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CESARE ANGELINI

IL CLASSICISMO DI SERRA

In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,
Padova, Rebellato, 1968, pp. 25-38.

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Renato Serra


A trent’anni dalla morte, la figura di lui, levatasi per forza propria su gli altri, spicca in quel luogo di maestro di cui è degno. Più di quando trent’anni fa, il suo nome entrava nel famoso triunvirato: Borgese, Cecchi, Serra, tre maestri di critica, che accompagnarono l’ultima grande poesia del Carducci, Pascoli, D’Annunzio.
Dal Corriere della sera Borgese, ricco di coltura e di passione critica, con succhi saraceni alla radice, giudicava brillantemente le letterature europee e in particolare la nostra. Cecchi sulla Tribuna imbastiva articoli corroboranti e esigenti, anche se, per troppa piena, un poco torbidi. Serra non aveva mai accettato di collaborare ai giornali. Temperamento lento, divagante, non poteva lavorare a scadenza fissa e in avare colonne; e poi quella diffidenza di sé e dei suoi doni, e il senso della vanità dello scrivere. Nato per la forma dei «saggi» riposati, definitivi, ne scriveva due, tre all’anno, negli ozi umanistici della Malatestiana ed erano rivelazioni a cui poco c’era da aggiungere. Lo stimolo a scriverli, si sa, gli veniva quasi sempre da fuori, dagli amici; in realtà non scriveva che quando l’animo era giunto a un colmo di passione e di persuasione, da traboccarne. Poi, tornava ad aspettare la visita dell’ispirazione, quasi marinaio che aspetta il ritorno del vento.
Ma Borgese, ora, dov’è? Borgese è lontano, e non solo perché è oltreoceano. A noi resta il senso della sua coltura vasta, stimolante, del suo ingegno affaccendato, brillante. I suoi articoli erano un po’ come le sue lezioni, le sue conferenze, ricchi, tentanti e perfino un po’ mondani. Ma dei suoi cento giudizi dati dalla tribuna milanese, chi ne cita più uno? Dirlo, è un po’ crudele per chi l’ha conosciuto nel suo fervore ingenuo e militante; ma, eccetto qualche formula, i suoi giudizi sono caduti coi fatti contemporanei e le occasioni che li impegnavano. In quanto a Cecchi, la sua critica fu per trent’anni una delle cose più autentiche e gustose e aspettate che ci era dato da leggere. Ma ha servito soprattutto a lui, a scoprire la sua natura d’artista e ne fa uno scrittore di prim’ordine. Un giudizio fidato sul Carducci o sul Pascoli, sul D’Annunzio o sull’Acri, si chiede ancora a Serra; il quale sui contemporanei — specialmente del tempo mosso della Voce — ci ha condannati a fare delle variazioni, a illustrare il superfluo, dopo che lui ne ha parlato.
E non abbiamo visto in questi giorni, critici provveduti rifarsi per un giudizio sul Petrarca alle pagine che Serra scrisse a diciannove anni per la tesi di laurea, e mettere il suo nome vicino a quelli dei più illustri petrarcheschi, senza che impallidisse? Pagine da cui si poteva già spiare la sua futura critica e i suoi modi e la acutezza penetrativa e nuova. Ce n’è echi nella lettera del settembre 1904 al Lovarini, in cui l’avverte che la sua interpretazione dei Trionfi andrà contro quella dei critici moderni, dal Leopardi in poi.
Ci porta a dire che se il Serra ha accettato pazientemente — come fu scritto — di essere il critico e il testimonio del decadentismo del suo tempo, riconoscendo in esso quel che c’era di buono, era però nato per conversare coi classici. Tale il temperamento, e l’educazione. E scrisse Del modo di leggere i greci, Del modo di leggere un catalogo, che era il corpus laterziano degli scrittori d’Italia. Ragazzo ventenne, parlava di «dimestichezza con le buone lettere», e confessava di averne molta.
