CESARE ANGELINI SERRA NELLA SUA ROMAGNA
In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,Padova, Rebellato, 1968, pp. 49-63.
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Renato Serra sul balcone di casa a Cesena
Fotografia da Cino Pedrelli, La Cesena di Renato Serra, a cura di Emiliano Ceredi e Roberto Greggi, Cesena, Fondazione Renato Serra presso Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2009, p. 17. |
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Alla commemorazione del cinquantenario della sua morte tenuta in Cesena nel dicembre scorso (1965) non era presente, che io sappia, nessuno degli scrittori del suo tempo, tempo della Voce per intenderci; quasi tutti scomparsi. Giuseppe Prezzolini, uno dei pochi viventi e il più autorevole, non potendo esser presente di persona, si era scusato assicurando di «partecipare in spirito» con la pubblicazione di un articolo, che poi furono due (Il pensiero di Serra, e Serra in trincea) apparsi sul Resto del Carlino, il 4 e il 30 dicembre.
E non era presente nessuno dei suoi amici cesenati, i buoni incontri di tutti i giorni, che non gli toglievano tuttavia il diritto di continuare a essere «un solitario che pensa e sogna chiuso e raccolto in sé stesso»; né d’essere l’apolitico, pur avendo amicizie in tutti gli schieramenti politici. Morto Gino Giommi, il rappresentante del primo socialismo del cesenate; morto Eligio Cacciaguerra, direttore dell’Azione, settimanale di ispirazione cattolico-murriana; morto don Ravaglia, che l’ebbe socio fino a sedici anni del Circolo studenti del Duomo; morto Cino Macrelli, il repubblicano che in Cesena dirigeva il Popolano; morto il miope ed elegantissimo Guido Marinelli; morto Umberto Calzolari... Delle nove «normaliste» che l’ebbero professore d’italiano nell’anno scolastico 1908-09, so che sopravvive in Cesena quella Vittoria Abeti che prestò il suo «Memorialetto serriano» a Baldini e poi a Grilli perché cavassero un’idea del Serra «insegnante». E quella Fides G., dov’è? La più bella fanciulla di quei giorni, che, se la ricordiamo qui, è solo perché, venuta intorno al cuore di Renato, smentiva quella sua fissazione di non piacere alle donne; un motivo che torna così accorato nelle sue pagine e non è l’ultimo dei suoi fascini.
Nomi e figure che mi riportano alla Cesena 1910 e al giovanissimo Serra appena arrivato alla direzione della Malatestiana, non senza i buoni uffici dell’avvocato Nazzareno Trovanelli, direttore del settimanale liberale il Cittadino, e uno dei pochi che partecipavano alla conversazioni del Croce quando veniva a Cesena a salutare Serra.
Il quale, proprio nel 1910 aveva pubblicato Scritti critici nei quaderni della Voce, che a me, appena uscito di seminario, parvero la più felice iniziazione alla lettura dei poeti.
Ma già nel 1909, il saggio sul Pascoli apparso sulla Romagna, aveva attirata l’attenzione di Emilio Cecchi che sulla Tribuna parlava dell’ignoto e finissimo Serra. Delle lodi, il Serra era molto schivo, ma il giudizio di una persona intelligente lo interessava, e se ne compiacque. Né gli dispiaceva quell’ignoto, che pareva custodirgli la sua quiete nell’angolo di provincia dove aveva scelto di vivere, tra silenzi quasi rurali e le cose che non cambiano, amate fin da ragazzo.
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Anni tranquilli, quelli tra il 1910 e il ’14, vissuti tra la famiglia, le letture, le cure della biblioteca, le sbiciclettate per le colline d’intorno, e il gioco del pallone sul colle Garampo dietro la rocca, e magari qualche supplenza alla Normale femminile per sostituire l’amico professore (il Carlini, il Grilli) improvvisamente trasferito in sede più lontana. Purtroppo, anche qualche tristezza: la tragica morte del padre, dottor Pio (già medico del Seminario), travolto dal treno alla stazione di Cesena; o la rivoltellata di un marito geloso (un meccanico), che lo turbò parecchio per le chiacchiere corse sotto i portici e nei saloni dei barbieri, che parevano offendere il pudore della sua vita privata.
