CESARE ANGELINI MARINO MORETTI
In C. Angelini,Altro Ottocento (e un po’ di Novecento),Bologna, Boni Editore, 1973, pp. 151-159.
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Marino Moretti nel cortile della sua casa, sul canale di Cesenatico (anni ’70) |
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In una delle Cose viste, pubblicate tra il 1924 e il ’30, Ugo Ojetti raccontò una sua visita a Marino Moretti in Cesenatico, interessandosi, com’era suo costume, più dell’uomo che dello scrittore, più dell’ambiente domestico che della letteratura. Descrisse la casa sul canale, in capo al ponte, il grande studio con le pareti gremite — come diceva allora — di buone cose di pessimo gusto; la scrivania stretta quanto un banco di scuola, i candidi libri negli scaffali quadrati, l’ingrandimento d’un ritratto del Pascoli: tutto lindo e ordinato come in un parlatoio di monache, o come in una poesia scritta col lapis di Marino Moretti. E, in mezzo alle cose, lui, il poeta malato di modestia, con la sua aria tra il sentimentale e il patetico. Per essere nel 1924, Ojetti calcava ancora la mano sul poeta crepuscolare e un po’ di maniera.
E già il Panzini, nel Diario sentimentale (1915) ne aveva parlato con lo stesso tono affettuoso, poetico. «Spesso sono andato a trovarlo nella sua casa paterna, a Cesenatico, fiorita di gelsomini e davanti il porto delle vele rosse... Caro, mite, signorile Moretti! Diceva con la sua amabile voce un po’ blesa...»
Tranne qualche raro viaggio all’estero e la giovanile parentesi fiorentina alla scuola del Rasi, Moretti non uscì mai dal suo paese per trasferirsi, poniamo, nella grande città del suo editore; ma nemmeno nella vicina Cesena dove la Malatestiana, per un letterato, poteva essere occasione di bella curiosità. Moretti restò sempre un parrocchiano di Cesenatico, vivendo nella casa dov’è nato, dove vissero e morirono i suoi, e dove accolse via via amici carissimi: Panzini e Baldini, Pancrazi, Papini, Ojetti, Manara Valgimigli. E quando, di recente, qualcuno scrisse che la casa di Moretti è piena d’echi, non alludeva solo alla sua posizione sul canale del porto dove ode e ripete le voci del mare, ma proprio quei belli incontri e al piacere di farsi compagnia; umanesimo che va scomparendo, e le anime, anche dei letterati, s’impoveriscono.
Naturalmente il discorso su Marino Moretti ci porta ad anni lontani, in Romagna, e vuol essere un momento di cronaca letteraria vivificata dai nostri ricordi personali e dal colore del tempo, che era prima della gran guerra.
Anche per Moretti fu Renato Serra (che, per altro, non lo incontrò mai) a dire la parola che mosse parecchia critica d’allora, quando nel volumetto delle Lettere, parlando dei poeti crepuscolari (l’etichetta glie l’aveva messa G. A. Borgese) lo indicò vagamente come «quell’altro che ha più ingegno di tutti»; e voleva dire abilità, bravura e ingegno vero.
Il Moretti era il più crepuscolare di quel movimento; e se il Gozzano esisteva anche senza crepularismo, il Moretti no; il Moretti era il più legato a quella poetica, a quei moduli un po’ stanchi, a quei repertori un po’ squallidi: ricordi di scuola, parlatori di monache, beghinaggi, stazioncine di provincia, organetti di barberia, domeniche annoiate; tutto condito coi motivi del cuore, in toni grigi, in linguaggio dimesso, in quartine miserelle, snodate e rotte, diceva Boine, come salti di cavallette. In questo, il Moretti era davvero il più bravo, da rischiare d’esser vittima della sua bravura.
I titoli dei suoi libri ne indicano meglio l’intenzione e l’assenza d’ogni ambizione: Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1912): reazione a un certo sontuoso d’annunzianesimo, ritorno a uno scrivere più modesto; ma finiva per essere esercizio più che invenzione, gioco più che passione, con la confessione dello stesso poeta: «Io non ho niente da dire». E come si faceva a non credergli? Ma qui non facciamo la storia della poesia crepuscolare; diciamo solo che questa fu la prima fisionomia di Moretti che gli diede notorietà a cui molto teneva, se ancora nel 1920 raccolse queste sue poesie, sistemandole in una scelta diligente presso l’editore Treves.
Ma l’ingegno c’era, e Moretti aveva qualche cosa da dire. Meglio ce ne accorgemmo quando portò il suo centro lirico verso la novella e il romanzo dove, nella misura del suo talento, rivelò l’altra sua fisionomia, la più vera.
