CESARE ANGELINI PRIMAVERA A CESENA
In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,Padova, Rebellato, 1968, pp. 115-122.
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Cesena in una fotografia d’epoca
Fotografia da Cino Pedrelli, La Cesena di Renato Serra, a cura di Emiliano Ceredi e Roberto Greggi, Cesena, Fondazione Renato Serra presso Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2009, p. 43. |
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Scrisse Renato Serra: «Io non so staccarmi dal tavolino, massime quando scrivo lettere, senza dare un’occhiata, e notare qualche segno dell’ora, del tempo, la luce, le cose che sono la mia vita. Se non lego le mie chiacchiere a qualche cosa nel cielo o nella terra vera, mi par che mi sfuggano nel vuoto». Così ci ha lasciato quelle generose aperture paesistiche che fanno delle sue pagine la storia delle sue primavere e delle sue estati. (Si pensa a qualche pittore minore del Quattrocento, amico del Poliziano e di Lorenzo, che, in un angolo delle sue Annunciazioni e Risurrezioni, aveva sempre bisogno di collocare un cespuglio d’erba o alberello che, esitando al vento, ne desse i segni della stagione e dell’ora.)
Diceva delle lettere, ma si può dire d’ogni suo scritto, pieno di questi tocchi descrittivi della terra e del cielo; intesi come un prepotente bisogno di confessarsi, di esprimersi in proprio, di far poesia, che poi sul più bello mortificava, spegneva, quasi non appartenesse alla sua umiltà di lettore che leggeva solo per la contentezza del suo spirito. Vedetelo quando parla dell’estate che «arriva d’un colpo, sfolgorante, sempre quella e sempre nuova»; e anche ce ne dà il sentimento: «Son così belli e lunghi e ombrati questi giorni della grande estate che incomincia». O dell’autunno, che giunge di notte: «Con l’ultimo temporale d’estate che scrosciò ieri è arrivato l’autunno». O l’inverno: «Cesena è sepolta sotto un metro di neve, e ancora ne promette».
Ma a Cesena ora è primavera; e noi vogliamo goderla con lui, nella sua terra e tra le sue pagine, varia e generosa, capricciosa e inventiva. Dolce, se l’ascolta frusciare quietamente nei rametti dei pioppi del suo viale, ancora acerba e nel pudico tumulto del risveglio, ancora un colore nell’aria da interrogare, un odore da fiutare, un riso, un rito da aiutare; ché primavera non è, se non l’accoglie il poeta. «La primavera è sulle mosse, un giorno di sole, un po’ di vento che spazzi, e la vedremo ridere improvvisa tra le spoglie dell’inverno morto. I rami sono ancor neri e secchi, ma così puliti; e la terra è nuda nuda, e tutto il seccume e il vecchio è caduto, s’accartoccia come la tunica della crisalide che è per scoppiare».
O la guardi, spiegata e sicura sui colli, tra le nuvole bianche del fior di ciliegio; quando da Bertinoro a Sorrivoli, è tutta una balconata fiorita, sospesa nell’azzurro fresco del cielo, e la pianura che dichina fino a Cervia è un’allegria di prati rossi del fiore della lupinella. Bellezza perfetta, simile al portento della poesia che ci colpisce sempre, anche se poi non si sa dir bene cosa sia; gioia che brilla o scoppia, e consola.
Come la sentiva spesso Renato Serra: primavera che giunge, a chi ne è degno, quasi un ristoro della grazia vera, e si mescola tra le sue cose e operazioni e tristezze, toccando i sensi e l’anima con belli effetti di pace. «I pioppi del mio viale, i buoni pioppi, consiglieri e amici, che ombreggiano stamane delle prime sfumature d’un tenero verde le loro cime snelle e nude nell’aria chiara, mi dicono che ora non giova parlare di concorsi e di scuole, di libri e di seccature; giova bere con gli occhi quest’allegrezza di tante cose novelle, pulite e lucenti; giova godersi i prestigi di queste nuvole fresche trascorrenti in un cielo di perla». O la racconta alla mamma: «Il tuo Renato che ora si gode la primavera di Romagna con una “licenza di convalescenza”».