Ma, alla fine, anni positivi per la sua esperienza, segnati dal lento succedersi delle stagioni sui colli della sua città, e dalle pagine che, nate magari dietro sollecitazioni di amici avevano anche l’aria di buone azioni. E poi, illustravano i suoi romagnoli; dopo il Pascoli, il Beltramelli, Severino Ferrari, il Panzini; pensava anche all’Albertazzi, a Giacinto Ricci-Signorini, la famiglia carducciana che lo teneva vicino alla sua gente e alla sua terra.
Intanto scriveva Del modo di leggere i greci, che era sempre un restare sul suo, coi suoi, nella solitudine di quegli antichi che era la più alta compagnia, e il più bell’aiuto a vivere.
Più tardi, Prezzolini poté vantarsi d’averlo fatto conoscere a un pubblico più vasto, portandolo dalla Romagna alla Voce. Ma chissà se fu un bene averlo portato via dal suo clima naturale e avvicinato a gente indubbiamente di molto valore ma che egli non sentì mai intermente consentanea alla sua indole e educazione.
Comunque, nemmeno allora accettò di collaborare ai quotidiani (Missiroli e Quilici lo sollecitavano per il Carlino, venti lire l’articolo), pur avendone le qualità, se non proprio l’indole e la costanza. Come mostrò nel ’14 quando, per pagare i debiti di gioco fatti al caffè Forti o al Guidazzi, accettò di scrivere per poche centinaia di lire il libretto delle Lettere; che al Caretti pare sempre un esempio di critica militante, «tutta arrischiata sul filo teso dei giudizi di prima mano, condotta arditamente sulla pelle dei viventi, con coraggioso spirito di responsabilità».
E fu specialmente dopo Le Lettere che il suo nome risuonò con autorità accanto a quello dei due maggiori critici militanti del tempo, il Borgese del Corriere e il Cecchi della Tribuna; i critici nuovi o critici estetici, come li chiamò per la prima volta il Bontempelli sulle Cronache letterarie di Firenze indicando il solco della lezione crociana che, tra consensi e dissensi, era la più stimolante e forse la sola.
Poi, venne il 1915, la guerra. E un giorno lo abbiamo visto partire per il fronte nella sua divisa di ufficiale di fanteria con le belle mostrine della Brigata Ravenna. Aveva detto a qualcuno: «Se non torno, fate compagnia alla mia mamma». Non tornò. La morte gli suggellò, tra i primi, quelle labbra su cui era rimasto un discorso interrotto e pronto a riprendersi: L’esame di coscienza di un letterato di fronte alla guerra.
L’esame nacque come risposta a un dubbio postogli da De Robertis, o più veramente dalla sua stessa coscienza che se lo portava dentro, da tempo: se un letterato ha diritto di continuare a fare della letteratura, malgrado la guerra. Era quello che allora si domandavano anche altri letterati: Bellonci, per esempio, sul Giornale d’Italia. E se la sua risposta fu più alta e piena, da muovere in alcuni punti l’aura dei Dialoghi, si deve al più forte sentimento dell’animo e al suo maggior impegno nel risolvere i problemi più umani, e i trascendenti.
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L’Esame di coscienza di un letterato, non cessa di essere un discorso sulla letteratura. La parola ritorna tante volte, e tornano i nomi di Croce e di Papini, di Panzini e di Péguy, di Rolland e ancora di De Robertis come letterati veri, col diritto di irritarsi e magari di scrivere pagine banali. Tornano come pretesti per continuare a parlare di letteratura, fino a conchiudere: «Alla fine, la cosa che mi è concessa di fare, è di tornare a quella letteratura»; della quale, anche dopo l’Esame, anche dalla trincea, continuò a occuparsi, scrivendo agli amici, come di «una delle cose più degne della vita». Perché la letteratura, ha spiegato il Pancrazi, per lui voleva dire ragione, morale del vivere.
