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CESARE ANGELINI

CARLO PORTA

In C. Angelini,
Altro Ottocento (e un po’ di Novecento),
Bologna, Boni Editore, 1973, pp. 25-55.

***


Carlo Porta

Dipinto di Fedele Teodoro Bruni
Archivio storico civico, Milano


A Carlo Porta e alla sua poesia siamo arrivati con qualche ritardo. Si spiega. Il dialetto in cui ha scritto, difficilmente inteso fuori di Lombardia e, come dialetto, considerato un linguaggio inferiore, non poteva conciliargli molti lettori né il favore dei letterati. In talune storie letterarie ancora del primo Novecento, il Porta non è nemmeno nominato. In altre, appare di sfuggita nel sottobosco della «poesia vernacola», quasi un parente povero nella societas dei poeti. Quella del Galletti-Alterocca, per nominarne una, se la cava con cinque righe sebbene non intere, con una sottaciuta distinzione tra letteratura alta e letteratura bassa.
Poi, certa spalancata oscenità e trivialità di molte sue pagine, che il dialetto accogliendo la burla e lo scherno pare più facilmente concedere, ne sconsigliava la lettura pubblica, la citazione. Sicché, per molto tempo, la fama del poeta è stata sacrificata dalle sue stesse qualità, spregiudicate.
Non che non fosse conosciuto; ma lo era piuttosto tra la gente del popolo di cui parlava il vero linguaggio, come un cantastorie meneghino (un bosin, si diceva in Milano e nel contado) che si prestava a esser letto o detto in piccole brigate e quasi limitatamente ai nostri paesi di Lombardia. Quel Carlo Porta milanese, che si leggeva sulla copertina di edizioni economiche fine Ottocento, ne diceva subito l’estrazione e la lingua e la destinazione a letture circoscritte, a gente di buon umore, con l’impegno di ridere e far ridere.
Naturalmente, prima dell’arte, che neppure si cercava, contavano le situazioni ridanciane o lubriche o triviali, che fu un gusto grossolano abbastanza comune nel secondo Ottocento lombardo. O le punte aggressive contro i nobili e i ricchi, il cui comportamento sociale, altezzoso e ignorante, avviliva i poveri e gli umili. O quelle contro il governo («i pubblegh funzionari») che, francese o austriaco, rivoluzionario o reazionario, era quasi sempre un «governo ladro» e malfidente, atto più a irritare gli animi che a instaurare costumi umani e civili.
Però, nel 1817, lui vivente, fu pubblicata una scelta delle sue poesie dal Cherubini, che molto si occupò di cose scritte in dialetto milanese, e di un Dizionario milanese-italiano che interessò parecchio il Manzoni al tempo delle stesure del romanzo. Nel 1842, ebbe pure l’onore d’una edizione illustrata a maggior attrattiva, dal Gonin e dal Ricciardi, gli stessi che illustrarono con molti fregi e quattrocentoquattro vignette l’edizione dei Promessi Sposi.
Ma bisognava che meglio si chiarisse il concetto di poesia, e che al dialetto si riconoscesse l’autorità di lingua, perché il Porta prendesse, nella considerazione dei lettori e nei manuali di storia, il suo peso. Come l’ha avuta in quella del Momigliano (fu proprio questo piemontese a ridimensionare il nostro milanese) e del Flora, dove la sua poesia ha intelligentemente trovato un riconoscimento che supera la poesia dialettale, e di lui si parla come di uno dei più grandi poeti del primo Ottocento; collocandolo — per stare coi lombardi — tra il Parini e il Manzoni. Coi quali sta bene; e sta meglio da quando, accanto all’aspetto comico della sua poesia, si guarda più da vicino l’aspetto lirico, cioè il valore poetico, le qualità di fantasia solida e lo spessore del linguaggio.
A confermare la nuova attenzione raccolta sul Porta negli ultimi decenni, ricorderemo l’edizione mondadoriana del 1921, fatta sotto gli auspici della «Società del Giardino»; quella hoepliana, curata dall’Ottolini vero il 1946; e quella completa, del Ceschina, del 1944, a cura di Severino Pagani, con prefazioni bene informate che ambientano l’opera, riportandola all’epoca sociale in cui visse il poeta, riconoscendone, soprattutto, il valore storico. Un’ampia scelta (con buona prefazione) è stata fatta nel 1954 da Piero Gallardo per i Classici dell’Utet. Attenzione particolare merita quella, recente, della Nuova Italia, a cura di Dante Isella, specialista di studi lombardi, tornato al Porta con un impegno filologico nuovo rispetto ai precedenti; e la rievocazione pare una scoperta.
La sua vita senza drammi esteriori né scosse né particolari avventure sentimentali o politiche — in un’epoca politicamente intensa — si svolge in una serie di fatti privati, di vocazioni sbagliate: come quella di volersi far prete, di farsi mercante, senza averne l’attitudine né l’arte. Ma, forse, si conta meglio attraverso la lettura delle sue poesie, che sono l’eco e il quadro del tempo a cui la sua vita s’era molto naturalmente mescolata. Vita di modesto impiegato del governo, vissuto quarantasei anni, e quasi tutti dietro uno sportello d’ufficio.
I dati principali, li ha lasciati l’amicissimo Tommaso Grossi, il notaio, presentando l’edizione del 1842, e sono quelli che ritroviamo ormai in ogni manuale e in ogni notizia di Carlo Porta.
Nato a Milano il 15 giugno del 1775 (benché, in un sonetto incompiuto, abbia fatto il malizioso spostamento di un anno: «Sont nassù sott a Sant Bartolomée — in dal mila sett cent settanta ses...») il Porta fece i suoi primi studi nel collegio dei Gesuiti a Monza, poi passò a fare filosofia nel seminario di Milano; ma, accortosi che non era la sua strada, ne uscì. Andando ad Augusta in Germania a imparar mercatura, vi si scoperse inadatto, e tornò a Milano dove ebbe un impiego presso l’Intendenza di Finanza. Nel 1798, all’entrare dei francesi in Milano, va a Venezia, anche là addetto all’archivio della Finanza, come conveniva a un diplomato ragioniere. A Venezia, dove anche il doge parlava veneto, impara a scrivere versi in quel vernacolo, e s’innamora d’una vedova piacente, Adriana Corner: una passione forte e breve come un capriccio di vento. Nel 1799, l’anno in cui muore il Parini, tornò a Milano, nuovamente impiegato presso il solito ufficio. Vi incontrò il Balestrieri, poeta meneghino di qualche credito negli ambienti cittadini, e l’incontro fu decisivo: nella lettura dei suoi versi (che non erano gran versi) il Porta scoprì la propria vocazione dialettale. Con gratitudine lo ricordò in un sonetto (e non lì solo) insieme coi maggiori:


