CESARE ANGELINI GIOVANNI VERGA
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 17-25.
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È morto pochi giorni fa nella sua Catania nativa; pieno d’anni e di serenità come un patriarca.
In vita non ebbe mai quella che si dice la popolarità; né il riconoscimento adeguato al merito, che pure hanno avuto narratori di statura minore della sua.
Non staremo a dirne le ragioni. Né diremo male del Carducci, la cui immagine di poeta merita d’essere stampata, come un tempo, sui vasi del convivio; né di un D’Annunzio che fabbricava miele così pingue da non sapervi rinunziare facilmente. È però vero che se il primo col suo naturale prepotente volle essere ad ogni costo e per tutta una lunga stagione il governatore assoluto della provincia letteraria, illudendosi magnanimamente di possedere tutta la gloria della lingua; il secondo seppe trar molta gente dietro l’odore de’ suoi unguenti, più morbidi del sonno.
C’era anche il Pascoli, il quale discioglieva spesso ciò che toccava, preoccupando il risultato artistico con certa sensibilità dispersiva. C’era, insomma, tutta un’arte che esponeva assai bene le condizioni psicologiche del momento. Si capisce come non ci potesse essere posto e fortuna per chi si presentava con un’arte fatta di castità e di asciuttezza vigorosa.
Né il Verga era uomo da mettersi in concorrenza con nessuno.
Ma il successo d’un artista non tocca in alcun modo il valore della sua arte. E del Verga ci restano quattro o cinque libri che aumentano il nostro capitale letterario, da camparci su a lungo.
La sua attività è nettamente distinta in due periodi: quello milanese o di preparazione, e l’altro siciliano o di raggiunta maturità.
Erano tempi, dopo il ’70 quando ci capitò il Verga, che Milano raccoglieva il fervore delle lettere italiane: fra le sue vie e i suoi caffè rumoreggiava la scapigliatura, che parve portare alle lettere nostre un vento di rinnovamento. D’ingegno egregio, bello di persona, il Verga fu l’idolo dei salotti e l’ammirazione della gente che per le vie si voltava indietro a riguardarlo. E Milano piacque al giovane Verga, che la scelse come domicilio della sua vita elegante e del suo lavoro.
I suoi romanzi d’allora si sa come si chiamano: Una peccatrice, Storia d’una capinera, Eva, Tigre reale, Eros. I titoli ci danno l’indirizzo e il programma dello scrittore ancora lievitante di un romanticismo che era frutto del clima morale in cui gli toccava vivere. (Pensate a un Guido da Verona meglio dotato). Non diremo male di questi romanzi che allora hanno avuto fortuna; e c’è forse chi ancora sospira sull’avventure di Capinera; dove non mancano accenti vivi d’una sensibilità dolorosa e gentile. Ma, in fondo, son romanzi falsi; falsi nel tono e nella fattura. C’è dentro un che di torbido e di tumultuoso e di francese, che non persuade; e poi quel mondo fittizio di cocottes e di vita galante, racchiuso in pagine preziose che presto annoia.
E annoiò anche il Verga, che un bel giorno lascia Milano e torna nella sua isola, in un desiderio di salute.
Non diceva Esiodo che anche un campicello e la selvetta che lo cinge può essere, per chi sa scoprircelo, un mondo grande, magari più grande di quello senza confini che han visto gli occhi del divino Odisseo? Fu la nuova e definitiva esperienza del Verga, dopo quella fiorentina e milanese.
La partenza da Milano pare la simbolica fuga dalla letteratura.
Però la stagione milanese ha giovato al Verga per buttar fuori tutto quello che in lui c’era di impuro e deteriore: come dire una malattia che, quando è passata, restituisce il gusto della salute e delle cose elementari, e il pane e l’acqua. Infatti nella sua terra, che d’ora innanzi gli sarà benigno ritiro, Verga ritrova la elementarità ingenuamente paesana, che l’avvia ai vertici dell’arte.
Ma già in Nedda, bozzetto rusticano apparso verso il ’74, c’era la ricerca di uno stile, il segno dell’altro verso del Verga, il principio della sua grande stagione. Anche quella immaginazione che s’era lasciata andare a dilettazioni e descrizioni d’un mondo galante da gran centro, ora si è come imposta una francescana regola di mortificazione; e non si spende più che per la sua gente povera, scabra, tenace come l’ulivo della terra. È cambiato il mondo della sua contemplazione, e la espressione che adegua meritatamente la sua nuova materia.
Vennero via via Vita dei campi, I Malavoglia, Il marito di Elena, Le novelle rusticane, e poi Cavalleria rusticana.