E le pagine dell’Esame parvero così alte proprio per l’ardore morale che le sosteneva e sollevava nella visione della guerra e nell’immagine delle cose supreme che essa impone. Anche la sua pena parve maggiore, la pena per l’inutile grandezza della storia, per la guerra vana eppure necessaria; che non cambierà nulla nei valori dell’arte né dell’universo morale, eppure bisogna farla per non perdere l’occasione. Pur nelle cose della vita, il suo comportamento era lo stesso che nel fare la critica: un bisogno dialettico di «pronunziarsi contemporaneamente nei due sensi contrari», che non è un disdire e un disfare, ma un dire e un fare più consapevole e pieno: un intensificarsi.
S’è detto della sua pena, che qui pare maggiore; lo è, ma non è diversa da quella che si portava dietro ogni giorno, poiché era alla radice della sua anima, ed è in tutte le pagine, le più note e le meno note, e tutte legate tra loro da questo segno, come i bronzei vasi del tempio di Dodona che, a toccarne uno, tutti gli altri vibrano insieme. «Quella pena segreta, che non si racconta e non si descrive ed era nella sua sostanza più viva», scrisse l’Ambrosini, l’amico del cuore dei giorni consueti.
Per scoprirla, non abbiamo davvero aspettato l’Esame di coscienza, anche se nell’Esame, per l’occasione imponente da cui è nato, essa è più profonda che altrove: pena d’uomo, senza nulla di enigmatico e senza dramma: tutto e solo presente alle lacrimae rerum.
Tuttavia sull’Esame, sul Serra dell’Esame, si sono avuti giudizi e interpretazioni difficili; s’è parlato di esistenzialismo, di duplice figura reale e simbolica, dell’uomo senza limiti e senza confini, e ora un altro parla di maschera... La morte, che fa ottima ogni cosa buona, ha gettato su quelle pagine un alone di mistero. Che c’è, e rimane, e nel quale ognuno cerca di vedere secondo la propria vista.
Ma io penso con che diverso animo leggeremmo l’Esame, se il Serra fosse tornato dalla guerra, fra noi, e sull’Esame non fosse caduta l’ombra, fin troppo sacra, di un testamento. Voglio dire con quanta maggiore semplicità e libertà leggeremmo queste pagine in cui Carlo Bo vede «l’acquisizione dell’uomo senza confini e senza limiti», e Enrico Falqui trova «uno slargamento dell’idea della letteratura». Frasi un po’ vaghe, perché si possano raggiungere nel loro significato, se ne hanno. Ma per quello che ne comprendiamo — quasi d’un procedimento a una purificazione assoluta — ci pare di poterlo dire anche del Serra avanti l’Esame. Anche se in modo meno imponente, ogni suo scritto è un esame di coscienza, come era norma di vita.
E quanto alla maschera... ne accettiamo una sola, se proprio vogliamo chiamarla così; quella del giovane straordinariamente provveduto del senso e del gusto dell’eterno, che si era adattato a vivere nel provvisorio del suo tempo, cedendo spesso alle esigenze degli amici e lasciando credere, per un più di cortesia (la sua «facoltà di dissimulazione») che fossero anche le sue. E dubitiamo che qualsiasi inedito, trovato, o si stia per trovare (del Serra c’è molto più da scoprire nell’edito che nell’inedito) possa nulla cambiare dell’immagine di lui; che è sempre quella dei primi anni e la più rispondente alla sua ombrosa semplicità: quella dell’ignoto e finissimo Serra, le cui pagine ci danno la misura dello scrittore e del lettore, ma nessuna la misura ineffabile dell’uomo.
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Sommario del numero commemorativo de “La Voce” dedicato a Renato Serra. La collaborazione di Cesare Angelini, con Il primo critico puro.