Varon, Magg, Balestrer, Tanz e Parin
cinqu omenoni proppi de spallera,
gloria del lenguagg noster meneghin...

Pareva un limite, una rinuncia al più ambizioso poetare in lingua. Ma non era una rinuncia, era una scelta destinata. Quando il Porta poetò in lingua, fu poeta fiacco e insignificante; la forza del suo genio si doveva realizzare nella creazione dialettale, nella quale soltanto fu potentemente se stesso; quel ch’era accaduto, nel 1600, a C.M. Maggi, inventore del meneghino, che, volgendosi dalla poesia dialettale alla fina, perdette le ali.
Anni carichi di avvenimenti politici. Proprio nel ’99, essendo Napoleone impegnato nella guerra d’Egitto, gli austriaci occuparono Milano. Ma fu per poco. Tornato fulmineamente in Italia, Napoleone li attaccò e vinse nella battaglia di Marengo (1800). Il Monti e il Foscolo, poeti che rappresentavano l’orientamento e il disorientamento del tempo, lo salutarono liberatore; il Porta ci rimise l’impiego, sotto l’accusa d’averlo avuto dagli austriaci. Lo riebbe presto presso il Debito pubblico, in grazia d’un epigramma (Sant’Ambroeus) ch’era uno sfogo contro i dominatori sconfitti.
Il Porta non era un uomo mutevole; piuttosto sapeva rassegnarsi agevolmente e ragionevolmente a questi inevitabili cambiamenti politici; i quali, in quanto politici, lo lasciavano abbastanza indifferente. S’è visto anche quando gli avvenimenti si sormontavano; e Milano, elevata a capitale della repubblica italiana e poi del regno, vide Napoleone entrare in Duomo, mettersi in capo la Corona ferrea e proclamarsi re d’Italia. I francesi che a questi cose ci hanno il genio, celebrarono feste e baldorie, moltiplicando prepotenza e soprusi. Il Porta, osservatore al cui sguardo nulla sfuggiva, si fa cronista di queste vicende; non censore, non si sentiva autorizzato. Ci scherza, e le ironizza, senza prendervi parte diretta, come invece aveva fatto il Parini, dal quale si dice sempre che avrebbe ereditato (ma non bisogna esagerare questa parentela) parte del suo spirito satirico. È che il Porta non era un moralista, e nemmeno un poeta civile; tanto meno un poeta «sociale», che levasse atti d’accusa contro i governi e le istituzioni, e ne flagellasse i vizi. Era un commentatore di fatti, e queste vicende erano, per lui, non più che materia di racconti da abbellire di poesia. (Il Manzoni avrebbe detto, con pur diversa arguzia: «Ci basta avere dei fatti da raccontare».)
Va pur detto che il Porta era un elegante e spesso galante frequentatore della Scala, centro della vita mondana, e, in quella Milano piena di compagnie filodrammatiche, era conosciuto per un suo particolare talento nella recitazione delle parti comiche e buffe.
Nel 1806, a trent’un anno, sposa una vedova: Vincenzina Prevosti. Il rito è compiuto nella cappella annessa a un podere che egli possedeva in Brianza — questo serbatoio della poesia lombarda — sul lago di Pusiano; e fu un matrimonio felice. L’esser socio della «Società del Giardino», frequentata dalla aristocrazia e dalla miglior borghesia, aumentava il campo delle sue possibilità di osservatore umorista, che si sfogava in scherzi e epigrammi e sonetti, mentre la sua popolarità si dilatava negli ambienti alti e bassi della città. Come quando nel 1810, per la fausta occasione delle nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, il poeta fece alla coppia felice un brindisi vivacissimo, alla maniera del Redi: Meneghin all’osteria, diffuso in manoscritto e recitato da lui stesso nelle trattorie, dov’era conosciuto come «el sciur Carlin». S’allargava sempre più la sua fama di legittimo interprete dello spirito ambrosiano, arguto e bonario, amico dell’allegria e della buona tavola. Mentre si consolidava la sua carriera burocratica — il suo «secondo mestiere» — esercitata con illibatezza e puntualità. Così attaccato era al suo posto d’ufficio che, se gli capitava d’assentarsi, ci lasciava il cappello:


