CESARE ANGELINI ARDENGO SOFFICI
In C. Angelini, Il lettore provveduto,Milano, Il Convegno Editoriale, 1923, pp. 88-100.
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Vidi Soffici in casa Papini, in quel novembre del ’19 che l’autore dell’Uomo finito, superando la sua crisi religiosa, stava per diventare lo storiografo del Signore.
Tra la foscaggine del pomeriggio nuvolento e i sospiri delicati del convalescente spirituale (pensate: Papini sentiva il Signore!) Soffici entrò come un lembo di primavera improvvisa, portando nella voce e nell’abito il suono argentino dell’aria di marzo. Veniva giù allora dal suo paese e in volto aveva il vento verde della collina.
Soffici cominciò a parlare con un fervore semplice e raccolto, girando attorno que’ suoi mobili occhi — il suo capitale più vero — ove passava il mirabile tremore dell’acqua sotto i cespugli. Diceva dell’aria che sui colli era fragile e bianca; degli ultimi pampani che brillavan netti e rossicci sui filari; dell’acquata che l’aveva preso a mezzo il viaggio; e poi d’un piccolo arcobaleno inarcato su Fiesole, quand’era spiovuto.
Io guardavo quel suo visibile parlare tutto musica e colori, con la gioia di chi si sente risollevare: e i suoi movimenti snelli eran ben consentanei con l’immagine che, leggendo, m’ero fatta di lui, quasi d’un verdone appena sceso dalla frasca fresca.
Soffici finiva poi di parlare; e, nella pausa breve, si guardava sorridendo le punta delle dita ov’era ancora qualcosa della tavolozza appena deposta prima di scendere in città. Buona occasione per me, di vincere ogni timidezza e aprirmi un poco con lui. Ma un lombardo è sempre timido in presenza di un fiorentino, il quale basta che apra la bocca per parlar... toscano; mentre noi, le nostre cose, cioè le nostre parole, abbiam da pescarcele con merito e stento. E così quella fu un’occasione perduta: perché l’amicizia di un artista come Soffici, il cui uffizio sarebbe quello d’andar in giro pel mondo ad annunziar la primavera, deve pur dare — io penso — l’impressione deliziosa e superba dell’amicizia con qualche principe o re. Del resto, è forse meglio così: tra lui e me non essendo rimasto altro rapporto fuor di quello che è tra il lettore e lo scrittore, non turbato da nessuna esterna considerazione.
Dirò piuttosto che all’impressione ariosa di quel mio incontro fugace, mi riporta ogni volta che m’arriva qualche libro di lui, nuovo o vecchio: avendoci sempre dentro un rivolo di luce fresca e certe mirabili scale di colore da far pensare a una primavera che si sia incantata sulla terra innocente. E dico questo senza pensare ad alcunché di idillico o arcadico; penso piuttosto alla donna che nella Vita Nova è chiamata Primavera per la sua beltade secondo che altri crede.
Vedete, a riprova di quanto dico, la ristampa di Lemmonio Boreo che, anche dopo dieci anni, conserva tutto il fresco e il lume della bella materia onde furono impastati alcuni suoi capitoli.
Il lettore ne conosce la favola. Lemmonio, uno toscano dei più belli, ritorna, dopo molti anni, dall’estero; e tra una lettura e l’altra dei libri che vi si van pubblicando nel suo paese, scopre che la sua vera vocazione è quella di andar in giro a raddrizzare le storture di questo povero mondo non ancora mondato. La sua generosità non gli permette neppure di prospettarsi degli ostacoli; e, un bel mattino, sacco in ispalla, parte dal suo paese e dalla vecchia mamma, con la mente stellata del suo bel sogno di evangelista. Così incomincia una vita larga, ampia, senza vincoli e limiti: ché un gran sogno per attuarsi ha bisogno di un gran spazio; come l’aurora per distendersi vuol tutto l’oriente. Lemmonio, che ha un cuore d’oro, distribuisce delle belle parole a tutti quelli che ne han bisogno. Però s’accorge dopo alcun tempo che le buone parole e la logica non bastano. Ci vuol altro, per convertir gli uomini! Ci vuole, per esempio, un bastone cioè la forza. Ed ecco la fortuna mandargli incontro Zaccagna, un tarchiatotto di uno che sfiderebbe Sansone. Con lui, Lemmonio ricomincia le sue avventure: qualcuna gli riesce, qualcuna no. Si accorge Lemmonio che neppure la forza basta a vincere e correggere gli uomini che sono astuti! Sicché, sfiduciato, dice parole di commosso addio al fratello in apostolato e decide di ritornarsene al suo paese. Allorché s’imbatte in Spillo, un omarino furbo come il fistolo, il quale entra terzo nella intrappresa. Lemmonio lo tien d’occhio, ché questo qui è veramente il suo uomo, venuto in buon punto per risolvere le situazioni più imbrogliate. Alla logica (Lemmonio) e alla forza (Zaccagna) s’è dunque unita l’astuzia (Spillo).