Archivio “Cesare Angelini” |
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La sua morte! Quante cose sono state dette e scritte, spesso stonate perché almanaccate e spesso irriguardose. Ma chi poteva impedire a un poeta sinceramente commosso, di epicizzare il grido di un soldato: «Signor tenente, s’abbassi! Ed egli non si abbassò». Così, sull’avvio del Panzini, si arrivò a parlare di imprudenza e quasi di una strana forma di suicidio.
Contro le storte interpretazioni, intervenne a suo tempo Enrico Falqui col suo vigilante amore di cose a posto; per concludere che Serrà andò in guerra per fare il suo dovere come tanti, e, compiendolo, morì; senza desiderare la morte, senza gettare la vita. Morte, dunque, semplicemente gloriosa, non misteriosa. Bastava leggere le lettere scritte dal fronte, per conoscere il suo animo di tornare, a guerra finita, a riprendere la vita e il lavoro usato. O ricordare il colloquio con Missiroli, nella redazione del Carlino, la notte che partiva per il fronte: «Quante cose ci sarà da fare dopo la guerra. Quante cose scriveremo, se pure avremo la fortuna di sopravvivere».
La recente pubblicazione del Diario di guerra del colonnello Averardo Marchetti, rilasciato allo scrittore milanese Pasquini, ha portato chiarimenti più precisi sul ritrovamento della sua salma nel campo, insieme ad altri morti. Vite, dunque stroncate nel combattimento e non offerte futilmente o per imprudente curiosità. E se cade l’epico grido del poeta, rimane, più nuda e più vera, la cronaca del diarista.
Molto fu scritto anche sul ritorno di Serra in trincea dopo la licenza di convalescenza avuta per otite. Prezzolini nell’articolo citato — Serra in trincea — vagliate le discordi testimonianze, pensa di avere stabilita la verità, concludendo che al Serra non ancora guarito «fu negata la desiderata proroga della licenza». E avrebbe ragione su Carlo Bo il quale ha scritto che il Serra «sacrificò la sua vita, interrompendo la licenza per tornarsene al fronte».
Voci, deduzioni..., che lasciano sempre incerti anche noi che pure potremmo appoggiarle alla sua persona viva; e sulle quali può sempre arrivare una notizia in contrario, con sorpresa di chi crede d’aver detto l’ultima parola. Questa, per esempio, che rileggevo ieri sul numero del Popolano di Cesena, del 31 luglio 1915, che ce la dà il sempre vivo prof. Dino Bazzocchi che, per essere il vicebibliotecario della Malatestiana, più d’ogni altro visse quei giorni vicino al Serra. «I giorni passavano, e la breve licenza voluta, giungeva al termine. Serra aveva rifiutato i tre mesi che gli avevano accordato per accettarne uno solo, e raggiungere prima il suo posto. E partì pieno di fede e di ardore».
Lo stesso numero del Popolano riferisce dal Lavoro di Genova quest’altra testimonianza, firmata M.S.: «Il Serra combatteva con entusiasmo la nostra guerra. Ferito, gli volevano dare una licenza di tre mesi, ma egli ne volle uno solo; e ritornò, appena poté, al fronte. Cadde mentre guidava la sua compagnia all’assalto». Notizie che trovano maggiore attendibilità nel fatto che le pubblicava sul suo giornale Cino Macrelli, amico e confidente di Serra.
Ritrovate sui fogli ingialliti, ci restituiscono l’aria e la passione di quei giorni, di quelle ore generose, che furono della sua e della nostra giovinezza, e i dubbi e le riserve di oggi paiono un poco impiccolire.
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Qualche mese fa, Carlo Bo si chiedeva sul Corriere se il Serra era credente; e pareva rivolgersi a qualcuno che l’aiutasse a trovare una risposta. La quale (poiché era chiesta proprio a me) mi pare di trovarla vagamente in una pagina del Pascoli, la Messa d’oro per Mons. Bonomelli. Il poeta sente suonare le campane, e s’avvia verso quel suono. Sulla porta c’è chi gli chiede la tessera: la Fede. Il poeta risponde: «Però ho la carità che, secondo San Paolo, comprende anche la Fede ed è, a sua volta, comprensione, umiltà, ansia del mistero...».