De Carlo Porta l’è quest chi el cappell:
quand al gh’è minga lu, basta anca quell.

***


Giuseppe Bossi, Gaetano Cattaneo, conte Giuseppe Taverna, Carlo Porta, facevano parte della «Camaretta» portiana.

Dipinto di Giuseppe Bossi
Raccolta Treccani degli Alfieri, Milano

Nel 1814, ch’erano i suoi anni più fecondi, cominciò a soffrire attacchi di podagra che gli durarono fino alla fine, senza però togliergli il buon umore e la voglia di stare in allegre compagnie. Perché il Porta, temperamento sociale e accomodante aveva molti amici fedeli, che accoglieva nella sua casa di via Monte Napoleone, formando la cosiddetta Camaretta, dove conveniva il meglio della Milano intellettuale, a cui leggeva via via i versi scritti in ufficio quando lo sportello era libero dai clienti. Vi convenivano poeti, pittori e uomini politici: il Torti, il Grossi, il Bassi, il Berchet, famoso autore di ballate romantiche, il Cherubini, quello del Dizionario meneghino: il giovane Luigi Rossari («il Rossarin») da poco uscito dall’Università di Pavia e dal collegio Borromeo; il Manzoni, già autorevole per gl’Inni Sacri, e amicissimo del Porta. Vi capitavano letterati di passaggio: il Foscolo, il Pellico... Erano cordiali discussioni sulla poesia, sui nuovi movimenti: si preparavano nuove primavere per la poesia e la patria. Lì, pare che il Berchet abbia maturato il ‘Manifesto’ del romanticismo. Giorni illustri per Milano; né mai gli atti di una società letteraria furono così vivi e gloriosi. E, cosa che molto contava, in quegli incontri si gettavano anche fermenti per il movimento politico del Risorgimento, il nostro riscatto.
Nel 1814, sconfitto Napoleone nella campagna di Russia, gli austriaci, che tenevano d’occhio la situazione, tornarono in Lombardia; e anche stavolta il Porta accolse tranquillamente il nuovo padrone, con un sorriso coerente e superiore.
Nei suoi ultimi anni, entrò in amicizia con monsignor Tosi, il confessore del Manzoni, che proprio lui glie l’aveva fatto conoscere; e ne ebbe illuminazioni e direzione. Forse, da questa sincera frequentazione gli nacque il nuovo stato d’animo, un più vivo sentimento della sua responsabilità di scrittore, e lo scrupolo che lo indurrà più tardi a rintracciare quello che di più libero aveva scritto, per distruggerlo. Come, dal letto di morte, incaricò il Grossi di bruciare un poemetto sulla Confessione, offensivo alla fede e alla religione. Quella religione che, andandosene, invocava accoratamente come un’eredità perduta e ritrovata:


Religion santa di me vicc da ca’
che in mezz al tribuleri di passion
no te fett olter che tiratt in là,
in fond al coeur, scrusiada in d’on canton...

Morì il 5 gennaio 1821, quattro mesi prima di Napoleone.
Il Grossi ne pianse la morte:


L’è ona brutta giornada scura scura,
el pieuv a la roversa, el tira vent...

Il Porta occupò poco posto nella società del suo tempo; quanto ne può occupare un modesto impiegato del governo allo sportello del suo ufficio. Non ebbe pretese né ambizioni. Non era uomo rappresentativo; non s’occupò di politica, non l’interessava. Non scrisse nessuna Oda a nessun liberatore, come il Foscolo; non fu mai in carrozza coi principi, come il Monti. Ma, dal suo sportello d’impiegato, vide e osservò la realtà di un mondo meno noto a quei due, e la descrisse quasi senza parere. Per questo, molto posto occupa la società d’allora nella sua poesia, soprattutto quella popolana, plebea, di cui il Porta parve il cronista, e ne fu il cantore. Fu uomo di non molta cultura, ma di molta sapienza artistica che gli s’accumulava nell’anima, quasi a sua insaputa, attraverso l’osservazione e lo studio del’uomo; aiutando a far grande l’Ottocento lombardo, vanto particolare di Milano.

