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CESARE ANGELINI

LA BICICLETTA ASPETTA IL SUO BIOGRAFO

In C. Angelini, Acquerelli, Brescia,
La Scuola Editrice, 1948, pp. 90-93.

***


Un ciclista sullo sfondo di Pavia negli anni ’50


Tardi t’ho conosciuta, o balzante bellezza di centauro...
Ma questo è il tono eccitato col quale attaccano le odi di Pindaro o le preghiere ai piedi del Partenone, non le umili bucoliche. Dunque, cambiamo tono.
Scrisse una volta Oriani: «Come si chiamerà il poeta italiano che fra non molto scriverà l’ode della bicicletta? Virgilio cantò il cavallo, Monti il pallone aerostatico, Carducci il vapore, molti la nave; nessuno ancora la bicicletta». Chiara — commenta Renato Serra, pedalatore elegantissimo — la tacita supposizione: nessuno, cioè, io. E scrisse il romanzo della Bicicletta, 1903. Molte pagine divaganti, stravaganti, poche le buone; e rade come fiori tra la sabbia. «Volare come un uccello, ecco il sogno; correre sulla bicicletta, ecco il piacere. Si torna giovani, si diventa poeti. Al mattino il fresco dell’alba pare più fresco in sella...» Oh perché non continuare sempre così?
Un altro romagnolo, lo Stecchetti, due anni prima aveva raccolto prose e sonetti in onore del «ferreo corsiero». Dice la saporita prosa «Questa è la pienezza della vita». E un sonetto chiude contento di sé e delle sue robe probe, vecchiotte:


Sovra il ferreo corsier passo contento
come a novella gioventù rinato,
e sano e buono e libero divento.

Sanità, bontà, libertà, che può dare di più la bicicletta?
Un terzo romagnolo l’amò di amore anche più forte, il Panzini, che ne scrisse con la sua penna leggera, con umanità gentilissima, nella Lanterna di Diogene, nella Bicicletta di Ninì; ma un po’ tutta la sua prosa balena della rondine d’argento. La quale era per Panzini ginnastica del corpo, fonte di esperienze, di realtà vive.
Né poteva dimenticarla il Pascoli, non foss’altro come voce da aggiungere alla sua onomatopeica.


Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Più lenta, la piccola squilla
dà un palpito e va...
dlin, dlin...

Pare dunque che la gente di Romagna sia stata la celebratrice della bicicletta. Pure le cose più fini e aderenti, le disse un torinese, Guido Gozzano, che per primo, fra noi, introdusse nei versi il neologismo ciclista («subitamente in vista — m’apparve una ciclista...») e l’altro, bicicletta («la bicicletta accesa — d’un gran mazzo di rose»). E ne diede una definizione vaghissima, che è un’invenzione: «un non so che d’alato — volgente con le rote». Baleni, bellissimi. Ma la bicicletta aspetta il suo biografo. Biografia che potrebbe cominciare da precedenti lontani. Da quel lontano 24 febbraio 1849 quando Keats scriveva alla sua sorella Georgiana: «La novità del giorno è una macchina chiamata velocipede (o pié veloce, all’eroica maniera d’Achille); è un veicolo a una ruota che bisogna inforcare come un cavalluccio, sedendoci su, e si fa camminare spingendo con i piedi, e tenendo tra le mani una ruota uso timone. Può fare fin sette miglia all’ora...» Si trattava del triciclo, che era l’equilibrio come fatto. Pare un linguaggio da filosofi bergsoniani, crociani. Ma è pur vero che l’equilibrio cessa al momento che cessa l’azione. La bicicletta è sintesi di equilibrio, suscitando il miracolo di certi fatti nascosti, di mani occulte che sorreggono: la parabola evangelica del camminare sulle acque; se hai fede, i tuoi piedi calmano l’onde e cammini; se cessa la fede, sommergi. La bicicletta è la descrizione della energia in equilibrio, l’esaltazione dello slancio, l’immagine visibile del vento. Tendenzialmente vola; rade ma non tocca terra. Vola, cioè ascende. Ha la gentilezza ardita di volersi appoggiare ai cuscini dell’aria, morbidi esili soffici, diffidando del terreno. Nuda come un ponte, rigida come un cerchio, tuttavia si curva, si piega, ripete la linea del levriere, elegantissima. Ha la bellezza delle forme elementari, naturali e insieme geometriche. Si smaterializza, si scorpora, nasconde se stessa nella trasparenza della velocità e dello slancio. Si può dire di lei quel che si dice del violino; ha raggiunta la sua perfezione per sempre; ha toccato il limite della semplicità. E’ definitiva nel brivido metallico della sua nudità balenante. E ha il pudore del silenzio. Lo rompe solo col suo trillo fresco, garrulo, primaverile, femminile, uccellesco. E’ gaudiosa, conversativa, spiritosa.
Ogni giro di ruota è un discorso, teso su movimenti ritmici. Una sua piccola imperfezione, la denuncia subito con uno strano strido che dà pena, come di colomba colpita, di allegria ferita. Ha una sua ortografia esatta. Nel segreto dei suoi congegni è d’una delicatezza squisita. La scorrevolezza dei suoi perni emula quella d’un orologio fabbricato nella sua più pura atmosfera delle alpi svizzere. E’ la silenziosa compagna del viaggiatore: sollecita delle sue puntualità, partecipa dei suoi pensieri ma non li turba. Continua a correre da sé. I suoi incidenti sono le spine, i chiodi, i sassi aguzzi: le amarezze della strada. Anch’ella ha i suoi momenti di stanchezza, d’accasciamento: le gomme a terra: e quella sua aria di creatura sconfitta, umiliata, dà la sensazione di partecipare a un umano destino.
Tardi t’ho conosciuta, o eccitante bellezza di centauro, e il piacere che dài: il diletto d’una partenza nel vento che m’investe e lava e stinge d’ogni stanchezza e viltà. E l’abitudine all’attenzione della distanza più piccola, l’educazione al senso della disposizione ritmica, e precisione di controllo, e prova di resistenza, illusioni piacevoli che rinfrancano il coraggio. Poiché la bicicletta è un modo di vivere, una passione, un mistico atto di ascensione, un correre religioso, una verità nuda. Ch’io tocchi la mia rondine d’argento e io ritornerò giovane ancora.

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  Vedi  C. Angelini “incontra” la bicicletta.