CESARE ANGELINI COSCIENZA MORALE DI SERRA
In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,Padova, Rebellato, 1968, pp. 105-113.
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Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato. Seguito da Ultime lettere dal campo, pubblicato postumo, Milano, Treves, 1919. Copia appartenuta ad Angelini, fittamente sottolineata e annotata.
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Carlo Bo, anche per la sua tendenza a evadere dalla critica letteraria verso la critica psicologica, ha scritto un saggio sulla coscienza morale del Serra che, per attenzione e ingegno penetrativo, sta bene vicino all’altro, scritto trent’anni fa (nel 1938) da Giuseppe De Robertis sulla sua coscienza letteraria; riprendendo il discorso proprio dove l’altro l’aveva lasciato, sulla soglia dell’Esame.
Letto in pubblico, a Cesena, il 20 luglio del 1965, nel cinquantenario della sua morte sul Podgora, è comparso in un volume di Vallecchi, La religione di Serra; dove la parola religione indica finezza, educazione, pietas, o, direbbe meglio lui, «un principio di religione che è diventata in noi sensibilità più viva e esigenza più stretta». Insomma qualcosa in più della «religione delle lettere», espressione frequente sotto la sua penna.
Bo lo inseguiva da anni, con articoli su giornali e riviste, come un problema da risolvere, un turbamento da quietare per vivere più tranquillo. Perché intorno a Serra c’è ancora un alone di mistero che proprio lui pareva impegnato a creare con la complicata sottilità del suo spirito, docile e infastidito, generoso e ingiusto verso se stesso, sempre pronto a ironizzare la sua persona privata nel timor d’esser preso troppo sul serio («al diavolo gli uomini seri!») o di apparire troppo patetico («mi fa rabbia l’apparire commosso»).
Con un impegno maggiore, Carlo Bo ora cerca di raggiungerlo nel suo intimum mentis, nel fondo dell’anima, instaurando una severa immagine dell’uomo. Lo libera dal mito che se n’era fatto al momento della sua morte gloriosa non senza qualche equivoco che lo falsava, per prenderlo vivo sugli scritti e sulle lettere, insomma, sulle parole; e il risuscitarle lì, sul luogo, pareva metterlo in grado di raccontare meglio come andarono esattamente le cose.
Liberatolo dall’equivoco di partenza, Bo ne presenta l’immagine plasticamente viva: Serra «rimasto in piedi sulla trincea, a testa alta, in atto di sfida al destino, padrone di un discorso — l’Esame — che costituisce un enigma» per l’ambiguità di significati contradditori, tra una piena accettazione della vita e l’abbandono al cieco ritmo delle sue vicende, tra la necessità di partecipare alla guerra e la sua inutilità, perché la guerra «non cambia nulla né alla vita né alla letteratura». La sua solita dialettica, di passione e di sfiducia, di istinto e di intelligenza.
Ma, dice Carlo Bo, dove non hanno aiutato i critici più sottili a spiegare l’enigma, ha provveduto lo stesso Serra con la lettera scritta al De Robertis due mesi prima di morire: «Porto tante cose con me che non faccio tempo a dirti».
Bo dice che lì bisogna mettere l’accento: sulle cose che non ha fatto in tempo a dire, e costituiscono parte della verità che ci sfugge; lì sarebbe la spia di «un ulteriore discorso, lungamente, pazientemente preparato per un secondo tempo che non c’è stato» perché la morte ha interrotto il suo splendente destino.
E all’immagine del Serra in piedi sulla trincea, a testa alta, padrone del suo discorso, contrappone quella del Serra caduto: la parte del silenzio o del discorso non detto: le cose che non ha fatto in tempo a dire e se l’è portate con sé, andandosene.
Non si può allontanare l’impressione di una ingegnosa abilità nel ragionamento di Bo; il quale ha tuttavia una forte suggestione a cui non vogliamo sottrarci; anche perché è un tentativo di sapere quello che Serra, il generosissimo Serra, scomparso col fascino di chi muore giovane, non ha potuto dirci.
Accade dunque di parlare di due discorsi: quello pubblico — l’Esame — fatto per gli altri, per i conoscenti e gli amici del clima letterario del tempo; discorso evasivo, non definitivo; e l’altro, privato, «lungamente preparato e non detto», il cui filo Bo vede dietro le parole (prima motivo e ora superamento delle contraddizioni): «La guerra non cambia nulla, ma...».
Veramente noi abbiamo sempre pensato che queste parole si potessero intendere in un senso più liscio, più semplice e, direi, più vicino al sollevamento di passione e di aspirazioni proprie di quei giorni. Cioè: la guerra non cambia nulla, ma se non la facciamo (l’Italia tardava a uscire dalla sua neutralità) la nostra generazione perde la buona occasione e fallisce il suo destino. Questa è la pena a cui tende tutto l’Esame: «Questo momento che ci è toccato, non tornerà più per noi se lo lasceremo passare. Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino».