Dei versi scritti a Venezia nel vernacolo della laguna, a cui l’avevano iniziato il Gritti e il Lamberti, si ha solo il ricordo che li ha scritti. Rimangono invece anche i primi suoi versi in meneghino: Penser bislacch ecc. Scherzi, ancora impacciati nella lingua, duri nel ritmo, col peso impuro di qualche barbarismo, e qualcosa di salace che qualcuno (il Dossi, ad esempio) ha ricondotto alla imitazione di epigrammi di Marziale o ai faléci di Catullo, che il latino imparato in seminario gli permetteva di raggiungere. Bizzarrie, giochi; come quei sonetti scritti in versi italiani e milanesi alternati, alla maniera del Parini giovane. E s’è lasciato capire anche troppo che si tratta di imitazioni, di prèstiti. Vinello fatto con l’uva di filari altrui.
Qualcosa di più vivo e suo, è in due ‘Almanacchi’ che svegliarono la gelosia d’un altro alamanacchista meneghino, petulante e barbiere, che gli lanciò contro vilissime ingiurie. Il Porta, che sentiva di custodire in sé un segreto di poesia, continuò a poetare: componimenti burleschi sui vari casi che offre la vita, sui fatti del giorno, e scherzi e burle, i temi che più s’addicono al dialetto, e in cui s’intravvedeva il talento comico e novità di invenzione.
La prima celebrità vera, anche se ancora municipale, gli venne dai Desgrazi de Giovannin Bongée, racconto in ventitré sestine di endecasillabi che, pubblicato nel 1812, ebbe buona accoglienza nei salotti, nei ritrovi, e la lode del Manzoni. I più, furono colpiti dalla pietosa comicità del fatto; un episodio di prepotenza commesso da un soldato francese sopra un cittadino pacifico e sempliciotto. Il comico nasce dal fatto che il cittadino burlato nella persona e nell’onore, vuol mostrare d’aver coraggio di fronte all’aggressore, e, viceversa, ha paura; finge di alzare la mano per batterlo, e in quel momento riceve un formidabile scapaccione. Vittima impacciata della sua semplicità, vuol giustificare la sua paura con la prudenza, e ne busca un altro più forte:


e mi sotto cont on ánem de lion!
e lu, tónfeta! on olter scopazzon.

Gli intenditori notarono subito nelle sestine la vera novità: sapienza tecnica, schietta pittura della scena, e la forza e vivacità della rappresentazione. Forza che cresce, cresce con evidenza nelle cinquantotto ottave di Olter desgrazi de Giovannin Bongée (1814), secondo tempo del medesimo racconto, nel quale lo scoppio della comicità nella maggior varietà delle avventure, fa del sempliciotto un personaggio indimenticabile, mentre si affermano qualità di lirismo che si riveleranno via via più copiose attraverso Un miracol, Fra Diodatt, Messa noeva, culminando nel frammento dell’Apparizion del Tass: la poesia meno documentaria, poiché il linguaggio, rapito nel fantasma poetico, perde ogni peso, si fa aereo riso, dono.
Con Giovannin Bongée, il Porta ha raggiunto il pieno dominio del dialetto. Diceva d’averlo imparato alla scuola del Verzée:


Vuna de sti mattinn tornand indrée
da la scoeura de lengua del Verzée
con sott la mia scorbetta
caregada de tucc i erudizion
che i serv e i recatton
dan de solet a gratis ai poetta...

In realtà l’inventa lui, con la sua partecipazione piena alla spontanea vita d’ogni giorno, interpretandolo e colmandolo con comicità umanissima


sta cossa frusta che par semper noeuva.

E noi pensiamo che il Porta non sia solo in questo ritorno dal Verzée. Insieme, o pochi passi dietro di lui, c’è un altro, molto simile a lui e, presto, più grande di lui, il Manzoni: con le stesse curiosità di sentire e imparare le parole essenziali della vita e del discorso, sul luogo dove le parole sono unicamente suggerite dalla necessità di comunicare i bisogni quotidiani immediati.
Col pieno dominio del suo linguaggio, il Porta ha anche ritrovato la fiducia nei suoi temi. Ne potrà aggiungere quanti vorrà, e saranno tutti altrettanto veri e germinanti. Con questo dominio perfetto della lingua e dei temi, potrà addirittura misurarsi con Dante e i personaggi e le scene dell’Inferno; e nessuno dirà che, fatti meneghini, quei personaggi abbiano perso rilievo; anche se lui stesso, il Porta, dice che nella sua traduzione, el pover Dant pare on scior ch’è vegnuu al meno. Questo è un frammento del canto 5°.


Leggevem on bell dì per noster spass
i avventur amoros de Lanzellott,
no gheva terz incomod che seccass,
stoo per dì che sarav podúu stà biott;
e rivand, in del legg, a certi pass
ne vegneva la faccia de pancott,
e i nost oeucc se incontraven, come a dì
perché no pomm fà istess anca mì e tì?
Ma quand semm vegnuu al punt che el Paladin
el segilla a Zenevra el rid in bocca
cont el pù cald e s’ciasser di basin,
tutt tremant el me Pavol me ne imbrocca
vun compagn, che’l ne fa de zoffreghin;
ah, liber porch, fioeul d’ona baltrocca!
Tira giò, galiott, che te see bravo;
per tutt quell dì gh’emm miss al segn e s’ciavo.