Respirava nei classici la perennis humanitas, e nella loro lettura diceva di sentirsi invaso dal nume. («Qualche cosa di grande alita intorno, e io mi sento pieno del nume».) Di qui, quel suo linguaggio candido, religioso, parlando di essi. Nelle loro pagine diceva di trovare «il libro delle ore» della sua pietà letteraria; quel che avanza di essi, chiamava «reliquie» e bisogna accostarle con «ingenuità di fedeli»; e arrivò all’espressione «religione delle lettere», che è sua ma l’attribuì al Carducci, nella qui persona la vedeva incarnata; come il fedele vede nel santo la sua religione che ha preso voce e figura vivente.
Ora questo senso religioso in lui si concreta in valori vivi, essenziali. Dice: «Con questi classici saprei vivere e morire». Da essi deriva le certezze che sono la salvezza dell’anima avvilita, e in essi riposa e trova i motivi della sua consolazione. Dulcia solamina vitae. Dice: «Fin che sarà possibile abbandonarmi all’incantamento di un bel verso, il vivere non mi sarà mai senza consolazione». Tristezze e amarezze e non piccole noie furono anche nella sua vita: il gioco, le donne e la disgrazia. Ma bastasse che ritrovasse aperta la pagina d’uno dei suoi classici per riprender subito quota: «Virgilio o Platone mi sono aperti davanti. Quando sarà domani, penseremo al domani, dice un proverbio che io amo». Dice ancora: «Ora mi metterò a scrivere dei miei greci». Erano fughe dal mondo nelle solitudini alte dei suoi classici; un uscire dal provvisorio e appartarsi nell’eterno. Lì era il suo colloquio, e la consolazione. La quale comunicava poi all’amico angustiato: «Te lo dico io con tutta la serietà della mia amicizia: o la tua bimba o Virgilio. Almeno per un’ora al giorno, passatela con qualcuno dei nostri vecchi, con l’Ariosto o con Catullo, con Petrarca o con Sofocle. E usciremo da codeste angustie, non dico grandi o gloriosi, ma uguali a noi e con una amarezza temperata di qualche gioia». E poiché alla religione si domanda il miglioramento dell’anima, i classici, diventati i suoi testi religiosi, in lui si trasformano in sostanza di vita; e confessava di cavare dalla loro compagnia gentilezza e equilibrio e l’uguaglianza dell’animo.
Serra non s’è mai dato delle missioni, assistito da un’irrimediabile modestia; ma se pensiamo che chi dice queste cose è un giovane poco più che ventenne, l’età incline ad andare con l’ultimo vento e sperperarsi dietro le avventure romantiche e matte, ci stupisce il peso umano di queste pagine che, per non esser dettate da lunga esperienza di vita che ancor gli mancava, ci appaiono delle privilegiate intuizioni, delle rivelazioni; rivelazioni esse stesse di un giovane raro e singolare.
Quel che s’è detto, ci aiuta a comprendere meglio quel che vorremmo continuare a dire di Serra critico.
Ma critico — direbbe lui — «è parola che non mi piace»: sa di metodo e di mestiere, le cose più lontane da lui, il quale diceva che non si è che dei lettori; e, tra lo sfiduciato e l’ironico, si divertiva a chiamare sé stesso «lettore provinciale» «svogliato» «dilettante» ma anche «lettore amoroso». E disse una volta: «Di critica seria, io non conosco altro che la lettura pura e semplice. E poi, dei divertimenti personali, in margine». Tutte le sue pagine sono una «lezione di lettura». Del Carducci critico disse: «Carducci sa leggere, sempre. Il punto di vista da cui move verso il libro è il più giusto». Quel che diciamo di lui; al quale l’infallibile gusto, l’ingegno bellissimo e penetrativo e la vasta coltura permettevano di spaziare regalmente dal suo Platone a Kant a Croce, dai melici greci al Petrarca al D’Annunzio.
