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CESARE ANGELINI

CERIMONIA A VOGHERA

In C. Angelini, Il piacere della memoria,
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1977, pp. 73-79.

Cosa sia questa «operazione» che il Rotary di Voghera ha combinato con il Rotary di Manosque, ce l’hanno detto ora il Presidente e il Governatore del sodalizio: creare un vincolo d’amicizia tra le due città nobilmente provinciali di Manosque in Provenza e di Voghera in questo favoloso Oltrepò.
E poiché nella «operazione» sono stato, in parte, coinvolto anch’io modesto consumatore di poesia, permettetemi, amici, che vi ringrazi d’essere entrato negli annali della vostra associazione, nella cronaca della vostra città, dove si sente tutto il piacere della provincia, nel respiro largo della campagna e delle montagne vicine.
La vostra città, alla quale la letteratura non è estranea. Dov’è quella Carolina Invernizio i cui rimanzi d’appendice leggevamo, ragazzi, al lume di candela? E on è oriundo di queste parti, il poeta F. T. Marinetti, ingegno abbagliante e esplosivo, e fondatore del futurismo? Ed è ben vogherese il finissimo Franco Antonicelli, poeta e squisito lettore di poeti, che di recente ha pubblicato una dozzina di liriche di una grazia dolente come rose ferite dalla loro stessa bellezza. Fino al più giovane Alberto Arbasino e il suo ingegno di romanziere che conta e importa e fa rumore nelle lettere d’oggi. So che nel silenzio delle vostre biblioteche vivono anche storici provveduti che con ispirazione comunale hanno raccontato la storia dei vostri castelli e delle vostre montagne. Né posso dimenticare che, giuntovi da Livorno, qui visse per oltre trent’anni Dino Provenzal, dantista e manzonista tra i più fini, recando nella sua persona solitaria l’ombra gloriosa dell’amicizia col Pascoli e col Carducci.
Ora non stiamo a perdere tempo a dire che i Presidenti del Rotary avrebbero fatto meglio ad assegnare il premio a un nome meno fragile del mio. A me – ripeto – non resta che il dovere di ringraziare dell’onore che mi viene fatto, e ringraziare con pudore; perché esso mi giunge in un momento in cui – messo il piede sul viale avanzato del tramonto – più che i propositi per l’avvenire mi restano i ricordi del passato, sacri come l’ultima luce.
Mi sento tuttavia confuso nel vedere il mio nome chiamato vicino a quello di Jean Giono, accademico Goncourt, che nelle sue pagine pubblicate nelle Collane degli Immortali, porta tra noi lo splendore dei cieli trovadorici di Provenza e le fragranze degli antichi verzieri che il Rodano bagna e che il Mistral cantò.
Jean Giono: autore di bei romanzi come il Canto del mondo, la Menzogna di Ulisse, e del Viaggio in Italia; oltre che storico della battaglia di Pavia – Le disastre de Pavia – che a qualche storico esigente parve piuttosto un fantasioso arazzo. Dunque, sempre testimonianza del suo impegno d’artista.
Qualcuno, generosamente ha voluto trovare qualche affinità spirituale tra i miei piccoli scritti e le sue pagine grandi; quasi una somiglianza d’anima; scoprendola soprattutto nell’amoroso gusto che ci porta a insistere nel descrivere, lui la sua Provenza, agreste e fluviale, io la mia Bassa e il paese nativo e il ceppo terragno e campagnolo. Ma devo pur affrettarmi a riconoscere in Jean Giono l’alto artista e la sua vivissima vena di narratore dentro uno spazio nettamente lirico; e in me l’artigiano solitario e nascosto. Una cosa può essere tuttavia vera: che tanto l’artista quanto l’artigiano se scrivono in fedeltà della propria terra, la loro pagina non è solo un esercizio letterario, ma un servizio fatto al paese a cui sono fedeli. Non è soltanto greco il concetto che l’artista, grande o piccolo che sia, nel momento di adoperare il suo talento, non può non sentire che compie un atto votivo alla terra in cui vive e lavora e da cui – come scrisse Emilio Cecchi – ha avuto la vita e l’ispirazione.

