CESARE ANGELINI SALUTO A PANCRAZI
In C. Angelini, Vivere coi poeti,Milano, Fabbri Editori Editori, 1956, pp. 96-98.
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Anche lui è entrato nei severi silenzi della morte.
Molte lettere ci eravamo scambiate al tempo di Pègaso, e prima e dopo; ma di persona ci conoscemmo solo due anni fa, d’estate, qui a Pavia. Una voce al telefono:
— Parla Pancrazi. Sono alla Croce Bianca.
— Dove alloggiava il Monti venendo a Pavia per le lezioni.
— Ahimè! Scappo subito.
— Scappi al Borromeo.
Fu così che l’ebbi ospite quel pomeriggio e la sera. Ricordandolo dai ritratti visti sul giornale, non mi apparve nuovo: semplice, forte, quasi uno di campagna, che però rivelava subito (al tratto, al tatto) il signore. E la sua conversazione, prima umana che letteraria, mi confermò il Pancrazi che da anni ero abituato a leggere: il critico civilissimo e misurato, per il quale l’intelligenza era il primo dovere, e la rettitudine un dovere simile al primo.
Partito giovanissimo dall’ammirazione per Serra, senza cedere ai suoi modi lauti e lenti, Pancrazi maturò presto il suo gusto e il suo stile sui testi della tradizione e con l’esercizio, acquistando una personalità sua, singolare; liberandosi dalla influenza degli uomini della Voce, anche di Serra, pur conservando in comune con lui una forma di carduccianesimo che in Serra diventava motivo di poesia e in lui ragione di affettuosa cultura e pittura d’ambienti.
Cercato dai giornali, collaborò al Resto del Carlino, al Secolo, al Corriere. Cercato dagli editori, diresse varie collane presso Le Monnier, Garzanti, Ricciardi. Ebbe l’amicizia del Croce, di Ojetti, di Prezzolini e degli altri migliori, che si trovavano ancora bene con lui. Toscano e formato sui toscani (Guicciardini tra i lontani e Ferdinando Martini tra i vicini), ebbe preferenze visibili per la sua gente, e compose un antologia Toscani dell’Ottocento per darci il colmo e la misura della narrativa in quel secolo sapiente, al quale andava molto della sua simpatia, e il suo cuore.
Ma Pancrazi amò anche il suo tempo e ne divenne testimonio fedele, attentissimo: i cinque volumi Scrittori del Novecento rappresentano il panorama più completo delle lettere d’oggi. Alla fine, si trattava del formarsi d’una letteratura che egli sentiva come la sua; e qualcosa di simile deve aver detto anche lui. Più sopra, s’è nominato Ojetti. Vorremmo nominarlo un’altra volta per dire che, se Ojetti ha scritto i tomi delle Cose viste, Pancrazi ha scritto quelli degli Uomini visti; ché gli uomini lo interessavano prima delle loro pagine, e i loro segni e il carattere morale. La critica letteraria per lui si completava nell’interesse e nella indagine psicologica: solo in questo l’occhio dell’intenditore è perfetto. (Fu lui che parlando una volta delle novelle di un nostro scrittore disse che si ha il pudore di dirle «belle», per il dolore e l’umana pietà che vi piangono dentro. Temeva di fare della letteratura, di rivelare un compiacimento, offensivo.)
Chi ha parlato di antipatie, a proposito di Pancrazi? Si parli, se mai, di simpatie che, nel suo caso, significavano scelta cioè segno di intelligenza. Un po’ lontani sentiva gli scrittori «difficili»; cosa assurda per lui, nato per capire, per capirli. (Andando più in là, Serra avrebbe detto per «amarli».)
La forza e la perspicuità del giudizio critico ci possono anche aver distratto dalle sue qualità di scrittore; tra i migliori del nostro tempo e spesso migliore di quelli di cui si parla. Si dice dello scrittore in proprio, pur se di pochi libri: Mogli e buoi, e particolarmente Esopo, che non è solo la prova di maggior bravura tra quanti altri si fermarono su questo argomento. Quando uscirono queste favole, si potè dire che una volta erano di Esopo, greco, ma ora erano di Pancrazi, toscano. Con quel suo stile appuntito e vivo, essenziale come dettato di testamento, Pancrazi ha portato Esopo tra i moderni, e Esopo, ricambiando il beneficio, ha collocato Pancrazi tra i classici, tra i narratori perfetti.
Ora si stenta a credere che, aprendo il giornale milanese, non si incontrerà più la sua firma: una delle poche a cui si faceva credito pieno e a cui si guardava con fiducia e riconoscenza; perché i suoi articoli non erano solo giudizi di un autorevole giudice, ma consigli di un amico che se ne intendeva, e non se ne dava l’aria.
[1952]
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