Scriverla in capo a una pagina, Assisi è parola che mette l’aureola.
Assisi è una delle poche capitali del mondo che non si misurano sulla popolazione che contano o sullo spazio che occupano, ma nel tempo e in profondità. Il tempo profondo di Assisi.
Assisi è un approdo. Uno vi giunge e sente d’aver trovata una patria; e, se vi morisse, gli parrebbe d’essere sepolto in chiesa. Non per questo la direi una città santa come Gerusalemme, per esempio, che lo è per definizione; piuttosto città mistica, per quella sua chiara letizia propria di misticismo italiano che suppone, sì, le curie amministrative e i pulpiti teologici, ma li risolve a modo suo, nella teologia dell’amore. Senza Asssisi, più facilmente il mondo avrebbe dimenticato le «beatitudini» evangeliche.
Da quanti anni mi arrampico per questa fertile costa? E sempre mi piace salirvi da Santa Maria degli Angeli, quando fa sera e la valle si colma di campane e campanelle, e la collina s’accende di lumi che, tremolando nel vento, paion muovere il monte che le sta alle spalle, ed è il Subasio.
Alla prima svolta della salita, appare la gran mole del Sacro Convento: una parete di monte traforata, meglio, un’immensa arpa o tastiera d’archi e colonne che guadagnano lo spazio sulla ripa scoscesa. È l’eresia di frate Elia che ci viene incontro prima della verità di Francesco; ma è proprio l’eresia tradotta in termini architettonici, che ha salvato nei secoli la verità. La vista dà subito il senso robusto della città medievale che, posata sulla costa, ha sue radici nel monte a cui si addossa. Assisi è una salda compagine di case costruite con la pietra rosata del Subasio; dunque tutte uscite dal suo seno. Al solito, Dante ha visto bene; «Là dov’ella frange / più sua rattezza»; dove la ripidezza si rompe e lascia che la città s’adagi nello spazio consentito dall’ubicazione del monte, senza possibilità di sconfini e di periferie.
Entrato in città, il visitatore respira una letizia che viene dalle case, dalle piazze, dalle terrazze straboccanti di gerani e garofani, dalle vie ripide, dalle torri, dai muri di pietra che son già architettura, saggezza, con quelle porte e finestre asimmetriche ma essenziali come l’occhio e l’orecchio nel corpo umano. O forse, viene dal panorama: la ricchezza d’Assisi è la vista panoramica offerta dalle case che accompagnano le vie e ogni tanto s’interrompono per aprire improvvise vedute sul cielo e sul paese.
In Assisi, il visitatore chieda al Santo una giornata di vento e sole (quale altra grazia si può chiedere nella città del Cantico?) e la rivelazione seguirà; dico la novità della valle spoletana con quel variare di case coloniche posate tra gli ulivi e le viti, quell’ondeggiare di colline vicine e di più lontani monti, che poi ritrovi a Spello, a Spoleto, a Perugia nei dipinti del Lippi, del Pinturicchio, del Perugino, come fondali a miracoli di Santi e di vergini e paiono acquistare una più pura ed estatica bellezza. Da questi cieli Dante ha avuto ispirazione e colori per più di un canto del suo Paradiso.
Assisi è il capolavoro di un Santo che non cessa s’essere poeta; e poiché in Italia i capolavori nascono dalla perfetta intesa d’un poeta e d’una donna (Dante e Beatrice, Petrarca e Laura...), Assisi è nata da un dialogo tra Francesco e Chiara, ed è rimasta nell’incantamento di quel dialogo che dura da un millennio; e un volo di colombi lunari che si distacchino dalla torre del Comune quando suonano le ore, ancora oggi pare evocare quell’aura magica di rinnovamento, quel soffio innocente di origini religiose, allungando su noi l’incantesimo di quei plenilunî.
Assisi non è tanto dei suoi abitanti — gente, del resto, che abita le case dei santi con estrema naturalezza — quanto delle migliaia e migliaia di pellegrini che la visitano e, visitandola, la conservano e perfezionano. Assisi è troppo impegnata a salvarsi come santuario e come pinacoteca, e gran parte del suo fascino le viene dalla presenza dei più bei pezzi della nostra antica pittura: Cimabue e il giovane Giotto, il Martini e il Lorenzetti e la confraternita dei pittori minori; gente completa, per la quale la fede ispirava l’arte e l’arte interpretava la fede; e il dipingere bene era un vivere bene.