A questo punto si sospendeva il romanzo, pubblicato nel ’912 dalla Voce, con la promessa di una seconda parte. Nella ristampa, fatta ora dal Vallecchi, questa seconda parte si riduce a due o tre capitoli o canti che rifletton le tendenze e i contrasti politici del tempo presente; e non mancan affermazioni filofasciste, non sai se più ingenue o scandalose.
Ora non staremo a dire che racconto più inconsistente e sciocco non è mai scappato da fantasia d’artista; né indugeremo a discorrere l’idealismo sparso in tutto il libro di quest’uomo che rovistando le magagne della sua gente vuol rifare il mondo da capo; o i mezzi infinitamente ingenui coi quali lo vorrebbe rifare, e neppure se le moralità che egli vuol introdurre sian proprio molto superiori a quelle che vorrebbe correggere. Come ci guarderem bene dal nominare invano — per dargli un modello — il nome del grandissimo hidalgo; o dell’occuparci del suo tono pedagogico, che qualcuno ha poi esagerato, e che è proprio del carattere di lui, Soffici. Il quale, o nei libri o ai caffè di Firenze con gli amici o al suo paese di Poggio, la domenica quando la gente esce dalla messa cantata, non si lascia mai scappar l’occasione di imbastire garbatamente qualche predichetta intesa a persuadere di certe sue idee, vecchie o nuovissime.
Piuttosto, detto che questo è un racconto tra autobiografico e ironico e paesano che Soffici ha voluto mettere insieme per allogarvi dentro certe sue visioni e aspetti particolari di vita o notazioni di paese, e anche per sbattervi sotto gli occhi alcune pagine di innegabile bravura pittorica e descrittiva; dobbiamo aggiungere che, in sede di critica estetica, esso ci interessa solo per quel tanto che realizza di fatto espressivo. A valutare la qual cosa, è forse opportuno non dimenticare la data della sua prima comparsa nel mondo: gennaio 1912, che non è soltanto l’anno che muore il Pascoli, ma è il tempo in cui, da artisti ben provveduti, si ripropone con un dibattimento più serio che mai il problema o dramma dell’espressione.
Ci aveva il D’Annunzio, con certe sue mani di mago, steso sul capo un cielo così raffaellesco che, a forza d’esser sereno, diveniva troppo sterile e sconsolato. Meglio, dunque, un cielo rotto di nuvoli verdi e di zone d’ombre che dessero almen guizzi e luccichii e brividi rinfrescanti!
Fuor di metafora: il bisogno era troppo vivo di rifare e ringiovanire l’espressione artistica irrigidita nelle forme troppo sapienti dell’ultima decadenza; e il bisogno, spostandosi dalla scompostezza dei marinettisti, viene approfondito con innegabile forza dal gruppo fiorentino o, a intenderci bene, dal vero futurismo: il quale — diciamolo una buona volta — non fu altro che l’anelito di artisti vivi e veri che cercavano un respiro più libero e fresco. Questo è il significato storico del futurismo e qui è la giustificazione della sua moralità.
E ben quello era il tempo che uscivan, lente e poche, le cose incantate di Serra; e Cecchi spargeva le sue qualità d’artista in certi studi irti e sfrascanti come cespugli di marruche ov’è sempre un bel merlo che fischia; e mentre Linati, chiuso nel suo atelier, macinava pazientemente i colori per tingere poi di carminio i pomelli d’alcune sue creature terrestri; Baldini andava in giro per le vie di Roma con sotto il braccio l’Ariosto, schioccando lungamente la lingua per ogni bella parola che ci trovava di mondissimo accento, tutto felice di regalarla a Maestro Pastoso. Era il tempo che Papini ruminava la gran prosa lirica dell’Uomo finito; e Boine, uno di quelli che il dramma dell’espressione l’han sofferto di più, s’abbandonava, sotto il pretesto critico, a certi vagabondaggi spirituali talvolta così torbidi da parer profondi, tal’altra così profondi da parer torbidi. Né dimenticheremo Govoni che in quel tempo manteneva su l’uscio della sua casa di Ferrara due bei garzoni dagli occhi celesti sempre pronti ad avvertirlo quando pel cielo passavano le nuvole gris-perla o sui campi di lino s’inarcava la gioia dell’arcobaleno.
