CESARE ANGELINI SERRA E IL PASCOLI
In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,Padova, Rebellato, 1968, pp. 85-92.
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Neppur oggi so pensare al Pascoli senza ricordarmi di Renato Serra e i miei anni passati a Cesena nel lontanissimo anteguerra 1910-1915. Meravigliosa stagione di poesia in Romagna: il Pascoli ancora vivo a Bologna (e una volta siamo andati a vederlo), il Panzini a Bellaria, l’Albertazzi a Castel San Pietro, Beltramelli a Forlì (spenti da poco, Severino in una casa di salute e l’Oriani a Casola Valsenio); Marino Moretti a Cesenatico, e a Cesena, lui, Serra, che della piccola patria doveva fare la città più civile della Romagna, «il paese fatto apposta per vivere e per essere giovani».
Di lui avevo letto nei Quaderni della Voce (1910) il bellissimo saggio sul Pascoli, che a me, appena uscito dal seminario con una gran voglia di cose nuove, era parsa la rivelazione non soltanto del poeta che amavo ma della stessa poesia, cioè di quello che è più universalmente umano.
A capire quel saggio, (l’inquietudine che lo colma e la passione e il turbamento che dà ancora, che dà sempre) ci aiuta a rifarci a quegli anni di accesa pascolite e antipascolite, il riportarci in Romagna, tra quelle cose, ancora vicini a lui.
Da pochi anni Serra era uscito dalla scuola del Carducci, del quale confessava d’avere imparata la lezione di umanità e di stile, che era poi quell’educazione, quel costume, quel gusto di poesia comune in chi più in chi meno a tutta la covata carducciana. Ma si trovava pure a vivere con tutte le sue disponibilità nell’aria rinnovata dal Croce, la cui influenza era già grande verso il 1910, se si parlava di «critici estetici» o «critici nuovi»; e mi pare sia stato Bontempelli il primo a chiamarli così, al tempo della famosa «polemica carducciana».
Quanto dei presupposti filosofici crociani sia entrato nel discorso critico di Serra, è difficile dirlo, tanto in lui tutto pare una ricchezza spontanea; ma il rinnovamento crociano era pure un beneficio che si respirava nell’aria, e Serra in un saggio aveva avvicinato coraggiosamente il Croce al Carducci. Momento molto intenso per la storia della critica italiana, se ci troviamo di fronte a uomini come Serra, Cecchi, Borgese, ché loro erano i critici nuovi; e il numero cresce se aggiungiamo Gargiulo e Bellonci e Ambrosini, e alcuni altri rimasti, dopo i primi tentativi, nel limbo delle buone intenzioni. Evidentemente l’età della critica storica era finita, e la probità del suo lavoro preparatorio. E noi, modesti consumatori di letteratura, amavamo quella loro critica giovane al pari di noi giovani.
Serra parve subito il migliore, per sensibilità e gusto, e per quella religione delle lettere che portava dalla scuola bolognese e faceva di lui un lettore civilissimo e già pieno di tutta la sua felicità. Non si sbaglia a dire che il meglio dei suoi doni lo ha calato nello studio sul Pascoli. Aggiungete il suo essere romagnolo; umanissima ragione che, mentre gli permetteva di ritrarre qualità dalla gentilezza del suo poeta, lo aiutava a chiarire a se stesso l’amore per la sua terra, non ultimo incanto di quel saggio che giunge spesso ad aperture di canto.
