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CESARE ANGELINI

NOTIZIA DI RENATO SERRA

In C. Angelini, Notizia di Renato Serra,
Padova, Rebellato, 1968, pp. 15-23.

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Renato Serra


Quando Serra morì, il 20 luglio del 1915 sul Podgora, Papini gli dedicò un mirabile necrologio: «Con la morte di Serra abbiamo perduto più di Trento e Trieste». Ma i professori universitari si domandavano chi era questo scomparso. Papini che l’aveva conosciuto e intuito, ne affermava l’alto e finissimo ingegno letterario; gli altri tradivano una situazione culturale italiana in quegli anni un po’ ferma, se ancora non avevano avvertita la presenza d’un rinnovamento portato dal Croce, del quale La Voce di Prezzolini e dei suoi collaboratori era una viva e vistosa testimonianza.
D’altra parte, nel 1915 di Serra erano usciti due soli volumetti di cento pagine l’uno: Scritti critici (La Voce, 1910) e le Lettere d’oggi (Bontempelli, 1914); il resto era ancora per riviste e giornali. Dal canto suo, Serra era sempre vissuto appartato nella sua Cesena («Casa mia, letto mio, fuoco mio...») in un riserbo fatto d’umiltà e fastidio, che era poi una difesa della sua indipendenza e del suo lavoro, e dal quale uscì con la guerra per entrare nella morte.
Fu certo un regalo della vita averlo conosciuto nei giorni della sua breve apparizione e nella sua Cesena, averlo visto passare per anni tra i luoghi usati: la casa, il caffè, la biblioteca di cui era il custode; aver frequentato lo studio dove nascevano le sue pagine e le sue amicizie; averlo sentito leggere i suoi poeti, guidato da un sublime udito: di ciascuno provando a figurarsi il modo di comporre, fosse il Pascoli o il Petrarca o il suo Carducci; aver goduto i modi affabili della sua conversazione e il calore e il vivo dell’uomo, che era più grande della sua pagina.
Oramai siamo in pochi a ricordarlo; non dico lo scrittore e il lettore di poesia, di cui, anzi, è stato detto e si continua a dire con ammirazione crescente quello che non fu detto di nessuno della sua generazione, la quale conta pure dei nomi che il tempo non stinge. Ma lui, l’uomo, la sua persona viva; che era, prima di tutto una bella cosa da vedere, una presenza fisica tutta armonia e misura; e gli occhi chiari e tiepidi gli illuminavano il volto pallido e l’alta figura d’atleta. In quei giorni giovani e irripetibili qualcuno gli fece il ritratto. Papini, il più felice scrittore di Toscana, fermò nel sole dei lungarni alcuni tratti di quella nobile apparizione: ne uscì una pagina affettuosa come un abbraccio.
E notissimo è il ritratto che gli fece il Panzini sulla marina di Bellaria, circondandolo di tutto il mattino d’estate e del grande mare in pace: «Diritto, luminoso, puro: coi sandali ai piedi nudi come di pellegrino... Gli domandai: — Lei chi è? — Io sono Renato Serra».
Ma quel Serra, quell’umanissimo Serra era qualche altra cosa. Nella filigrana della persona signorile, esitante, c’era annidato non so che cosa che i miei occhi rivedono sempre, più che non sappia dire la parola. Qualche cosa che andava al di là della sua figura perfetta: simile a un trasparire dell’anima, a un sorriso invisibile dell’anima; un lume non perituro: il meglio di lui, il «di là» di lui.
Già durante la guerra, La Voce che ne pareva l’erede naturale (scandalo dei vociani quando l’Esame di coscienza seguito dalle ultime lettere dal campo, fu ceduto dalla famiglia a Treves) aveva preparato un piano di pubblicazione dei suoi scritti in otto volumi; non mi pare che poi l’abbia interamente eseguito. Più tardi, Le Monnier raccolse tutto Serra in tre volumi definitivi, due dedicati ai saggi critici, l’altro all’epistolario. Era un mettere a disposizione di tutti, i frutti di quell’ingegno straordinariamente felice; e i tre volumi rappresentano il testo più sicuro della nostra critica d’oggi, di molti scrittori essendo riuscito a dire la parola più giusta. Del Pascoli, per esempio. E poco fa, in un articolo descrittivo della situazione pascoliana, Emilio Cecchi autorevolmente testimoniava che «la nota più giusta resta sempre, ormai tanto remota, quella di Serra». Quella stessa nota che il Cecchi aveva lodata sulla Voce del 16 settembre 1909, salutando per primo l’ignoto e finissimo Serra.
Ed è sempre curioso ricordare come nascevano quei saggi, quelle pagine: spesso da un tratto di buon cuore: accontentare il direttore d’una rivista modestissima che gliele aveva chieste. Scriveva a un amico: «Tu sai bene che io stampo questa roba per compiacere il direttore della rivista, e per avere un po’ di cartaccia da salvare le apparenze in un concorso qui...». E quella roba era il saggio sul Pascoli, pubblicato in due puntate sulla Romagna, la rivista forlivese e semiclandestina «dove — diceva — io posso parlare quasi per me solo. Ogni cosa, anche un po’ muffita, vi cade bene, e poi a Cesena la leggono e si dice intorno che io lavoro e che ho fatto un bell’articolo. E ciò fa piacere a mia madre». O era Prezzolini che da Firenze lo invitava a collaborare alla Voce: e «per non recare un dispiacere a Prezzolini» nacquero La fattura, la Nota sull’Acri, e il Ringraziamento a Paul Fort. Talvolta, pieno del suo soggetto scuoteva la sua pigrizia generosa, e lui stesso sollecitava questo o quell’amico a chiedere: «Dammi qualche pretesto di pensare, di sporcar della carta, anche se tu non te n’abbia poi a giovare». E un’altra volta: «Io trabocco di idee e di spunti... Mi faresti un gran regalo valendoti dell’opera mia». Un bisogno di esprimersi, di liberarsi, come l’ape del miele, delle sue fantasie e problemi.