Rimasta sempre monacale, senza litigio e senza polemica, pure in tempi di debole fede religiosa, il suo motto è ancora Pax et bonum, come è scritto sull’entrata dei conventi. E non è raro trovare case private che su porte e finestre recano incisi versetti di salmi: In Domino confido... Spes mea in Domino... che aiutano a capire il senso estatico della città, la quale in talune ore del giorno pare tutta librata nella fiducia di quella preghiera e aperta a quella speranza. Sono le ore in cui uno sente fastidio di tutta la letteratura, sua e degli altri, e s’accorge che solo un canto può essere la lode vera d’Assisi: quello intonato da Lui, il capo spirituale della città: «Laudato sii, mio Signore... con tutte le tue creature». Le quali, riportate dal suo fervore vicine alla creazione, paiono nuovamente cavate dal nulla e chiamate a risplendere di Dio.
Ad Assisi si torna e si ritorna come presso i capolavori, che sono ogni volta nuovi; e comunicano un senso di grande felicità che è poi la rivelazione della loro perfezione.
Nel creare Assisi e il suo paesaggio panoramico, la fantasia di Dio ci deve aver messo un più d’amore: entrava in un suo disegno particolare: diventare la collina della seconda rivelazione, Francesco come Cristo, alter Christus. E in Assisi ogni cosa è bella ed è grande per lui. Lui ha dato profondità ad Assisi divenuta, come i Luoghi Santi, un paese dell’anima.
Dicono che il Cantico delle creature ha inaugurato una poetica nuova. Dicono poco. Il Cantico non ha solo avviata la poesia alla felice spontaneità del dolce stil novo; questo, se mai, accadeva come effetto secondario e pressoché inconsapevole. Il Cantico stacca dal cielo una parola profondamente nuova, un nuovo sentimento del mondo; crea un’intesa, una armonia cosmica, intuendo che il vento e il sole e l’acqua e ogni creatura visibile o invisibile ci è sorella, fratello.
Con la sua irrepetibile grandezza, la Divina Commedia non ci ha dato una parola così nuova, una verità così umana. Davanti a Francesco, Dante si è sentito in soggezione; lo ha visto d’una qualità superiore alla stessa misura comune dei santi; d’un valore cosmico: «Nacque al mondo un Sole...».
Ho visto talvolta accostare il carducciano Cantico dell’amore al Cantico delle Creature, e presentarli come due «tra le più alte pagine della poesia italiana ispirate dall’Umbria». Imprudentissimi accostamenti. Ci si contenti di dire che il Canto dell’amore è nato, sì, in Umbria; e, insomma, fu respirato in quell’aria di alta ispirazione. Gli si fa già un bell’onore. Il Cantico non è una poesia che sopporti paragoni: è una «tavola» di poesia e di civiltà.
In Assisi, per qualunque via uno si metta, recupera subito un tempo antico, che può essere, poniamo, il 1210, tanto lo favoriscono belli effetti di luce, d’atmosfera; e c’è caso che, sboccando su una piazza, per forza di suggestione riveda la scena di Francesco che, davanti al vescovo della città, si spoglia dei suoi abiti e li restituisce al padre. Ogni finestra ogivale o loggetta, ogni arco con vasi di fiori — il fiore d’Assisi è il geranio — appesi a ferri battuti, fanno di Assisi una città leggiadramente ricamata sul punto che è suo, il punto d’Assisi; e se nell’interno della casa una donna si muove o parla, pare donna che canti in un giardino.
Quando D’Annunzio dannunzianeggiava, diceva che in Assisi ogni uomo è un frate minore e ogni donna una clarissa... Certo in Assisi il «turista» si sente improvvisamente «pellegrino». È il fascino immanente di questa terra che prende lo spirito di ognuno e lo piega alla contemplazione, alla adorazione. In Assisi uno è sempre ispirato.
Gli stessi negozi perdono, per così dire, il loro aspetto pratico e utilitario. Vetrine piene di «vedute», tovaglioli ricamati, tavolette e maioliche coi versi del Cantico; ma è tutto un modo di celebrare Assisi. Non si vende, si offre. E anche questa è la gentilezza d’Assisi.