Ma eran — viva Dio! — allodole nuove che andavan su e giù per quel cielo di primavera gonfio di sospiri e di nuvole abbrividenti.
E se un Pascoli e un D’Annunzio, a lor tempo, avevan tentato ricerche musicali sul verso e sulla parola, ora si tentano con qualche felicità ricerche pittoriche e luminose; e, pur di vaporizzare l’arte ne’ suoi elementi più nudi e primitivi, s’arriva fino a giustificare il frammentismo e la parola ridotta a un segno autonomo, prima di adoprarla per la costruzione. Non altrimenti il Brunelleschi voleva saggiare a uno a uno con le nocche bene esperte i mattoni che gli dovevan poi servire a voltar la cupola di Santa Maria del Fiore.
Questa, dunque, era l’aspirazione nobilissima che agitava gli spiriti vivi — e però tormentati e peccanti — verso lo scorcio di tempo in cui appare Lemmonio. Se e quanto si sia realizzato; in qual misura ci sia stata una spinta o infiltrazione francese; se proprio tutta quella gente fosse provvista dell’equilibrio morale e dell’esperienza etica necessaria perché l’arte nasca grande come l’albero lungo la corrente; queste, e altre ancora, son domande alle quali risponderà chi vorrà rivedere il movimento artistico di quest’ultimo decennio con un po’ più di serietà e intelligenza che non si sia fatto finora.
Adesso noi abbiamo davanti solo un libro e una data, che ci han riportati indietro, su gli orli di una stagione letteraria la quale, per gli elementi di attesa che conteneva, fu — o ci parve — così mirabile da ridonarci perfino il gusto di vivere. Tant’è vero che il dramma dell’espressione, a considerarlo bene, è una delle cose capitali, se ha il potere di incantare la nostra stessa vita; la quale, di per sé stessa, è così scolorata e stanca.
Detto questo, possiamo vedere senz’altro attraverso a pochissimi assaggi quanto ci sia in Lemmonio di questi segni di rinnovamento espressivo, che ci permettan di guardarlo come un libro annunziatore e precursore.
E indizi, c’è ne di sicuro. Anzi, ci è lecito affermare che in germe, qua dentro son già le nuove direzioni del Soffici di poi, volendo dire che il suo approfondimento artistico avverà su questa linea molto chiara. Cosa naturale, del resto; perché nel Soffici del ’912 che tornava, tutto gongolante dalle piazze di Parigi dove il suo spirito s’era illimpidito, già gorgogliavan l’estetiche nuove portate via di là, dell’impressionismo e del frammentismo, realizzate mirabilmente un anno dopo su le colonne dell’Acerba. Sicché Lemmonio, nato nella freschezza fermentosa di cotesto ritorno, è già un romanzo intimamente frammentario, mancando di ogni salda unità: e noi lo dobbiamo godere qua e là, a episodi staccati, che si trattengon tra loro per mezzo di non so che filo di luce, come nuvole di marzo cucite da un raggio di sole.
Se non che, frammentismo, impressionismo, ecc., son teorie, alla fine; e i segni della novità, noi vogliam trovarli in quella che è la realtà effettiva della scrittura.
Sentite: «Lemmonio Boreo camminava a testa alta col cappello in mano, respirando quei profumi, empiendosi gli occhi di colori, e ogni volta arrivava a un bivio, sceglieva sempre il ramo di strada che montava di più.
Ogni tanto si fermava a guardare il piano. Dietro ai ciuffi verdecupi dei noci e delle ficaie, i tetti dei contadini e delle fattorie brillavano verderanciati di muschio o rossi di tegolini. Intorno alle colombaie roteavano branchi di piccioni la cui ombra fulminea passava ora sui muri bianchi, ora sulle aie ardenti dove i ragazzi, i cani e i maiali ruzzavano, o l’erba maggese seccava distesa al sole. I torrenti e i canali luccicavano a tratti fra i canneti glauchi e le file dei pioppi, avviandosi silenziosamente verso l’Arno invisibile. Egli considerava ogni cosa come sognando...».