Carlo Bo sapeva di toccare un punto non facilmente esplorabile nel mondo di quella vita privata gelosamente difesa, anche perché nell’altra credeva meno. Ma la sua domanda era più che legittima, trattandosi di una mente così atta a sentire i problemi dello spirito, così provveduto del gusto dell’eternità, e sempre così riguardoso anche verso quello che aveva lasciato, da parere che non l’avesse mai lasciato veramente.
Ora noi ricordiamo bene le parole dell’Esame che Prezzolini ci mette sotto gli occhi con una sua intenzione: «Fede è sostanza... No. Fede è parola che non mi piace, e quanto a cose sperate, non ne conosco». Non vogliamo pensare a quella sua dubbiezza sempre scontenta che spesso gli aveva fatto dire e disdire («Critica è parola che non mi piace», e poi continuava praticamente a fare della critica); pensiamo invece a quel suo colloquio con Missiroli e alle parole appassionate sulla «validità e vitalità perenne del Cristianesimo, su gli eterni problemi dell’immortalità dell’anima e di Dio, che dovevano ritrovare il loro diritto di cittadinanza nella filosofia dalla quale erano stati banditi dopo il trionfo del razionalismo germanico». Né erano parole che erano cadute per caso nell’aria patetica d’una notte di guerra, se qualcuno può ricordarne di simili o le stesse, udite dalla sua bocca, in Cesena, nello studio di Eligio Cacciaguerra.
Ma Prezzolini dice che Serra fu sempre positivista; e, citando la lettera del ragazzo sedicenne al prof. Lovarini (la prima dell’Epistolario e quasi eco d’una più lunga lettera, scritta in quei giorni a Mons. Ravaglia esponendogli lealmente i motivi pei quali usciva dal Circolo studenti; lettera ora custodita alla Malatestiana) in cui è una professione di fede positivista, dice che il Serra non ha cambiato nemmeno più tardi. Ne è prova — dice — il fatto che egli cedeva alla razza, intesa in senso fisico.
Ora l’amore di Serra per la sua gente (la sua «appartenenza» alla Romagna) si può forse discorrere in termini meno lombrosiani e meno impegnati in una fede filosofica, alla quale è anche difficile ricondurre Serra. Si leggeva, per esempio, nel manifesto per le recenti celebrazioni cesenati: «...il positivista che vibrava e si protendeva come nell’attesa di una improvvisa rivelazione o liberazione, quando incontrava chi sapesse parlargli della grazia». Questa era l’attitudine della sua anima, la più vera, la più veramente sua; che permette a Ezio Raimondi di parlare di «positivismo in crisi».
A sostenere l’agnosticismo di Serra, Prezzolini racconta che il giorno dell’azione in cui Serra perse la vita, rifiutò i conforti religiosi offertigli dal cappellano don Carlo Baronio, cesenate, e suo (e mio) amico, e sempre vivo. Francamente dispiace di vedere l’anima di Serra trascinata in questi puntigliosi accertamenti. In verità, Serra lasciò che il cappellano parlasse e comunicasse coi soldati, ed egli continuò a leggere verosimilmente il suo Platone, e quell’eterno.
Nel vago presentimento della morte. Serra lasciò scritto: «Se muoio, voglio essere solo. Saluto la mia mamma, e basta». Che era (come aveva scritto prima a un amico) un dispensarsi «dal tentare con l’animo certi problemi supremi a cui è bene rinunciare quando si è sul punto di affrontarli non col pensiero soltanto ma con tutto l’essere».
In questo ritorno di interesse intorno alla sua ultima ora, quel basta par giungere con un valore severamente perentorio sul nostro vario e vano chiacchiericcio; il quale, anche se fatto per amore di verità, rischia di mancar di rispetto proprio alla verità, e di riguardo verso quell’alto «spirito ben nato».
[11 febbraio 1966]
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