forastieri che capitan qui.
E così ci è accaduto senza stento di collocare Baldini nella stagione da cui prende il colore e nella famiglia di spiriti alla quale appartiene per ragione di sangue: tutta gente a cui è rimasta negli occhi la chiarità dei fanciulli e dei casti. Da qui appunto Baldini deriva la sua consolazione e salute. Ché in lui il fatto artistico non è un problema da risolvere ma un piacere schietto da godere. Baldini guarda le cose, e le cose risplendono con gioia per lui che le guarda e chiama. Gli amanti delle complicazioni sempre in cerca di secreti da svelare o di accidenti da mettere in chiave, devon trovarsi a disagio davanti a questa cosa trasparente che è Baldini. Non complicazioni di lingua o di favola o di stile, come, del resto, s’addice a chi deriva i suoi benefizi dai grandi maestri; i quali non diciamo che cantano sempre, ma han sempre la voce così chiara che, anche solo a parlare, fa musica.
Ora diremo che nei suoi libri — tre in tutto: Umori di gioventù, Salti di gomitolo e Nostro purgatorio — c’è delle pagine che, a scriverle, Baldini non ha posta più attenzione o tempo di quello che è bisognato per la stesura materiale; e però di poco rilievo, che se le porta il vento. Massime negli Umori, al tempo cioè che l’ispirazione gli pigliava la mano; e allora era uno scrivere impetuoso e ozioso come un pianto di un bimbo che par voglia affogare tra la sua lagrimosa abbondanza. Ce n’è altre, le quali hanno un valore puramente musicale, tant’è vano l’argomento e spassosa l’occasione del discorso: pagine, insomma, che non distan molto, per valore e colore, dalle cicalate cinquecentesche e ci mostran l’autore a corto di soggetti. Nel che (e lo diremo di spasso) è precisamente il ridicolo di Baldini e della sua figura. Il quale, pur di dire qualche cosa, cava partito da tutto: magari dai proverbi scritti sulle striscioline dei gianduiotti, o dalle letture che fa. Ma ogni cosa che dica, Baldini l’indora o l’inargenta, e sempre in un modo che è suo.
Questo ci porterebbe a dire come il nostro uomo ha sempre superata la tentazione contro i modelli esteriori, fin da quando era novizio nell’arte del nero sul bianco. E così, in un tempo che quasi tutti ci cadevano, egli ha saputo fiutare e saltar via i trabocchetti d’annunziani o, più tardi, i futuristi; come anche le somiglianze che si vorrebbero trovare tra lui e Panzini, son piuttosto d’anima che di derivazione.
Per lui il ladro peggiore è quello di casa, cioè i pericoli del suo temperamento. Vogliam dire quel prendere, che spesso fa, un piacere quasi vizioso da particolari vagheggiati con troppa insistenza e per i quali faccia dei veri peccati di gola; quello spirito ghiottone anche nel considerare gli spettacoli più tristi. (La guerra per esempio, per Baldini è un pretesto qualunque di dire. Parla di guerra come avrebbe parlato, mettiamo, delle mense cinquecentesche, che le cene erano lente, e tra un piatto e l’altro e tra il mescere dei vini preziosissimi i cavalieri facevan di bei complimenti alle dame: e così nascevano le laudi e i madrigali zuccherosi, come i fichi con la gocciola, che mi vien voglia di leccarmi il dito). E poi, per consolare il suo naturale voglioso di intimità, quel vezzeggiare e tirar la lingua a partito troppo privato; così che spesso, per eccesso di fiducia nelle proprie possibilità emotive, rischia di attribuir vita bastante a certe apparenze del mondo esteriore che nei momenti di sua pienezza gli paion significativi di per sé, quasi senza studio o scelta di espressione. Difetti d’eccesso, come vedete; ma che nei lavori d’arte lo posson menare verso l’abilità o la faciloneria. Verso il peccato.
Però, quando Baldini, nei momenti più buoni, riesce ad acquistar una certa impassibilità, necessaria per guardare all’insieme più che al particolare, e a ordinare le cose in un disegno che le stringa; allora anche le particolarità più vive e immediate del suo temperamento gli entrano in diffidenza, e saltan fuori pagine che non hanno il colore delle cose transitorie né fatte a solo spasso dell’ingegno. Vorrei ricordare alcuni capitoli di Nostro Purgatorio o la parlata dei due pittori in Salti di gomitolo dove la sobrietà del colore e della musica non sopraffacendo la magrezza del disegno, permette di vederne meglio la solidità fantastica.
Così, bel bello e come per divertimento, mentre Baldini è lontano, noi abbiam avuto caro di dir qualcosa di lui e della sua arte spassosa; senza peccare, crediamo, contro il comandamento dello Spirito Santo, il quale ci avverte di non parlar male dei sordi e degli assenti.

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Antonio Baldini, Michelaccio, 1924; copia con dedica autografa di Baldini ad Angelini, con la quale Baldini risponde a queste pagine angeliniane, Dov’è Baldini? Il volume presenta numerose sottolineature di mano angeliniana.

Archivio “Cesare Angelini”

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  Vedi anche Antonio Baldini in Assisi ai Corsi della Pro Civitate Christiana (anni ’40)