Dunque, altre cose da dire. Ma quali? Non le cose dimenticate, ma quelle custodite gelosamente per sé fino all’ultimo, quelle «che si è titubanti di comunicare e sono il vivo della questione»; quei problemi, dice ancora Serra «e quelle tristezze che sono un principio di religione, diventa in noi sensibilità più viva e esigenza più stretta...; il valore ultimo dei nostri sforzi, la purificazione di cui non sappiamo fare a meno; sentivo di doverla affrontare, con una risolutezza anche di linguaggio che avevo sempre ritardato fino ad oggi. Ma questo è inutile e impossibile, se domani si parte». Parole che aiutano a giustificare l’altro discorso di cui parla Bo.
Il quale poi dice che non è il caso di parlare di frattura o d’intervallo tra i due discorsi nella mente di Serra, ma piuttosto di «coesistenza», perché il secondo si inserisce molto prima dell’Esame. La questione non è dunque di tempo (prima l’uno e l’altro dopo) ma di qualità: quella del letterato compiaciuto e quella dell’uomo preoccupato.
Già nello scritto Partenza di soldati per la Libia, che è del 1911, par di trovare, in germe, alcuni nuclei dell’Esame, le stesse umane scoperte e le stesse sospensioni. «Qualche cosa vien meno delle solite divisioni e convenzioni: l’uomo sente l’uomo, il fratello saluta i fratelli. Dovrò dunque dire con gli altri che questo è il beneficio della guerra, della santa guerra che ha rivelato gli italiani a noi stessi? Ma io li guardo questi italiani, questi cesenati... C’è poco da rivelare».
Secondo Bo, il criterio del giudizio morale nasce in Serra appena ha accertata la labilità delle forme letterarie, che egli corregge per conto suo con la preoccupazione morale che lo porta all’esercizio dell’esame di coscienza, spesso anche chiamato «i conti con me stesso». Meglio dire, forse, che questa maturità, il giovane Serra l’ha sempre avuta; e che la bellezza («le forme letterarie») debba avere un suo fondamento morale, umano, è convinzione che troviamo già nelle sue prime cose, intesa come espressione dell’uomo intero.
Giunge opportuno l’inedito scoperto da Ezio Raimondi, che è di quegli anni, e pubblicato in un suo intelligente libretto, Il lettore di provincia. «Io sento e cerco qualche cosa di più schietto: il valore umano... Il mio nome è uomo, il mio amore è delle gentili cose umane».
A instaurare la sua immagine esemplare, Bo si mette a leggere l’Epistolario nella luce dell’esame di coscienza; insieme al quale cade il sentimento della morte, aiutato da tragiche disgrazie familiari (la sorella, il padre) ma soprattutto dal senso innato della labilità della vita: «Non siamo eterni; ma uomini, e destinati a morire». E i due termini — esame e morte — ricorrono strettamente collegati, dando a ogni pagina il timbro severo che le uguaglia.
Aggiungete «il rispetto della verità» come norma di vita, e il rimorso d’essere sempre in debito «con se stesso e con tante cose amate nella terra e nel cielo», e avrete gli elementi per costruire la sua figura essenziale, che finalmente vanifica in Serra il fantasma del dilettante.
Vedetelo in quegli stessi improvvisi che sono le aperture paesistiche; verbigrazia, nella citatissima descrizione della Romagna che è nel saggio sul Pascoli. «Come beatamente l’occhio si riposa su questa dolce terra di Romagna! Ella è ancora intorno a me tutta bruna e nuda...». Frenando la natura pronta e l’abbandono lirico, commenta: «Il colore di queste cose nuove parla al mio cuore. Io ne cerco il senso...»; che è un vedere al di là dei colori e delle pure forme e il sentimento della bellezza diventa sentimento morale, coscienza.
Certo i grandi fatti (guerra di Libia, guerra mondiale) modificavano il Serra, nel senso che sollecitavano lo sviluppo del suo spirito così atto a maturare e crescere al contatto degli uomini e degli eventi. Sicché, dall’umanesimo carducciano o fedeltà alla tradizione letteraria, Serra, al dire di Bo, è passato «alla acquisizione del mondo senza confini e senza limiti». Frase troppo vaga e troppo borgesiana, per non darci qualche sospetto. Ma vuol pur dire che Serra, senza dipartirsi dalla religione delle lettere, è passato, per dirlo con sue parole «a un principio di religione umana» che lo disponeva verso tutte le ragioni e le passioni degli uomini, suggerendogli un altro linguaggio dove la bellezza pare sostituita o intensificata da una grazia nuova. «Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa; un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni».
Che è, dice Bo, un modo di parlare cristiano o vicino alle ragioni vere del Cristianesimo.
A questo punto, la questione è senza fondo, e va sondata con estremo accorgimento per non rischiare di offendere la verità. Come chi dicesse che non vuole andare lui all’inferno, per troppo zelo di mandare altri in paradiso. Ma una cosa è certa: che Renato Serra fu una rara e autentica testimonianza dell’anima naturaliter christiana. Come fu la coscienza più alta del tempo che fu suo.
[25 luglio 1968]
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