Lasciamo andare che la scrittura è superba di toni e di suoni, e le parole ridon compatte come i chicchi rossi nella compagine del melograno maturo. In verità, pochi altri artisti danno come Soffici il senso della sicurezza con la quale lavorano sulla lor materia verbale. Soffici sa di lavorarci con la pratica lunga del xilografo che raccontando sul legno le parabole dell’amore o della morte, sa che altra incisione sopporta il bosso, altra il ciliegio e altra ancora il sorbo. Ma questa pagina l’abbiamo spiccata dal Lemmonio o l’abbiam forse cavata da un diario Firenze-Parigi, reso con notazioni rapide e segni staccati, come se ne trovan nel Giornale di bordo e in Arlecchino? Noi stessi, quasi, non lo sapremmo dire, tanto le scritture si somigliano per immediatezza impressionistica, nettezza visiva, limpidità e concretezza saporita di vocaboli che paiono adoprati in funzion di colore.
A proposito del quale, badate ancora a quest’altra notazione dove vibra la visione plastica del colore e il suo uffizio nella gran melodia del mondo; poiché Soffici ha il dono di veder ogni cosa plasticamente. «Era una grande stanza di costruzione antica, soda, dai muri intensi spessi quasi come quello spessissimo della facciata, e che dovevano render la casa fresca d’estate e calda d’inverno, concentrando nello stesso tempo il silenzio e la calma che la loro tinta celestina, uniformemente chiara, aumentava».
Ci permetta finalmente il lettore un’altra citazione, che la avrebbe a esser l’ultima. Ci troverà dentro certe cose — noi le abbiamo sottolineate — che oggi forse non lo colpiscon più tanto. Ma bisogna andar indietro la bellezza di dieci anni per rifarne tutta la novità e respirarne la freschezza luminosa. «Lemmonio e Zaccagna avevan desinato da poche ore; per fuggire la noia del caldo che era grande in quel luglio fiammeggiante, erano saliti dalla via maestra sur un rialto, e sdraiati fra l’erba nell’ombra azzurra di una bellissima quercia, spensieratamente fumavano. Intorno a loro la terra bolliva, le mosche ronzavano, le lucertole boccheggiavano, incantate sui sassi colpiti duramente dal sole, le cicale frinivano senza il pigliar fiato, abbriccate ai pali, alle canne, ai tralci, alle rame degli ulivi, ai fusti della saggina, curvi per il peso delle lunghe pannocchie rosse. L’aria bianca vibrava sulle porche rase, come al disopra di un incendio; fra i rami neri della quercia fischiava un beccafico».
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Ora dicono che Soffici sia tutto lui e Manzoni; e, indizi della sua nuova posizione spirituale, son già nelle cose della sua ultima attività. Né ci sorprende affatto questa specie di conversione. Soffici non poteva durarla sulla linea di prima, che era l’approfondimento della parola — colore. A forza di guardar colori, uno si stanca e annoia. Non si può star sempre a guardar l’arcobaleno: viene il momento di un più devoto raccoglimento, quando l’uomo ha bisogno di vivere del suo intimo, di suscitar speranze, di trovar certezze, di cercare la perla che ha nel pozzo di sé stesso: la sua anima.
E così lo stravagante di tutte le piazze, ritorna sulla soglia del tempio; l’adoratore degli idoli al culto dell’Iddio verace; chi ha fatto camminar l’arte tra i frammenti stellari con Rimbaud, ora si persuade che invece l’arte è stile e buon senso; chi ha proclamato con Wilde l’individualismo assoluto, ora s’accosta alla vasta umanità del Manzoni. Dal quale, Soffici ha certamente molto da imparare: tutto quello che gli manca. Imparerà un pensiero profondo, tanto meglio se austeramente religioso; imparerà a non staccar la coscienza estetica dalla coscienza morale, se vuol fare dell’arte durevole; imparerà a non dir parolacce, riprovevoli anche a guardarle per il verso estetico; e tant’altre cose imparerà. E domani Soffici sarà artista più bello, perché uomo più completo.
Però, conoscendo il nostro pollo, noi potremmo giurare che il suo accostamento al Manzoni è cosa di colore psicologico più che artistico, e con tutti i benefici che gli potran derivare dai nuovi modelli. Soffici sarà sempre e prima di tutto un bel par d’occhi: vogliam dire un artista rapito nella visione beatificata delle cose esteriori.
Vien in mente quel che Didimo dice di Virgilio, presso il Foscolo; che tutto poteva farsi prestar da Omero, dagli occhi in fuori. Poiché per Soffici il mondo sarà sempre un bel racconto di colore, e il vivere l’occasione di aumentare la propria esperienza visiva.
La quale non è poca beatitudine, in verità; se i greci la mettevan subito dopo la gioia dei campi Elisi.
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