All’animo schiettamente plebeo con cui il Porta guarda i fatti, corrisponde l’espressione plebea con tutta la sua forza originaria; perché lo scrivere, per il Porta, non è un fatto letterario ma un fatto naturale, che poi, nel risultato, diventa opera d’arte. Il dialetto coglie sveltamente la cosa, il sentimento (è esso stesso sentimento), l’attraversa, «l’assoggetta», direbbe il Dossi; il quale ha lodato il dialetto milanese, e con l’idea fissa di acquistarlo alla lingua, nelle sue prose ha ripreso da esso espressioni e parole come da un fresco serbatoio. (Sapete che lo stesso Manzoni, sul punto di scegliere la nuova dicitura per il suo romanzo, provò molta perplessità, e confessò che la lingua milanese — dice proprio lingua, non dialetto — era quella in cui avrebbe potuto scrivere il libro senza un barbarismo.) Certo il dialetto aiuta il comico col quale il Porta guarda tipi e caratteri che sceglie dall’aristocrazia, dal popolo e dal clero, in cui il suo spirito di indagatore accanito trovò un vasto campo di osservazione per darci non soltanto un quadro del tempo, ma un quadro del mondo umano che è di tutti i tempi.
Guardò la folla degli umili, degli oppressi con simpatia cristiana; e già l’aver scritto in dialetto, il loro vero linguaggio, è testimonianza della sua solidarietà con essi. Con sentita umanità, ne mise crudamente al vivo le miserie a cui li aveva ridotti il cattivo ordinamento politico-sociale, Giovannin Bongée, Marchionn di gamb avert, Meneghin biroeu di ex monegh, sono macchiette rappresentative della classe; e, mentre raccolgono la sua pietà, hanno dall’arte tal consistenza e potenza comica, che diventano personaggi, i personaggi portiani, specialmente il Marchionn di gamb avert, più ricco di umanità e un risultato di poesia più alto. Forse è il racconto più bello del Porta; senza polemica, tutto sofferenza, con una sincerità grandissima: commedia e tragedia insieme. Il Porta accettava le idee nuove instaurate dalla rivoluzione; ammirava anche Napoleone; naturalmente disapprovava i soprusi degli oppressori, e la sua protesta era calata, senza rancori, nel racconto dei fatti, nella solidarietà con le vittime che soffrono e protestano in privato e sono obbligati a servire in pubblico.
Vivissimi anche i tipi cavati dall’aristocrazia, alla fine, anch’essa meritevole di compassione, se cercava di difendersi contro le nuove leggi rivoluzionarie che la detronizzavano, e, più, contro la propria decrepitezza che la denunciava finita, esaurita in un rettorico e fatuo vantamento di natali e di privilegi, a cui non corrispondeva più nessuna sostanza morale. Discendente da servitori fedeli di case patrizie, il Porta ne conosceva le grettezze e i costumi. La marchesa Paola Travasa, «vuna di primm damazz de Lombardia»; donna Fabia Fabbron de Fabrian, sono le caricature di se stesse e della classe. I loro nomi ci aprono vedute su vecchi palazzi della Milano primo Ottocento; sulle vie scarsamente illuminate da lampioni e percorse ora da pattuglie francesi («quei prepotentoni de francès») ora dalla ronda austriaca («la ròndena senz’olter di Crovatt»); sulle piazze attraversate da lacché precedenti con fiaccole accese le carrozze dei loro signori che vanno alla Scala o alla Cannobiana; o alle chiese dai bei nomi ambrosiani. Questa è donna Fabia che, attratta dalla sua devozione, (è un venerdì) va a San Celso a pregare:


... e vi andiedi con quell sfarz
che si adice alla nostra condizion.

Nel scender dal cocchio, si scontra «in un prett si sporch, si unt» che, nel tirarsi indietro, urta nel legno e stramazza a terra quant’è lunga.


Come me rimaness in un frangent
di questa fatta è facil da suppor:
e donna e dama in mezz a tanta gent
nel decor compromessa e nel pudôr...

Ride la folla e motteggia sconciamente.


quasi foss donna a lor egual in rango,
cittadina,... merciaja,... o simil fango.

Fatta maggior di sé, entra in chiesa e va fino all’altare del Crocefisso, dove fa la sua preghiera.


Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell’infallibil vostra volontà
m’avete fatta nascer nel ceto
distinto della prima nobiltà,
mentre poteva a un minim cenno vostro
nascer plebea...

Confortata dalla preghiera, donna Fabia esce di chiesa, e trova anche modo di fare una buona elemosina a una turba di mendicanti che riempiono la piazza. Saputo che sono ventuno,


Càspita! molti, replico... Ventun?
Non serve; Anselm, degh on quattrin per un.