Ma, al di sopra dei nomi che spesso sono dei pretesti, che conta è che un così alto intendimento com’è quello di unire in amicizia due città lontane, sia stato affidato a una idea di poesia; dico all’istituzione delle lettere che nella considerazione comune – dal Parini al Foscolo al Carducci – fu sempre inteso come un ufficio sociale e civile e dunque umano. Ed è pur vero che da Cicerone a Quintiliano, le lettere vengono più interamente definite humanae litterae o, senz’altro, humanitas: poiché ci fanno o dovrebbero farci più umani. Dice bene il Pascoli: genus humanum humanius; fare il genere umano più umano. Insomma, aiutarci a raggiungere una qualità di vita più alta e civile, al di sopra degli istinti e della squallida ricerca dei beni materiali e inani.

E il discorso si fa più grato e commosso se insistiamo nel precisare che il dono di questa intesa italo-francese è offerto nel nome e nel ricordo di un poeta provenzale. Ci dà occasione di dire quanto le lettere italiane nel loro albore devono alla poesia provenzale. I nostri ragazzi di Liceo e delle Magistrali potrebbero aiutarci a ripetere il capitolo della sua influenza sulla poesia italiana delle origini, a parlarci dei trovadori in lingua d’oc che, tra il mille e duecento e il mille e trecento scesero dalla Provenza e furono ospiti nei castelli settentrionali, alle corti dei principi piemontesi e lombardi, cantandovi i loro sirventesi e le loro còbbole giulive. Maravigliosa stagione, quando da noi poeti e rusignoli cantavano tutti in provenzale, e le voci di Giaufré Rudel principe di Blaia e quella di Sordello da Goito mischiavano in un unico accento i medesimi temi e motivi: fosse il compianto di Melisenda regina di Tripoli, o il pianto in morte di ser Blacatz: una fusione di territori poetici. O quando dalla corte del Monferrato, Rambaldo di Vaiqueraz scambiava rime d’amore con Alberto Malaspina signore di Pavia. Così nasceva la gaia scienza e si creava il manifesto dell’amore cortese che tanto vivamente doveva influire sulla formazione del Dolce stil novo, che è il principio della nostra poesia come Dante ne è il vertice. Dante, che nemmeno lui si sottrasse a quella ispirazione, e nel canto 26° del Purgatorio colloquia con Arnaldo Daniello e lo fa parlare in provenzale:

Tan m’abellis vostre cortés demàn
qu’ieu no me puesc ne voill a vos cobrire:
jeu suis Arnaut que plor a vau cantàn…

Venne poi la favola dolce del Petrarca in Valchiusa, dove i sospiri per Laura si mescolano col murmure delle «chiare, fresche e dolci acque» del Sorga e piegano i lauri dei Verzieri di Avignone. Dolce favola che continua nelle nostre lettere come in profumo che si spande, fino a commuovere il Carducci che in mestissime rime rifà il pianto di Giufré Rudel: «Amore di terra lontana / per voi tutto il cuore mi duol».
E un poco e in altro modo continua anche stamattina in Voghera dove, per le strade che salgono e scendono nell’aria netta di non lontani monti, è forse possibile rivedere la figura di Rambaldo scendere dal castello di Oramala dove fu ospite per qualche stagione. Scende il buon trovadore, cantando.
Dice in suo linguaggio cortese che anche il sole stamattina mirabilmente chiaro e benedicente vuol ricordare ai numerosi ospiti venuti dalla terra di Romeo, che Voghera è bella e felice di sentirsi sorella della loro città: Manosque.






Riprese a riguardo della “Targa d’Oro Jean Giono”, conferita ad Angelini dal Rotary Club di Voghera. Voghera, 28 maggio 1972.

Archivio Luce
Documento video (51 sec.)

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Angelini legge il discorso di ringraziamento per “La Targa d’Oro Jean Giono”, conferitagli dal Rotary Club di Voghera. Voghera, 28 maggio 1972.

Documento audio (13 min. e 6 sec.)