Non è facile dire cosa sia propriamente la critica di Serra. Più facile dire cos’è quella del Croce o, poniamo, quella d’un Russo; che, alla fine, è un metodo e spesso un ingegnosissimo schema. Libera da ogni metodo e da ogni astrattezza dottrinaria, la critica di Serra è tutto spirito di finezza, che gli permette ogni movimento, assaggi e sondaggi, divagazioni e approfondimenti, affermazioni e pentimenti. Sappiamo quant’è facile fare dell’ironia alla Boine su quel suo umanissimo bisogno di dire di sì e poi dire di no, per tornare a dire di sì con persuasione maggiore; quel raggiungere la radice del suo interesse di lettore — del problema critico — e poi abbandonarlo. Ma, a parte che il giudicare aggredendo «è da gaglioffo senza pudore», il definire è inutile; sia perché in arte (diversa dal pensiero) esso è un’illusione sempre rinascente «e compiutezza è ogni volta che uno esprime l’animo suo in quel punto e in quel moto», sia perché una cosa definita è una cosa finita, e un poeta non si esaurisce mai.
Guidata da sensibilità e fervore e gusto di vita, la critica di Serra si risolve in una vera collaborazione alla poesia, non in una semplice conoscenza del poeta di cui discorre. Come nella vita, così nelle lettere non accetta semplici conoscenze ma vuole amicizie, movimenti e consentimenti pieni dell’animo. Dice dei suoi poeti: «Quando ricerco le ragioni della mia preferenza con calma di critico, trovo un certo punto in cui il rationabile vien meno. Li amo, perché son nato per amarli. Qui finisce la critica». Dov’è pur qualche cosa di agostiniano: critica come atto mistico, dono di sé. Se Agostino scopre il volto di Dio attraverso l’amore, Serra attraverso l’amore scopre la verità dell’arte e il suo valore; poiché ciascuno ne scopre il volto e il nome sotto la specie di cui è degno. E qui è la sua fisionomia e il tratto per il quale Serra si distingue nettamente dagli altri. Solo e diverso.
Il ringraziamento alla ballata di Paul Fort è l’esempio tipico di questa sua critica nuova, mistica; intesa come occasione di prender coscienza di esigenze e modi dell’animo proprio. «Ecco, io vorrei far della critica come in un saggio che buttai giù l’atra mattina su una ballata di Paul Fort. Dove ho bisogno di confessarmi, per trovare in fondo ai particolari vani qualche cosa seria e certa. Ma bisogna che io vada in fondo; ch’io mi liberi di tutto, ricordi, dubbi, simpatie e antipatie, inquietudini e soddisfazioni; esauriti tutti gli episodi, ho qualche speranza di fermare un poco di ciò che è intimo ed essenziale».
La critica di Serra non è un metodo; è una passione, una seduzione, un piacer nostro e suo, una consolazione che ci comunica e muove l’anima e la solleva a interessi spirituali. Ed è cosa mirabile che in tempi in cui D’annunzio svuotava i valori della vita in puri suoni d’eleganza, Serra riempiva le forme artistiche di umana cordialità, restituendoci quello che con mano aurea l’altro ci aveva rubato.
Chi ha respirato agevolmente su classici, alimentandosi dei loro valori eterni, al mondo provvisorio del suo tempo poteva ben tornare generosamente, consentendo alle sue esigenze e capricci senza paura di perdersi, perché nei suoi antichi ha trovato l’ancora e l’approdo. Serra rimane un classico, anche quando si salva il diritto di fermarsi col gusto del frammentista ad ascoltare la bella parola in sé stante e sonante, «una letizia della parola in sé» direbbe un umanista; o si serba il piacere di isolare la riga dalla pagina, il verso dalla strofa, il filo dalla matassa, che anche questa è suprema prova del gusto, sulla testimonianza di Callimaco. Dice che le sacerdotesse «non portano a Demetra l’acqua di ogni fiume, ma quella che, pura e intatta, zampilla da una fonte sacra; piccola stilla, somma purezza».
