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CESARE ANGELINI

UOMINI DELLA VOCE

In C. Angelini, Carta, penna e calamaio,
Milano, Garzanti, 1944, pp. 281-285.

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“La Voce” bianca diretta da Giuseppe De Robertis. In questo numero la collaborazione di Cesare Angelini, con Pascoli moderno.


Destinati a restar giovani. Chi ha aperto quei fonti, vi si rifletterà lungamente. Chi ha inventato quella passione, avrà allegria per molti giorni. Di essi invecchierà — è già invecchiato — qualche cosa, molto; ma è l’esterno di essi, non essi. Domani ristamperanno un libro di trent’anni fa, e parrà sempre il migliore. L’uomo finito, Giornale di bordo, Cento pagine di poesia, Arlecchino, Opera prima per solidità fantastica, rallegratura di colore, rarefazione di stile, inventività verbale, intimidiscono ancora le sontuose miserie di tanti garzoncelli scherzosi. Basta rivangar quelle pagine oneste, per fecondar molti libretti, per indocilire molti ingegni. Che nuoce a quelle pagine, è la presenza, qualche volta ingombrante, dei loro autori e dei loro giorni caduchi.
Papini e Soffici: temperamenti diversi, ma uniti da un’unica avventura: la poesia, per la quale son nati, per la quale vivono e s’impegnano. È il loro quotidiano risveglio, la loro continua trasfigurazione. Figure ricche di stimoli polemici, si prestano a essere via via portati al terzo cielo o dannati al settimo cerchio. Ma oltre il limite polemico, resta la loro vena felice, il loro oro puro: la loro bella follia. I giovani verso di essi sono quanto mai puntigliosi, amari; si vendicano dei loro allegri errori, delle loro contraddizioni, dei loro tradimenti; forse, della loro troppa fortuna, intimando loro il Nunc veteres migrate coloni. Ma questo è biografismo, meschinismo, mondan rumore, che il tempo purifica. Dietro, stanno le oneste conquiste, le ebbrezze dei giorni innocenti, delle ore regalate.
Dalla sua precocità rumorosa Papini ha sempre camminato con passi forti, volanti verso molti interessi: filologia, magia, eresia, cultura, religione, politica, lasciando credere che le idee lo interessassero molto, lavorando a getto caparbio, con scrittura discola, con risentimenti carducciani, con idee capovolte, con immaginazione impennata, corrusca, spesso con anelante splendore; portando in sé qualche cosa di certi torbidi Dei mitologici, che non si riesce a quietare. Forse una volta sognò d‘essere un dio in esilio; e, mettendosi sul palchetto dei classici — il nuovo Olimpo — scrisse la sua storia: L’uomo finito che, pur coi suoi residui negativi, ha pagine di solida poesia, fiore della sua cultura e della sua anima, rinascita continuata in incantamenti, rapimenti, sorprese. Dopo, scrisse la Storia di Cristo, di Sant’Agostino, di Dante; ora scrive del Rinascimento. Non dubitiamo del suo amore alle idee (ai segreti dibattiti) né dell’impegno morale che porta nel difenderle se sue, nell’offenderle se d’altri. Ma poiché Papini è soprattutto poeta e solo poeta, pensiamo che tutti questi interessi si incentrino in uno, uno solo: il valore lirico della parola, che trova negli altri il suo campo di risonanza, la sua nobile occasione, la sua dignità. È l’uomo che ha letto tutti i libri, e certe cose in Italia forse le conosce solo lui.
S’alzò contro d’Annunzio, e parve volergli insegnare come si scrive. S’alzò contro Croce, per insegnargli come si pensa. Imprudenze; ingenuità. Anche perché ci son tanti modi di pensare, e di scrivere. E ha misurato la sua statura, che è di minore.
Lo si accusa d’essere un amplificatore. Accusa temibile in tempi quintessenziali, concentrati, d’un poema in un verso. Ma l’amplificazione in Papini non è sempre un puro fatto retorico: è veemenza di dire tutto quel che si può intorno a un tema: è entusiasmo, invenzione, onda lirica, libertà, amore. Le sue amplificazioni sono spesso come le «fughe» in certe musiche grandi: quando paion finite, ricomincian da capo, a tema e tempo capovolti, ghiribizzose e puntuali, estrose e rifiorenti.
E non è da questo chiaro e lirico e papiniano gusto della parola che si è partiti nell’11, ’12, ’13 per fare — come si diceva — poesia nuova? Opera prima: è titolo pieno d’anticipi e di presentimento. Opera consegnata ai giovani.
Soffici, il suo mondo poetico è esclusivamente visivo. «Posar le parole come il pittore i colori, e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore». Dice la provenienza della pittura, e la sua «poetica». (Anche il Porta: «I paroll d’on leguagg, car sur Manell, — Hin ona tavolozza de color...»). Ma tutta la sua scrittura è ridente, trasparente così: un bicchier d’acqua fresca. Per Soffici il mondo è un puro spettacolo dal quale vien tutto risucchiato. E riesce a una felicità espressiva aerea, celeste, che fu detta «dono» ed è allegria d’esser vivo, senza peso d’impegni.
Soffici è il frammentismo... Né suscitiamo vespai. I suoi «frammenti» sono momenti metafisici. E qualcuno ha detto che il «momento» è cosa tanto grande, che bisogna imparare a «vivere a momenti».
Più tardi, Soffici ha cercato di salvarsi dal puramente visivo, tornando a un concetto più unitario dell’arte, come a un concetto più classico della vita. Poteva rappresentare una maggior chiarezza spirituale, un avvicinamento più impegnato ai valori umani. E ha fatto il moralista, il catechista, il pedagogista. Forse continua a farlo. Ma poiché ciascuno è fatalmente condizionato al suo limite, quel suo volersi intensificare lo ha intorbidito e messo di cattivo umore: e nessuno crede a quella sua cura d’anime.
Soffici ci piace ricordarlo nel ’12, ’13, ’14: in quella sua esitazione di mandorlo vigilante, quando segnava «ore» «stagioni» «paesi» con segni così puri, che erano le ore le stagioni e i paesi della Creazione.
Più cose, è vero, egli derivò da Rimbaud e dalle Illuminazioni; ma ne suggerì al D’Annunzio del Notturno e d’altre prose rotte e flessibili e finalmente vive. (Che è onore più grande che l’avere aiutato e messo in staffa un re).