CESARE ANGELINI «LE LETTERE»
In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,Padova, Rebellato, 1968, pp. 65-69.
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Renato Serra, Le Lettere, Roma, Bontempelli, 1914
Archivio “Cesare Angelini” |
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Nell’estate del 1914 uscirono Le Lettere (Ed. Bontempelli, Roma). Il libretto, che voleva essere una cronaca «in cui si rendeva conto dei libri e dei loro scrittori dal punto di vista del pubblico che legge e secondo la più comune impressione», fu accolto con più curiosità che entusiasmo.
All’Aragno, che in quei giorni era il più decoroso ritrovo letterario romano, fu occasione di qualche discorso ironico da parte dei frequentatori, parlandone come d’un catalogo laudatorio degli uomini della Voce... Che era vero e non era vero. Giovanni Boine sulla Riviera ligure ne criticò «la bizzarria del disegno»; non gli andava quella dichiarazione dell’autore di presentare l’opinione del pubblico più che la sua. Gli pareva cosa insincera, un complimento, un ripiego furbesco da gentiluomo in salotto, più che l’impegno d’un critico di mestiere. Boine scambiava per civetteria quello che in Serra era naturale modestia d’uomo che amava velare le proprie opinioni, e simpatie e antipatie, proprio in nome d’una serietà morale, lontana da ambizioni e pretese. Sempre per quella «bizzarria del disegno», negava al libro ogni valore di critica organica, di storia della nostra letteratura, mancando — diceva — di un sistema e d’un fulcro filosofico; e concludeva: «Questo non è un critico affatto». Boine, bellissimo ingegno e forte, ma che spesso aggrediva i libri da gaglioffo e con disattenzione (si chiedeva, per esempio, perché nelle Lettere «non è nemmeno nominata la Deledda», mentre le sono dedicate le pagine 112 e 113), non poteva capire tante cose di Serra, tantomeno il suo pudore; non era roba di casa sua.
Vide meglio Prezzolini che, nella Voce del 28 settembre del 1914, notati i pregi d’una maggiore rapidità e incisività delle Lettere su gli altri scritti di Serra, affermava: «Certi giudizi sono capitali, e resteranno». Pensava soprattutto ai ritratti così fermi e robusti di D’Annunzio e di Croce, di Soffici e di Papini; e a quelli, deliziosi e nuovissimi, di Panzini, di Gozzano e Di Giacomo.
Serra morì, passò la guerra; e, nel ritorno degli italiani agli studi letterari, il libretto cominciò ad apparirci nel suo pieno valore letterario e morale. La miglior critica dei decenni che seguirono si nutrì ampiamente di citazioni delle Lettere, e nelle pagine di Cecchi, Momigliano, Flora, Pancrazi, Casnati, Falqui e Bo («Serra, il critico esemplare»), la citazione compare come una garanzia del giudizio critico. Proprio attraverso quel tono conversevole e quell’apparenza di cronaca, Serra aveva raggiunto, nei suoi giudizi, la obiettività che è della storia; sotto l’apparenza d’un resoconto delle opinioni e del gusto del pubblico, aveva rischiata la sua personalità e il suo gusto pressoché infallibile.
Se mai, anche nelle Lettere, come già nei saggi maggiori, Serra lasciava andare le teorie e le formule estetiche, e parlava con una indipendenza di spirito che maravigliava lui stesso prima di noi. «Già, di critica seria, non ho mai conosciuto altro che la lettura pura e semplice». Creava il fondamento della sua critica: saper leggere, la sola cosa che si può chiedere al critico. O forse si può chiederne un’altra: saper scrivere... Ma questo ci porterebbe a parlar dello scrittore nobilissimo e dei suoi pregi, un discorso già fatto altre volte.
Ora, dopo cinquant’anni, si voleva soltanto notare la perenne validità del libretto, che rimane una voce capitale nel dizionario della critica militante. E ogni volta che si torna a parlare del Carducci o del Pascoli, di Guido Gozzano o di Soffici, anche se chi ne parla è Emilio Cecchi, si torna a citare per la millesima volta Renato Serra e il suo giudizio mirabilmente arioso e felice.
[27 agosto 1964]
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