Serra è il letterato che vive in fondo alla sua provincia, e per il quale i giorni passano silenziosi e uguali, spesso senz’altro aspetto di quel che prendono dal cielo sereno o buio, e di questo ha più cura di tutto quello che si scrive e si armeggia intorno in Italia. «Mi ricordo che smisi di scrivere per andarmene a godere un po’ del giorno che finiva di sciogliersi in pioggia sulla campagna. Che bel cielo di marzo, tutto stracci di nuvole stinte e slavate, leggere sulla terra vecchia e sporca: e la primavera ancora nascosta, tutta chiusa, suggellata, senza un odore, senza un alito, velata dall’acqua e dalle nuvole molli, intravvedute appena nella tenerezza dell’aria più rara, più fina, negli squarci tra fiocco e fiocco, sentita nella nudità delle cose che sono stanche d’essere così, e stanno per cambiare ma ancora non hanno cominciato, e mi lasciano sperare che finalmente quest’anno mi godrò tutta la gioia di vedere e sentire, giorno per giorno, senza che niente mi sfugga».
Abbiamo sott’occhio l’altra primavera in Romagna che, nel saggio sul Pascoli, par fermare in un punto concreto della terra e del tempo l’analisi inquieta del suo poeta e della sua poesia. È un pezzo d’obbligo d’ogni antologia. «Come beatamente l’occhio si riposa su questa dolce terra di Romagna! Ella è ancora intorno a me tutta bruna e nuda in una chiara aria d’inverno. Ma l’orizzonte è spazzato fino agli ultimi confini dal vento aspro di marzo, e nella pianura pulita le case paiono più bianche, gli alberi e le siepi più nere. La striscia del mare turchino ride al sole nuovo. Il colore di queste cose nuove parla al mio cuore. Io ne cerco il senso, e vago con l’occhio sul gran ventaglio aperto del piano...». Anche nella descrizione, egli cerca il senso delle cose, dell’ignoto che vi si cela. E ciò non è mai senza pena.
Forse, meno nota è la primavera che occupa le prime pagine del Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, e la musica fina velata della pioggia d’aprile. È la primavera a cui il poeta ha più affidato della sua anima; la più sofferta per tutto quello che gli è sfuggito, che si è lasciato sfuggire di lei, senza goderlo: i fiori aperti e sciupati, gli odori e i sapori della terra non visti e non sentiti; e il rimorso della poca attenzione verso le cose belle e fragili della vita, che è corta e transitoria. «...acqua cruda e smorta, senza un riflesso o un lividore di luce, senza un petalo di fiore o un filo d’erba che galleggi tenero e dica la primavera. Il rammarico vago delle ultime corolle di ciliegi, biancheggianti tra un sospetto di ruggine e lacrimanti sull’acquitrino azzurro dei grani; isolette di peschi d’un rosa gonfio e tenero sul cielo livido, e cascate di biancospino amarognolo, e tutto il resto delle cose che avrei dovuto cercare e guardare e seguire nel loro dialogo con la luce fresca, e non vedrò più, forse, non farò più in tempo a guardare».
Ci siamo fermati su alcuni di questi indugi squisiti, che ogni pagina ne sgronda. Descrizioni? La parola è così comoda che qualcuno (e, forse, anche noi) potrà magari applicarla a questi tocchi improvvisi, dove non mancano dilettazione e compiacimento che sono parte di quel suo umano dono d’abbandono alle cose, all’estro felice: la sua partecipazione alla bellezza del mondo. Ma nulla è più di essi lontano dalla descrizione intensa come svago o invaghimento della penna. Ognuno ferma un poco di quello che era in quel momento essenziale e intimo al suo animo e alla sua gentilezza: il bisogno di confessare la sua felicità o la sua pena, per liberarsene.
Severo bisogno che l’accompagnò fino al giorno della morte e alle ultime cartoline in franchigia spedite dalla trincea. «Sono sdraiato per terra, in una buca mezzo arrostito dal sole meridiano, a mezza costa d’una collina a 200 metri dagli austriaci, e si arriverà anche alla cima, se Dio vuole. Ma non creda che la scena sia fosca. È la calma del meriggio immoto: poche cicale rade cantano nel silenzio del cielo, in un vasto azzurro sbiancato e scolorato dal suo splendore, sul verde dei boschi scuri e sulle macchie spolverate dal riverbero uguale: un fiume di sole chiaro filtra attraverso i pampini netti e trasparenti del filare che ho di fronte. Qualche scoppio secco dei pezzi da montagna rotola e si perde lontano, nella pace». Anche qui il segreto che solum era suo, di trasmutare la pena in felicità e dare alle cose fuggitive la vita eterna.
[27 marzo 1965]
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