E quello scrivere per sé, che dava alla sua critica un interesse particolarmente autobiografico, era sempre accompagnato dal bisogno di descrivere la sua terra, nella vicenda dei giorni e delle stagioni; che era, alla fine, testimonianza d’un suo talento creativo, o forse, ed è la stessa cosa, un distendere e placare i problemi dell’anima in paesaggi. Spiega come gli autori che più lo interessavano fossero quasi sempre dei romagnoli: Pascoli o Severino, Panzini, Beltramelli, Oriani...; o un romagnolo di adozione come il Carducci. Buona occasione di levare gli occhi dalla pagina e guardare dalla finestra il paese che essi prima avevano visto e descritto. Così, dalla penna che dettava giudizi solidi e spesso definitivi, si staccano quelle aperture di paese che, per il loro fresco splendore, entrano in gara con le pagine dei suoi autori e spesso le superano. C’è un brano diventato famoso e che tutte le antologie riportano: una Romagna ancora invernale. «Come beatamente l’occhio si riposa su questa dolce terra di Romagna! Ella è ancora intorno a me tutta bruna e nuda in una chiara aria d’inverno...». Meno nota ma non meno colma è la descrizione d’una Romagna autunnale, calata nella Prefazione al Fra Michelino del Carlini. «Vedevo una terra stanca sotto un cielo impiccolito e coperto, ecc.». Ma innumerevoli sono e tutti vivi e sempre nuovi gli spunti paesistici nella stesura dei saggi, come «un bisogno di legare le sue parole a qualche cosa nel cielo e nella terra, perché non gli sfuggissero». E, se non restassero a provarlo i giudizi critici a cui giungono quei saggi che oggi tutti citano come punti di partenza o punti d’arrivo nella lettura di questo o quel poeta, più che scritti critici, si direbbero quaderni lirici o la storia dei giorni e delle stagioni della sua terra felice. Felicissimi certi improvvisi: «Primavera è sulle mosse; un giorno di sole, un po’ di vento che spazzi, e la vedremo ridere tra le spoglie dell’inverno morto». O un principio d’estate, festante: «Ora che le ciliegie portano allegria alla nostra campagna...»
Potendo vivere in una capitale, arbitro elegantissimo di cenacoli letterari, Serra preferì vivere in provincia, dove i giorni passano silenziosi e uguali «e nell’oggi si ritrova l’ieri»; tra amici semplici, corridori di bicicletta, giocatori di pallone, modeste sartine, e soprattutto la possibilità di dimorare con se stesso e cercare un senso più che alle parole, all’operare e al vivere. Scriveva: «Io sono solo e abbandonato, in un certo senso; lontano dalle cose belle che io amo e da quelli che le amano come me. Ma sono in casa mia, dove anche il dolore è più umano e ha qualche dolcezza per il cuore. Ma sono a Cesena, fra le mie cose, fra la gente che ho sempre praticata, e dalla mia finestra usata l’inverno è meno squallido a considerare; e nei rametti dei pioppi che frusciano brulli e nudi inanzi la mia finestra, la primavera si annunzia più lieta».
Del resto, la capitale era dove viveva lui, che in quei giorni chiamava a Cesena i più chiari uomini degli studi e della cultura, a vedere lui, a sentire lui; non ultimo e non una volta sola, Benedetto Croce, che passava grandi ore alla Malatestiana a consultare codici rari, assicurati ai plutei con catene di ferro.
Serra parlava da Cesena, ma c’era chi lo ascoltava da Firenze, da Torino, da altre capitali; poiché le sue parole erano già quelle di un maestro finissimo e nuovo: parlasse di lettere greche o moderne, commentasse una partenza di soldati per la Libia, portando il fatto di cronaca su un piano di discussione storica, o, contro il Croce, sciogliesse la teoria del socialismo in un esame di coscienza, in un fatto vitale, com’era suo costume e bisogno.
Parve, talvolta, volersene andare; verso Torino, verso Firenze. «Desidero lasciar Cesena al più presto possibile e a qualunque patto». Forse, per romperla col tavolo da gioco che lo tentava e lo perdeva; forse per allontanarsi dalle ire di un marito geloso... Ma cambiava presto parere: «Da Cesena non mi muoverò mai... Far pelle nuova, d’uomo sociale, mi costerebbe uno sforzo».
Quando Serra morì, Alfredo Panzini disse che non valeva più la pena di scrivere ora che non c’era più lui a leggere. Da buon letterato, il Panzini continuò a scrivere... Ma l’importante era che si cominciasse a leggere Serra, per conoscerlo, per amarlo. E Serra cominciò ad essere letto, ammirato, amato. Tutto Serra: i saggi, l’esame di coscienza, le lettere; che, raccolte, si vide che erano il ritratto letterario del suo tempo, e un breviario di umanità e saggezza. Serra oggi è il critico più letto, più citato; il suo nome, dove cade, è garanzia di buon gusto, il suo giudizio dà autorità al discorso. Lanfranco Caretti, uno dei critici che sceglieremmo volentieri a rappresentare le più pulite esigenze dell’ultima generazione, l’altr’ieri, sull’Approdo, riconosceva in Serra «il più grande critico del tempo moderno».
Ma avere conosciuto lui, l’uomo, è un ricordo che arricchisce e protegge la vita.

[26 luglio 1958]


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