Fu detto (e il primo a dirlo fu lui) che il saggio è un discorso ondeggiante, diffuso, che tenta il suo soggetto da molte parti e non si risolve per nessuna. Ma poi non è vero. Perché, alla fine, la conclusione di tutte quelle pagine, a cui l’esitanza dona una particolare suggestione, torna al riconoscimento del suo poeta e della novità del suo canto; del quale nella tradizione nulla c’era mai stato di uguale. Del resto, è proprio quel dire e non dire, quel riprendere e contraddire, quel non aggredire mai ma l’avvicinarsi seducentemente, che gli permette di darci in meravigliosa maniera l’indefinibile aura pascoliana: e proprio in quei modi e moti lenti e molli è la segreta saggezza con cui riesce a raggiungere l’imprendibile del suo poeta, molto guadagnando dai contrasti e dalle contraddizioni e dai dubbi che continuamente solleva. Così è riuscito a dir tutto di lui — virtù e vizi, difetti e qualità — con finezza d’analisi, giungendo al riconoscimento di quella poesia intesa come pura visione e pura audizione, di quel suo mondo poetico tutto cose, e i rapimenti lirici e gli scoprimenti ritmici che cancellano gli accenti esteriori (il rumore) perché più alto suonino quelli interiori (i ritmi).
Pascoli non era, non è un poeta facile da descrivere, tanto meno da definire, anche per quell’alternarsi di cose belle e meno belle o addirittura brutte, di capolavoro e pasticcio, d’ispirazione e stanchezza che s’incontrano magari nella medesima pagina. Così la poesia esce da quella bocca indifesa, mescolando qualità altissime e smorfiette puerili, accenti puri e civetterie irritanti.
Si spiega ricordando che, nato il Pascoli, forte «natura» lirica, nacque subito un pascoliano a rifargli il verso, a creare la maniera; e il pascoliano fu proprio lui, Pascoli, «coscienza» critica scarsa, spesso nulla. In altre parole, l’uomo non stava in guardia contro «il fanciullino». Per questo, Serra si augurava che qualcuno facesse il libro d’oro della poesia del Pascoli; scegliesse le pagine vive e definitive, lasciando cadere le altre. Indicava le Myricae, dove la poesia è più pura e più continua, perché il poeta non era ancora turbato dalla critica; benché poi, in Canti di Castelvecchio riconoscesse momenti di arditezza e intensità lirica superiore.
Dopo il saggio del ’10 (sulla Romagna era apparso nel ’09) Serra scrisse ancora del suo poeta; con minor passione ma sempre con sincerità e aperta simpatia. Una volta, per la morte di lui; e fu nell’aprile del ’12, quando la sua città lo incaricò di commemorarlo. Se la commozione dell’ora (lo rivediamo pallido e bello come un’apparizione, sul palco del teatro comunale) gli comandava di parlare più dell’uomo e degli aspetti singolari della sua persona e della sua vita, non perse tuttavia l’occasione di consentire col poeta e la sua poesia, meglio definita come un dono e intesa come un movimento ingenuo e libero dell’anima. L’altra, fu nel volumetto delle Lettere del ’14, in pagine rapide e impennate, Serra prende una posizione netta e ben decisa: Chi ha detto che sentiamo noia di lui? Il Pascoli sarà sempre la più profonda e la più nuova poesia del nostro tempo: l’unico che l’Italia possa mettere accanto ai Verlaine e ai Rimbaud e ai Kipling delle altre nazioni, accanto agli inventori e donatori di canti. Praticamente Serra gli fu sempre vicino, anche quando ne pareva lontano. Lontano era forse dall’uomo querulo e vanesio e dalle sue civetterie e false ingenuità, non dalla sua poesia e dalla sua qualità pura. Spiega certe fugaci irritazioni e movimenti dispettosi avuti in un primo tempo verso di essa: È la poesia nostra: non potevamo essere giusti verso di essa. C’era troppo di comune fra l’ebbrezza e l’inquietudine della nostra adolescenza e la sua indifesa nuda voluttà...
Mai come ora, il suo discorso che pareva incerto e mosso, lo sentiamo fermo e definitivo.
Nel 1912 anche il Cecchi scrisse del Pascoli con molto impegno, e ne uscì un volume di 150 pagine (Ricciardi, Napoli). Anche la sua, come posizione di problema, non era molto netta davanti al «grande poeta, ineguale, in cui a momenti gli pare di riconoscere la tragica maestà dei precursori». Sicché, tra il saggio un po’ crudo del Croce (1907) e quello luculento di Cecchi, il Saggio di Serra restava sempre il più vero e equilibrato. Restava e resta, con quel gusto e quell’intelligenza e umanità che ne fanno un saggio difficilmente superabile. Tanto più che la sua bellezza sta proprio nell’aver buttato giù ogni muro o impalcatura di sistemi, ed essere tuttavia solido e vincente.
