CESARE ANGELINI UOMINI DELLA VOCE AL BORROMEO
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 173-181.
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Vittorio Beonio-Brocchieri, Giuseppe Prezzolini e Angelini,nel cortile dell’Almo Collegio Borromeo, 1957 Fotografia di Giuseppe Buniva |
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Ieri Prezzolini è stato mio ospite in questo Borromeo.
Anche questo io devo a Renato Serra: d’aver conosciuto personalmente gli uomini della Voce: Prezzolini, Papini, Soffici, i protagonisti del nostro rinnovamento letterario, gli inventori di un nostro nuovo linguaggio.
Naturalmente per ritrovare quel tempo e quegli incontri, devo fare molta strada negli anni: ma quella primavera (1909-1915) per la luce che ci ha lasciata sull’anima, pare ancora durare. Perché la Voce fu, prima di tutto, una atmosfera, un colore che era nell’aria prima che nelle parole scritte. Chi non l’ha respirato, difficilmente potrà averne un’idea completa solo per sentito dire o attraverso le pagine dei libri; come il lume di giovinezza che nessun ritratto può veramente o interamente fermare. Era una passione che prendeva tutti: loro, gli scrittori, i poeti; noi, i consumatori di poesia, della quale sapevamo ancora ammalarci, ma quel bel male era la nostra salute. C’era il piacere del lavorare insieme; in loro, la felicità del donare; in noi, la felicità del ricevere, e la gratitudine.
Prezzolini, Papini, Soffici. Vedete come ci divertiamo a ripeterne i nomi, che suscitano altri nomi: Serra, Cecchi, Slataper, Sbarbaro, Boine, Baldini, Linati, Jahier, De Robertis; come a nominare due stelle, tre stelle, si muove tutto il cielo.
Papini, che ci aveva già dato l’Uomo finito, in quegli anni metteva insieme le Cento pagine di poesia e i Giorni di festa, titoli che parevano germinati dall’aria a rendere la qualità di quelle pagine, di quell’ilare ingegno. Ricordo le prime cartoline ricevute da lui, con quella scrittura aperta e grande, essenziale, che poi mettevo tra le pagine dei libri più cari a segnare le ore. O le prime lettere di Prezzolini, generoso stimolatore di un sentimento umano e frugale del tempo; come se, perdendo il tempo, uno perdesse se stesso. O Soffici, una cordiale dedica sull’Ignoto toscano, un libriccino che ora è una rarità bibliografica.
Prezzolini, Papini, Soffici; la «beata trinitas» fiorentina; che poi ha visto tornare, uno dopo l’altro, in questo Borromeo, lieti dell’accoglienza lombarda.
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Giugno 1949, visita di Papini. L’avevo visto, la prima volta, nella sua casa fiorentina di via Colletta N. 10, nell’ottobre del 1919, rientrando congedato dall’Albania. Era venuto lui ad aprirmi la porta, altissimo e già mitologico. «Angelini, tutto qui? La pensavo più alto», mi disse. Poteva parere un’ingiuria; ma ero preparato al colpo. «Alto quanto basta per essere Angelini», gli risposi. E si curvò a baciarmi.
In quei giorni Papini sentiva il Signore... Ma non amava parlare di sé; la sua contrizione aveva una maestà vereconda; preferiva trasferire i suoi sentimenti di «convertito» in Sant’Agostino, e lui aveva saputo respirarlo con pronta rispondenza. A quel nome, Papini si attaccava con insistenza come a un sostegno in quella sua «notte oscura». E, nell’ascoltare quei grandi richiami, io ebbi l’impressione di un albeggiare tra i monti.
Ora Papini era qui, in questo Borromeo, venuto da Milano dove aveva firmato con Garzanti il contratto del suo Michelangelo. Lo accompagnava la moglie, signora Giacinta, lo scultore Messina e lo stesso editore. Si spezzò il pane insieme alla mensa di Carlo e Federico, nomi di alta ispirazione; si girò per le sale, in giardino; e lui, mezzo cieco, vedeva più di tutti. Gli era bastato di sapere la data di nascita del monumento — 1564 — perché in ogni angolo trovasse, più che persone, incanti, come nei castelli cinquecenteschi. Prima di partire mi lasciò copia del suo libro appena uscito da Vallecchi: Poesia in prosa. Nel ’49 c’erano ancora giovani che credevano in lui, e quel libro pieno di «illuminazioni», bastava a compensarli della loro fede.
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Agosto 1957, visita di Prezzolini. L’avevo conosciuto, nel 1919, a Roma, nell’Ufficio della Voce, in Piazza Trinità dei monti, dove da poco s’era trasferito da Firenze. Sulla porta, un cartello ammoniva: «Vieni per affari. Parla d’affari. Va pei tuoi affari». Ora era giunto dall’America accompagnando una suorina americana, suor Margherita Marchione, che preparava la tesi su Clemente Rebora da discutere alla Columbia University, dove Prezzolini ha insegnato per molti anni.
Le aveva fatto avere una borsa di studio, e le aveva dato un sacco di indirizzi di persone che conoscevano Rebora o avevano scritto della sua poesia: Monteverdi, Falqui, Banfi, Gallarati-Scotti, Betocchi, Costanzo, Titta Rosa, Bo, Flora, e altri; tutta la critica militante, che ella raggiungeva via via, partendo da Questo Borromeo dove aveva trovato provvisorio domicilio. Il laico Prezzolini era soprattutto contento di aiutare una suora a lavorare sopra la poesia di un prete, confermando fedeltà alla sua vocazione di diffonditore della cultura e dei suoi compiti nella vita civile, in patria e all’estero.