Sapete come venne qualificata, fino a poco fa, l’arte del Verga; le formole non si ripetono più, ma non sono ancora cadute dalla memoria: verismo, naturalismo, imitazione zoliana, arte impersonale, ecc. ecc., che la gente le diceva quasi a indicare un imbastardimento della nostra arte in contaminazioni forastiere e un calo di vita morale.
Il fatto però era diverso. Cadute le formole, è rimasto lo scrittore, grande e nuovo. A guardarla dal di fuori, quest’arte verghiana — o dialettale o provinciale, come fu anche chiamata — presentava qualcosa che un poco urtava contro i nostri gusti; per quel suo realismo spesso crudo da parer sfacciato. Ma non forse verso il 1840 il Manzoni aveva fatto qualcosa di simile col romanzo che inquietò molta gente d’allora? E il cosiddetto verismo fu per il Verga l’occasione di ritrovare il contatto con la realtà e con l’arte.
Sobrio, serio, vivo, il Verga scavava la realtà sotto a tutti i veli e a tutte le incrostature, quasi per un contatto immediato con le stesse forze della natura vegetante.
Verismo, naturalismo; come l’altre non meno famose di classicismo e romanticismo, erano dunque formule vane, da servire comodamente ai grammatici, non a dare la qualità della sua arte.
Una controprova si ha pensando che quello che in lui era chiamato verismo, oggi chiamano classicismo, intendendo i valori assoluti e universali dell’arte. È l’impegno della Ronda che, tentando di liquidare il Carducci e il D’Annunzio, propone il Verga come esempio di stile e di umanità; collocandolo subito dopo il Leopardi delle Operette morali e il Manzoni del romanzo.
Ma il merito del Verga è d’aver ritrovato questa universalità, proprio partendo da una piccola umanità rusticana: la sua terra e la sua gente. Ci insisto. Mentre un Carducci, partendo da un universalismo generico e astratto di coltura libresca e di tradizioni letterarie, sbocca spesso, in quanto a effettualità artistica, su un episodio tra di oratorio e di filologia; il Verga, partendo da una provincialità psicologica e istintiva, arriva a una vera universalità di risultato creando tipi e situazioni di verità e bellezza assoluta.
Pensiamo un momento ai romanzi, — I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, Don Candeloro — che, visti insieme, retti come sono da intimi rapporti organici, formano una costruzione perfetta coi diversi ripiani; visti singolarmente, sono capolavori a gara insieme, soprattutto per la forza di stile, che piglia fondamento in una inconcussa grandezza etica che non conoscevamo più dal Manzoni in poi. Richiamate, con particolare frutto, l’esempio dei Malavoglia dove non c’è una sola linea di descrizione intesa come esercizio di bravura; ma tutto è rappresentazione e azione e psicologia. Sicché l’incanto è naturalmente diviso tra le creature che si muovono dentro vive, raccogliendo lume l’una dall’altra, e la tessitura della trama ricca di scorci drammatici, sobria nel tocco e negli effetti stupendamente smorzati come d’uno sempre pronto a riparare con la mano il lume troppo vivo della propria lampada. O vi afferrano annotazioni appassionatamente umoristiche; o, sparso un po’ per tutto, quel procedimento segreto per il quale il Verga, pur essendo sempre consapevole e presente al suo racconto (come l’uomo che aveva riaffondata la propria coscienza nella vita) riesce a velare quasi interamente la sua partecipazione umana: tanto da far parlare d’arte impersonale e da far pensare alla calma della quercia che non flette la cima nel transito del vento.
O piuttosto pensate a quei gruppi così ben definiti di novelle che sono Vita nei campi e le Novelle rusticane. Anche lì, quella sua scrittura svelta che ha fatto della lingua un esercizio naturale, e arriva a una qualità di stile incisiva, scolpita, senza nulla perdere della sua stesura leggera.
Accanto al Verga maestro, sarebbe utile rammemorare il maestro di saggezza. Lo si pensa talvolta come un savio antico, intento a raccontare le parabole della sapienza e a celebrare tra la sua gente le virtù elementari ed essenziali; che, avendo le loro radici nella razza, vengono trasmesse da una generazione all’altra semplicemente, col sangue e la parola: come la provvidenza mirabilmente colma e benigna della campagna, matura e si trasmette a traverso la liturgia perenne delle stagioni.
Renato Serra, un giorno (ed era la fine del 1913) lo ha visto così: «Qualcuno è lontano, in un luogo glorioso da cui non lo vorremmo disturbare; Verga; passano gli anni e la sua figura non diminuisce; il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia».
Ci accorgiamo ora che le nostre pagine non sono che un dilavamento di queste ferme parole.
[1922]
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