In questo senso civilissimo e greco, qualcuno molti anni fa deve avere parlato di Serra critico puro [Cesare Angelini, Il primo critico puro, nel numero commemorativo della Voce dedicato a Renato Serra, 15 ottobre 1915, ndr] che, nonostante la balorda ironia di Luigi Russo, non escludeva la sua larga comprensione degli interessi umani, anzi, li sentiva fino a trovarli nell’intensità dei testi brevi e immensi.
Del resto sappiamo cosa pensava della tendenza trionfante verso il 1912-1914 di ridurre la lettura d’un libro a pochi frammenti o punti essenziali — rompere il vaso per ammirarne i cocci — che era, alla fine, una lezione imparata malamente dal D’Annunzio e dal Pascoli ancor prima che dal Croce. Diceva che, sì, son questi punti che contano, ma non si può pretendere — se non quando si faccia della critica personale — di sceglierli e limitarli; bisogna cercarli e riconoscerli dappertutto. «Le scelte e le antologie servono troppo i pigri. Bisogna imporre i testi interi. Questo è l’unico classicismo che non può morire».
È il classicismo di Serra. Che ama e stima i contemporanei ma si rifugia negli antichi, sentendo tra sé e loro, nel campo dell’arte e della vita, scambi e comunicazioni feconde. Nella sapienza dei suoi greci, Serra supera il decadentismo. Sa che gli elementi effettivi della poesia d’un poeta sono i suoi versi e le sue parole; ma scrive: «l’uomo mi attira sempre più della pagina». Pagina sapit hominem. È la novità del suo classicismo ch’egli ricrea con una sensibilità personale, e non è mai esercizio accademico, ma umanesimo e poesia.
Alla forza dell’ingegno critico, in Serra s’aggiunge la rara felicità dello scrittore. Felicità espressiva... È tanto che la ripetiamo questa parola che ci pare sfinita; ma per Serra sentiamo di poterla ripetere in un senso ancora nuovo. Serra scrittore è quello che egli disse di altri: un dono, ch’egli ha posseduto ab initio. Ragazzo di vent’anni, già parla con la bocca di uno di quei greci a cui bastava dire una cosa perché fosse bella. Sensibile e trepida, la sua scrittura par che cerchi sempre le rime, ma non ha bisogno di quelle per esser poesia. Scrive alla zia: «Volevo ringraziarti dei fiori... Li ho tenuti tutto ieri nel catino della mia camera, senza cavarli nemmeno per lavarmi; tornato da fuori, che era caldo e afa, tuffavo il viso insieme nell’acqua e nel profumo. Adesso li ho davanti in un vaso di vetro. È ormai sera e la bianchezza dei mughetti pare ancora imbevuta di luce; sono tutti freschi e odorosi con le campanelle così candide e pure che a toccarle pare che debbano risuonare...»
La gentilezza si addice a Renato; che in lui non è inzuccheramento, è espressione d’armonia interiore, finezza, pudore. E come non ricordare l’aneddoto del vecchio Carducci e della studentessa di lettere, che è in nota al discorso dell’amico Grilli sull’amore in Carducci? Dove un puro viso di fanciulla ride come dentro un sonetto del suo Petrarca. La grazia e la gentilezza della poesia d’Italia coloriscono la sua pagina nuova. E se col primo Guido, Serra ha in comune la natura gentile e la tristezza profonda del dubitante animo, con l’ultimo divide il piacere di assaporare il suono di un nome, di una rima e — perché no? — la civetteria della voce flautata. «Il nostro bel Guido è un’artista, uno di quelli per cui le parole esistono prima d’ogni altra cosa».