Ma lo spirito comico del Porta, si direbbe che si esercita più abbondantemente sul clero. Il clero del Porta, è un capitolo grosso. Naturalmente sarebbe ingiusto credere che egli volesse coinvolgere nel ridicolo tutto il clero. C’erano anche allora ottimi sacerdoti dedicati alla sincera pietà, alla beneficenza, alla cultura, ed erano i più. Ma come accadde in tempi di trapassi e sconquassi politico-sociali, c’era anche di quelli che potevan diventare bersaglio del suo ridicolo, per le loro debolezze e difetti: scarsa coscienza del proprio ministero, poca dignità nell’esercitarlo, e quel difettaccio dell’avarizia che perseguita parte del clero dai tempi di Dante:


L’è l’avarizia porca malarbetta
che in paricc de lor sciuri l’è quel vizzi
ch’el par taccaa a la vesta e a la goletta,
un obbligh meneman come l’offizi...

Il Porta, li vedeva, questi preti, dal suo sportello d’ufficio, quando gli si presentavano a ritirare le misere congrue dei loro benefici. Ne scriveva al Grossi: «Anche oggi scrivo nel mio solito modo, cioè nel tiretto del mio banco d’ufficio; e, tratto tratto, conviene che lasci la penna per servire i bravi e buoni reverendoni che vengono a truppe a riscuotere le loro congrue...». I buoni e bravi reverendoni... L’accrescitivo bonario non riempie solo lo spazio delle loro corporature rumorose e cordiali, ma riempie l’animo d’un umano fondo di simpatia. Pure attraverso il comico di cui li copre, par di scoprirvi la stessa solidarietà che ha per i poveri, per le vittime. I decreti napoleonici avevano ridotto parte del clero a condizioni economiche umilianti; molti, per vivere, erano costretti a mendicare le messe, a contrattare le funzioni religiose («i prett viciuritt»), a rincorrere esequie da una chiesa all’altra, a cercare e ad accettare posti avvilenti in case nobili. Si pensa alla Nomina del Cappellan e alla scena di quei preti che concorrono al posto rimasto vacante per la morte di don Gliceri, il prete di casa, in seguito a una polmonite che s’è buscata nel menare a spasso la cagnolina, sul mezzogiorno.


Alla marchesa Paola Travasa
vuna di primm damazz de Lombardia
gh’era mort don Gliceri, el pret da casa,
in grazia d’ona peripneumonia
che la gh’ha faa quistà in del sforaggiass
a mennagh sul mezz dì la Lilla a spass.
L’eva la Lilla ona cagna maltesa
tutta goss, tutta pel e tutta lard,
e in cà Travasa, dopo la marchesa,
l’eva la bestia de maggior riguard...

Viene il giorno fissato per il concorso:


Ecco che riva intant la gran mattina,
ecco al palazz tutt quant in moviment,
pret in cort, pret suj scal, pret in cusina,
pienn i anticamer de l’appartament;
gh’è i pret di feud, el gh’è i Còrs, gh’è i nost:
par on vol de scorbatt che vaga a post.

E si vorrebbe nominare El miserere, con la pietosa, disgustosa scena di quegli altri che, durante le esequie in San Fedele, alternano i versi del salmo con ghiotti richiami alla cucina e alla cantina. Il comico malizioso sta particolarmente all’improvviso giungere della parola sacra del salmo a rimare con quella profana:


Vun loda l’ostaria de la Nos,
l’olter el Monte Tabor,
e poeù, tracch a dò vos:
Domine, asperges me
hyssopo, et super nivem dealbabor.

È il lirismo del comico. Ne segue quell’amaro ridere che ha fatto accostare il Porta al Rossini: e l’accostamento, fatto la prima volta dal Rovani nei Cento anni («Carlo Porta è davvero il Rossini della nostra poesia vernacola»), fu ripetuto dal Dossi, e ora lo vediamo ripreso dal Flora nel ridimensionamento che ha fatto del poeta. Viene in mente una parola di Cesare Correnti. Dice che a trovare l’alto ridicolo, ci vuole un’anima che sappia soffrire, che abbia un senso doloroso della vita. Anche il Porta ne ride amaramente, come d’una delle tante sciagure morali a cui aveva portato il disorientamento del tempo.
S’è detto che il senso lirico oltrepassa la materia, e ne fa una cosa d’arte, lucente e ridente. Il Porta ha il gusto del descrivere e del raccontare il bel fatto. Ne nascono quadri poetici disegnati con perfetto senso di misura e sparsi di particolari deliziosi; specialmente certi racconti cavati da libri devoti. Fra Diodatt, On miracol, tolti dal Prato fiorito, mantengono non dico l’ingenuità ma il meraviglioso della fonte trecentesca.
Fra Diodatt, di Tolosa, guardiano, «anzi definitor di Zoccolott», per la gran divozione entrato in estasi, spesso sale in aria benché molto pesante, e vi resta sospeso «paricc or, sul fa d’un lampadari». Un giorno, il rapimento è più forte, e il frate è portato in su:


ma in estes, bandonaa, lu de per lu,
come sarav i gemm faa col savon.