In verità, Prezzolini ha sempre mostrato di preferire la cultura alla letteratura. Renato Serra disse una volta: «Prezzolini sarebbe un eccellente critico letterario, se non avesse tanto in odio la letteratura e non fosse rivolto con gli studi e con l’animo da un’altra parte». Che era appunto la parte della cultura e le sue questioni vive e pratiche e spesso pungentemente polemiche; quelle che riempiendo le annate della grande Voce (1908-1914) e tutta l’altra sua produzione che ne è seguita, dando il senso della sua vasta parentela e del suo dominio in questo campo.
Prezzolini rimane, suo malgrado, uno scrittore di primo ordine e un critico originale e acuto; e certi suoi ritratti d’amici — Croce, Papini, Cecchi — sono tra i più vivi e veri delle nostre lettere, stesi in una scrittura che non indugia mai tra i lenti aggettivi ma, fatta di sostantivi e verbi, corre verso l’azione e la rappresentazione. Conoscenze tutte dal vivo, di compagni di strada. Letteratura vissuta prima che raccontata. Prezzolini ha il pudore della sua sensibilità e, se nello scrivere un poco s’abbandona, accenna al bello e trasvola. Ma il bello lo prende di sorpresa e segna di sé le sue pagine di vero scrittore, col vantaggio che ha la parola scrittore su quella di letterato.
Me ne dava prova anche il libro che quel giorno portava con sé: Il meglio di Prezzolini, edito da Longanesi, pieno di giudizi penetranti, di rallegrature liriche, di osservazioni ironico-amare, di polemiche, di idee, soprattutto di idee, e la loro lucida analisi; d’una lucidità che diventa geometria (éspirit de géometrie), scriva di Macchiavelli o di Cristo, o prepari un ideario, che sarà e parrà la continuazione del Dizionario filosofico, dove la crudele ironia di Voltaire è tuttavia frenata dal pessimistico equilibrio d’Agostino, il padre della Chiesa del cui latino Prezzolini si nutre.
Ma Prezzolini è sempre il fondatore della Voce, che ha creato un tempo, il tempo della Voce; che dura nel ricordo degli anziani, nell’interesse dei giovani, e dove Prezzolini ha un posto che non perderà, perché la Voce, la grande Voce è Prezzolini, l’uomo più rappresentativo di quel movimento culturale da cui è uscito il fiore della nostra poesia del Novecento, gettando germi che si ha l’impressione continuino a germinare. Così dalla Voce e sulla Voce nascono pagine, libri, tesi di laurea che ne testimoniano il durevole stimolo e vigore. Un capitale che c’è ancora da camparci su a lungo.
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8 aprile 1958, visita di Soffici, in compagnia della moglie, della figlia venuta dall’America del Sud per festeggiare gli ottant’anni del babbo; e Messina. L’avevo visto una volta sola, in casa di Papini, nel lontano ottobre del ’19. Tra la foscaggine del pomeriggio nuvolento, Soffici era entrato come uno squarcio di primavera. Era sceso da Poggio a Caiano, e in faccia aveva ancora il vento verde della collina. Papini s’era un poco taciuto, e Soffici cominciò a parlare, movendo in giro quei suoi occhi lucenti d’uomo per il quale guardare l’aria e i campi e i colli è sempre stata la più grande felicità. Diceva dei colori lasciati lassù, degli ultimi pampani che brillavano netti e rossicci sui filari; d’un temporale che l’aveva preso a mezzo strada e d’un piccolo arcobaleno inarcato su Fiesole, quand’era spiovuto... Io guardavo quel suo visibile parlare tutto musica e colori, e pensavo al Giornale di bordo, ad Arlecchino che negli anni 1913-1914 erano la cosa più nuova delle nostre lettere; parole e immagini sode, colme dei succhi della terra. Nelle pause brevi, si guardava d’istinto la punta delle dita dov’era rimasto qualcosa della tavolozza appena deposta prima di scendere in città. Buona occasione per me di vincere il nativo ritegno e aprirmi un poco con lui, inventore incantevole di ore e di stagioni. Ma un lombardo è sempre timido in presenza di un fiorentino che ha bevuto l’acqua dell’Arno prima di mettere i denti; e anche quella fu un’occasione perduta.
Anche lui, ora era qui con me, fortissimo e diritto come una quercia: una maraviglia fisica. E veramente la sua presenza mi pareva un dono, un compenso al mio vecchio e impunito amore di poesia.
Prezzolini, Papini, Soffici... Non si potrebbe fare un discorso serio sulla letteratura del Novecento, e le sue suggestioni e i suoi rischi, senza appoggiarlo ai loro nomi, ai loro libri. Avvicinarli, è un ristorarsi al contatto con uomini che hanno visto la poesia. Scrittori moderni, modernissimi, hanno degli antichi la ricchezza biografica, l’ingegno generoso e il sentimento dell’umano valore delle lettere.
Abituati a temperature più fredde, i giovani oggi si danno l’aria di averli dimenticati, come superflui. Sono torti che i giovani si fanno facilmente e in loro perdita. In tempi in cui lo stesso strumento espressivo — la lingua — è minacciato da deformazioni poco vereconde, gli uomini della Voce possono esserci ancora maestri come sono interamente italiani, e protagonisti di una letteratura che ha creato anni interessanti, se hanno determinato un colore che non si stinge, una propria fisionomia in un’epoca in cui battevano moneta Gabriele D’Annunzio e Benedetto Croce; e magari ne hanno avuta la segreta simpatia.
[1967]
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