A qualcuno dispiace certa sua beatitudine espressiva, quasi cantante mollezza; e forse è solo il sentimento finissimo delle parole e del loro suono che ne aiuta il senso. Fosse vissuto, si può pensare che l’esperienza gli avrebbe indurita, molto naturalmente, la voce, come l’età indurisce i lineamenti del volto. Ma una accelerazione si nota già nel volumetto delle Lettere d’oggi, dove la necessità un po’ cronachistica dei giudizi veloci corregge la sensibilità indugiante, e uno stile più incisivo fa più asciutto e meno cadenzato il discorso. Ricordate quel D’Annunzio «alcibiadeo, che parla in Tucidide, con una voce chiara, indurita dall’esperienza» o talune parti dell’Esame, dove la severità del momento mette l’anima nuda di fronte a sé stessa (la lacrima, la «lacrima calda» di Serra, al pensiero del ferito rimasto solo sul campo) calandola in pagine austere e allontanando il sospetto che l’Esame sia un pretesto per accompagnare con accenti musicali le vicende di quei giorni, sue e dell’Italia, che riempivano d’un senso eroico l’ozio del tempo di prima.
E l’Epistolario? È stato scritto — e scritto bene — il capitolo sulla coscienza letteraria di Renato Serra. L’Epistolario inviterebbe a scrivere quello sulla sua coscienza morale, umana: come l’ha raggiunta precocemente o come l’ha avuta per privilegio più che per conquista. È il libro che meglio ci dà gli elementi per partecipare pienamente alla religiosità del Serra, per quella sua cristiana voglia di donare, di prodigarsi. È interessantissimo vedere come per gli amici la sua pigrizia si scuota e diventi cosa varia, generosa, allegra, piena di freschezza e addirittura d’entusiasmo. «Scrivimi, chiedimi. Per me, scrivere una lettera è un divertimento... e le parole scorrono sulla carta come da una sorgente sempre piena». Aiutare, donare, nascondendo sé stesso perché gli altri crescano. Non conosco forma di cristianesimo più autentico e schietto. Nessuno pensi che io voglia, abilmente o ingenuamente, introdurre il paragrafo dell’«Hic incipit legenda sancti Renati...»; ma se la bella parola non vogliamo prenderla dalla teologia di Giovanni, si prenda dal Fedone ove ha pure un segno d’aureola.
Con qualità maieutiche di prim’ordine, Serra ha stabilito la vera respublica coi letterati del suo tempo, o socialità; ognuno potendo prendere dalle sue nourritures, secondo il suo desiderio o bisogno. E di questo nemmeno voleva gratitudine. Si comportava con essi (inutile far dei nomi) come con le donne, chiedendo solo di poterle amare, non il diritto di essere riamato. Se mai, di questa generosità, Serra si vendicava poi scrivendo con segreta ironia che egli era un letterato per combinazione e senza nessuna certezza né d’ingegno né di propositi...; che non aveva nessuna attitudine al lavoro dell’arte, creativo o critico, del verso o della prosa; che era un povero uomo, senza speranze né illusioni e senza forza né alla vita né all’arte...
Ma nel chiudere l’Epistolario che accompagna il corso dei suoi giorni fino all’ultimo, uno ha l’impressione che Serra se ne sia andato con la malinconia di non aver creato un’opera. Forse pensava a un’opera creativa, un volume di versi o di novelle, vagheggiato, in parte lavorato, più volte promesso agli amici. Ne parlava ancora nell’ottobre del 1914 al De Robertis: «Novelle pronte non ne ho...»
Ora, lasciando stare che i tre volumi di Le Monnier custodiscono pagine d’uno scrittore che è sempre più vivo di molti che egli ha giudicato, vien fatto di dire che, se mai, le sue pagine sono il lievito della parabola, che ha la forza di fermentare sempre. Se non c’è l’opera, c’è qualcosa di più, c’è l’insistenza dell’operare trasmessa ai suoi fedeli. Perché Serra, il meno scolastico dei letterati, è l’uomo che ha fatto più scuola, che ha lasciato più viatico. Maestro, dunque, e qualche cosa di più.

[Luglio 1946]


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L’ingresso della Biblioteca Malatestiana nei giorni di Renato Serra

Fotografia da Cino Pedrelli, La Cesena di Renato Serra, a cura di Emiliano Ceredi e Roberto Greggi, Cesena, Fondazione Renato Serra presso Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2009, p. 35.

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