E scompare. Si pensa sia passato alla patria dei beati.
Una sera, mentre sono a cena, i frati sentono rumore:


se sent invers la porta del convent
un malarbetto scampanellament.

È lui, fra Diodatt, che, uscito dall’estasi durata centododici anni, ritorna, e, come guardiano, infila subito la porta del refettorio. Dopo la sua morte, i frati celebrarono l’anniversario dell’avvenimento «con du pittanz de pu de l’òrdinari».
È il ridicolo gettato sui frati e sulla loro credulità. Ma più nessuno l’avverte, preso dal maraviglioso che il poeta ha creato attorno al fatto, e tutt’attento a contemplare l’ingenuo affresco del pittore.
On miracol (che è pure del 1815, l’anno più felice), di ispirazione leggermente volterriana, vorrebb’essere contro l’eccessiva importanza attribuita da alcuni alle pratiche religiose esterne. Dice d’un giovane, «porscell a l’ultem segn» che, dopo la morte, riesce a ottenere la grazia di ritornare al mondo per confessarsi. Bello e fantasiante l’arrivo dell’anima in paradiso, cantato in versi mitissimi come raggi di luna:


L’aria l’è lustra che la par de ras,
e i angior del Signor
la parfummen sgorand con tanti odor
che per usmaj se vorrav vess tutt nas.

E non pare irriverente l’ultimo verso rubato a Catullo e portato in paradiso. Quando poi Gesù sta per incominciare il giudizio dell’anima, il suo angelo custode, vigila trepidante per lui, in soavissimo atto:


... el stava lì,
pass, con giò i al, come on usell che cova.

Una novella vera è Fra Zenever, la figura del fra Ginepro dei Fioretti, cuciniere, amico di Francesco, tutt’e due fattisi santi


vun con l’offizzi e l’olter col cazzuu.

Fra Zenever conserva l’intonazione propria del cantastorie, o bosin:


Bagaj che sii amoros, che sii intendever,
deggià che gh’avii gust de damm a trà,
vuj cuntav on bell cas de fraa Zenever.
Avii donch de savè...

Che è poi l’intonazione di quasi tutti i poemetti maggiori; anche del Lament del Marchionn di gamb avert:


Moros dannaa, tradii de la morosa,
. . . . . . . . . , . . .
stee chì a sentì l’istoria dolorosa
del pover Marchionn,
del pover Machionn, che sont mi quell...

E già in Desgrazi di Giovannin Bongée:


Deggià, lustrissem che semm sul descors,
de quij prepotentoni de Frances,
ch’el senta un poo mò adess cossa m’è occors
jer sira, in tra i noeuv or e mezza e i des

Se ne gioverà il Giusti nell’attaccare il Sant’Ambrogio.

A esprimere il suo mondo, il Porta aveva scelto il dialetto, che è un po’ sempre la tentazione di questi cari lombardi, dal grandissimo Manzoni ai minori Dossi, Lucini, Linati; e il dialetto ha fatto di lui un re dell’espressione. C’è un frammento — L’apparizion del Tass — dove il Porta ci mostra quanto può il dialetto quando sia piegato dalla fiducia e dalla persuasione di chi l’adopera.


Foeura de porta Luduiga on mia,
su la sinistra, in tra duu fontanin
e in tra dò fil de piant che ghe fa ombria,
gh’è on sentirolin
solitari, patetegh, delizios
ch’el se perd a zicch zacch dent per i praa,
e ch’el par propi faa
per i malinconij d’on penseros.
. . . . . . . . . . . . .
Tutt coss, là inscì, l’ajutta la passion,
ne s’è nanch faa duu pass
tra quij acqu, tra quij piant, tra quell’ombria,
ch se sent a quattass d’on cert magon,
se sent a trasportass
d’on certo èstes de malinconia,
ch’el sgonfia i oeucc, senza savé el perché,
e el sforza a piang, d’un piang che fa piasé.

Dove sono raggiunti effetti di lirica altissima.
Tuttavia il Porta amava chiamarsi, modestamente e alla buona, un bosin, un cantastorie; ed era, se mai, un’altra testimonianza della genuinità del suo meneghino. La parola torna, ripetuta, in più d’un punto, e dà colore. Ne Il Romanticismo, per esempio, dove Madamm Bibin, al poeta che le ha spiegato le ragioni del nuovo movimento poetico, dice tutta soddisfatta:


Grazie, Bosin, capissi, n’occoralter.

E nei frammenti di Dante voltato in meneghino, Virgilio dà i suoi connotati:


Voeutt de pù? Te diroo ch’hoo faa el bosin
e che hoo scritt on poemma...

(traducendo: Poeta fui, e cantai di quel giusto...).


Proprio del bosin è il modo popolaresco con cui dà certe indicazioni di tempo:


Intrattanta, el bel dì de Tutt i Sant,
dopo i dottrinn

Oppure:


L’eva el bell sabet grass...