Fu quella la più grande stagione della critica pascoliana; che si aumenta, se ricordiamo l’altro scritto del Borgese, del ’13, le analisi minute e fini che Arturo Onofri pubblicò sulla Voce del ’15. Senza dire delle colonne fiorentine del Marzocco dove il Pascoli contava ammiratori e amici, e qualcuno valente; il Gargano, il Pistelli, il Pietrobono.
Poi venne la guerra, che voltò gli animi verso le cose prementi. E venne anche la pace, e la ripresa.
Tra il novembre e il dicembre del ’19, la Ronda promosse un referendum pascoliano con l’evidente intenzione di liquidare il poeta (come, per amor di Leopardi, aveva tentato di liquidare il D’Annunzio e lo stesso Carducci). Il referendum non interessò molta gente, non suscitò nessun vero impegno sul nome del poeta, non sistemò nulla. Cecchi intervenne ribadendo un suo concetto antico, sul Pascoli che lavorò fuori di un’idea organica dello stile, e disse cosa giusta. Aggiunse che il Pascoli ci diede di tutto, comprese parecchie cose belle. Anche lui guardava verso le Myricae. Intervenne Soffici e, con una sua aria tra di curatore fallimentare e maestro di scuola, s’affrettò a dargli 6, per farla finita. E il referendum prese un’aria umoristica; tanto può un fiorentino, se fa dello spirito, magari un poco becero. Per divertimento della memoria, noi ricordammo allora che un poeta a cui Soffici deve molto, alla morte del Pascoli aveva scritto che dopo il Petrarca l’Italia non aveva avuto un poeta più nuovo di lui. Novità che andava intesa, senza scandalo, nel senso che l’aveva rotta con la tradizione classicista restando italianissimo; e, del resto, non dispiaceva, anzi, piaceva al Carducci.
Poi la critica, soprattutto quella ufficiale, tacque del Pascoli quasi interamente. Ci furono, dopo il ’30, due o tre buoni articoli di Manara Valgimigli; un buon saggio di Baldini, uso prefazione; un volumetto onesto di Galletti, e un altro intelligente del Viola. Il Pascoli era entrato, è vero, nei paragrafi delle storie letterarie, che era un po’ come averlo collocato sui palchetti della libreria, con molto rispetto. Le riviste non s’occuparono più, vivamente, di lui. Il Convegno, che in un suo modo antologico successe alla Ronda e durò dieci anni, se ne occupò una o due volte ma per episodi riguardanti la vita, non la poesia. Né Pègaso né Pan si ricordarono di lui. Poco (e forse nulla) anche la Fiera letteraria del primo e del secondo tempo. Ripeto che i critici nuovi, Pascoli non l’hanno più avuto sul loro calendario.
Però, negli articoli e saggi sui poeti venuti dopo di lui, accade spesso che si richiamino a lui; parlino di Govoni o di Saba, di Valeri o del Montale degli Ossi. Segno che il Pascoli agiva ancora sulla poesia degli ultimi decenni e non sulla peggiore.
Ma è anche vero che i giovani sono andati lontani da lui e dal suo poetare. Il maggior interesse per lui, oggi, forse l’hanno ancora quelli che l’avevano quarant’anni fa. E mi par di vederne i segni in Cecchi che cura le pagine pascoliane dell’Onofri, o in Flora che presenta il volume del Viola… Per costoro e per quelli della loro generazione, Pascoli è sempre un nome verde, un tempo che, a parlarne, mette ancora allegria.
E questa nostra fedeltà al Pascoli, vuol essere fedeltà alla poesia e a chi ci ha innamorati del suo volto schietto.
[Settembre 1954]
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Renato Serra, Scritti critici, Firenze, Quaderni della “Voce”, 1910
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