O un bonario moraleggiare sui fatti della vita quotidiana, tradotti in immagini immediate, pronte:


Propri vera, lustrissem che i battost
hin pront come la tavola di ost.

Il linguaggio gli permetteva meglio di stare al vero, a cose e persone presenti; ch’era anche un’esigenza del romanticismo.
Ora, dal vero al verismo il passo è breve; e il discorso vuol cadere sul gruppo delle pagine libere, che non sono poche. Vogliamo escludere le intenzioni prave; ma il gusto del racconto gli ha preso spesso la mano, sacrificando ogni decenza morale. Si pensa a sonetti, canzonette, avviliti in un linguaggio illeggibile in pubblico; particolarmente alla Ninetta del Verzée, che è la squallida storia d’una prostituta, vittima, forse, della miseria, in cui non si sa bene dove finisce il lubrico e dove comincia il pietoso.
E una distinzione s’impone subito: altro è dire che il Porta ha sempre cercato una moralità artistica (ed è la continua ricerca di perfezionamento), altro è dire che quest’arte (parliamo della lubrica) è morale. È proprio del verismo rappresentare la vita in tutta la sua varietà e forza; ma ci si domanda fino a che punto è lecito spingere la propria simpatia per la vita lubrica. I critici estetici, in nome dell’arte liberatrice, dicono che la situazione lubrica non pesa più perché, trascesa in arte, diventa colore luce riso. E, su un piano strettamente artistico, il discorso può anche essere vero. Ma se teniamo conto del riferimento umano che quest’arte necessariamente ha, quel lume o quel riso aumentando la lusinga, rende più insidiosa la situazione. Dice il Momigliano: l’arte, la grande arte non ride mai su quello che è paurosamente osceno.
Ora diremo piuttosto che un poeta, il quale aveva un così vivo senso della realtà e della vita, non poteva non aderire alle idee nuove che in quegli anni lievitavano il campo delle lettere con polemiche accese tra classici e romantici: quelle cose vive, a cui allude il Manzoni nel capitolo 27° dei Promessi Sposi, quando dice: «... per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scapellotto». Il Porta vi partecipò con l’animo e con l’arte. Sono famosi i dodici sonetti contra l’abaa Giavan, l’abate sciocco, che era poi Pietro Giordani; il quale, sulla “Biblioteca Italiana”, giornale letterario di ispirazione classicista e austriaca, aveva detto male di tutti i dialetti e dei loro cultori. Naturale che il Porta si sentisse toccato sul vivo, e come principe dei poeti dialettali e come custode dello spirito ambrosiano; e se nell’uno o nell’altro dei sonetti gli è scappato qualcosa di eccessivo e di acre contro un uomo, per altri titoli, eccellente, si spiega.
Pur famoso per la sua arguzia, ma non certo dei più belli liricamente, è il già citato poemetto sul Romanticismo, dov’è anche esposta una «poetica» che par scritta da un Manzoni che scriva in dialetto, ben esperto del guazzabuglio del cuore umano:


el gran busilles de la poesia
el consist in de l’arte de piasè;
e st’arte la sta tutta in la magia
de moeuv, de messedà come se voeur
tutt i passion che gh’emm sconduu in del coeur.

Il romanticismo del Porta non ha sottintesi politici, come l’ha nel Berchet, per esempio, o nel Pellico, che hanno poi pagato con l’esilio e la prigione. Il suo romanticismo si identifica e finisce in quel suo vivace bisogno di realtà che è stata l’esigenza dell’intera sua vita e che fu lodata dal Carducci nel suo manzoniano discorso di Lecco. E la sua scrittura — al di là d’ogni scuola e polemica — è così misurata e armoniosa, che anche di lui, come del Manzoni di cui il Porta è un precedente necessario, si può parlare di un romanticismo-classico, per la finitezza o concretezza dell’espressione propria dei classici


che dis con pocc paroll tant veritaa.


Più volte, nella stesura di queste pagine, ci è accaduto di citare Carlo Dossi. Citiamolo ancora una volta, e sarà l’ultima. In una delle Note azzurre, espose questo progetto. «Se morirò ricco, lascierò una somma sufficiente perché si fondi in Milano una cattedra di milanese. È un gran peccato che questa lingua così efficace, così pepinière di parole efficaci per la lingua italiana e che ha dato scrittori di primo ordine, vada perdendosi. Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter più comprendere e gustare Carlo Porta». Commuove questa fedeltà ambrosiana di Carlo Dossi che, nato pavese, parve tutto tagliato in quella stoffa lombarda che ci ha dato Parini e Manzoni, Cattaneo e Correnti e Rovani. Ma, a salvare il Porta ai milanesi e agli italiani, più che una cattedra, giova la rinnovata coscienza dei dialetti come lingue, e il nuovo amore con cui i lettori d’oggi si sono accostati alla sua poesia; che non è soltanto milanese ma, per i suoi valori umani e fantastici, universale.


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Frontespizio dell’edizione illustrata da
F. Gonin e P. Ricciardi, Milano, Redaelli, 1842