Il suo primo volume di novelle risale al 1914: I pesci fuor d’acqua, che apparve subito non essere un libro qualunque, per la fermezza del disegno, il taglio delle scene, la penetrazione psicologica delle figure, e la subita intesa con la sua Romagna che vi agiva dentro sinceramente. Novelle con vera aria di novelle. Pure in quell’anno (da Firenze arrivavano le allegre novità della Voce e di Lacerba) usciva a puntate su un giornale romano il suo primo romanzo: Il sole del sabato. Quell’arte intima e schiva, aperta verso ambienti di piccola umanità, poteva ricordare il crepuscolare di prima, ma era soprattutto conferma del suo temperamento di narratore. Del resto, non narrava anche nei versi? Ora non rincorreva più le rime sdrucciole, ma le rime dei personaggi che andava creando, vivi e dolenti. Ricordate Barberina, la prima delle donne, così vere, che saranno le eroine dei suoi romanzi. La fantasia aveva trovato il suo sfogo più libero, e, abbandonata la poetica, Moretti aveva trovato la poesia.
Dopo Il sole del sabato ne uscirono tanti altri da occupare uno scaffale — Guenda, Né bella né brutta, I due fanciulli, La voce di Dio, I puri di cuore fin su all’Andreana e alla Vedova Fioravanti — sui quali la critica autorevole ha detto la sua parola di alto consenso. Singolare l’attenzione piena di simpatia che il Pancrazi portò su ognuno di essi, man mano che uscivano. E aggiungete, che è di questi ultimi tempi, il bel saggio che gli dedicò Francesco Casnati, critico preparatissimo e acuto.
A noi non interessa l’elenco completo dei suoi libri, piuttosto giova ricordarne qualcuno che meglio rappresenti l’atmosfera e l’anima dello scrittore, e ci aiuti a capire il suo mondo. Il quale, visto con qualche approssimazione, è un po’ il mondo delle «beatitudini» evangeliche: i puri di cuore, i mansueti, quelli che soffrono per la giustizia, i rassegnati, gli egoisti, i lestofanti. La morale di Moretti è quella della rinuncia e del sacrificio, che è sempre un avvento dello spirito; senza tuttavia pensare che Moretti adeguasse la vita dei suoi personaggi al puro ideale evangelico. Anzi, mentre le antiche «beatitudini» creano gli uomini che guardano al cielo, («di essi è il regno dei Cieli») i personaggi di Moretti guardano avidamente la terra, sia pure la dolce terra di Romagna.
Dobbiamo poi dire che in quel folto susseguirsi di romanzi, non sempre riuscivamo a liberarci dall’impressione di una certa uniformità, di personaggi ripetuti, di paesaggi già noti, con poche sorprese; l’impressione insomma di uno scrittore sempre bravo ma che non avesse un ricco svolgimento di crescenza. E in quell’abbondanza era anche facile avvertire qualcosa di prolisso, la presenza d’un sottobosco. Ma ora che li rivediamo mentalmente insieme e con più distacco, ci riesce facile notare che lo svolgimento c’era, c’è, e, con l’itinerario interiore Moretti è riuscito a salire, a salire come artista. Dal Sole del sabato alla Voce di Dio, all’Andreana, la sua arte s’è fatta sempre più persuasiva; evidentemente la ricerca di un’etica e la voglia di chiarirla sempre più, accompagnata dalla persuasione che la vera moralità dello scrittore sta nell’impegno di scrivere sempre meglio.
Ci chiedessero qual’è il libro di Moretti che meglio lo rappresenta, torneremo a nominare non invano La voce di Dio che, uscito nel 1920 (Moretti aveva trentasei anni), fu ristampato nel 1931 con prefazione di G. A. Borgese, e nel 1948 fu presentato dal Pancrazi in una collezione di narratori: crescendo, per così dire, a ogni ristampa. In verità, Moretti non fu mai così romagnolo, cioè mai fece più appello alle voci e agli istinti attivi della sua terra, sentendone profondamente l’anima e l’aroma. Il romanzo che, per il realismo di certe scene, più degli altri ci permetterebbe di parlare d’un Moretti scrittore verista, si raccoglie tutto intorno a Cristina, l’eroina e protagonista. S’è già detto che ogni romanzo di Moretti è legato al nome di una donna, che ne riassume il significato umano, diventandone vittima o sacrificata. Ma mentre negli altri il dramma o contrasto tra il bene e il male è vissuto e risolto tra due personaggi, qui il dramma è tutto in Cristina, che sente la bellezza della rinuncia e insieme sente il suo squallido diritto al peccato. E la figura naturalmente si fa più intensa con l’aumento d’anima c’è, soprattutto, un aumento d’arte. Perché, alla fine, non sono «i casi di Lucia» che fanno la grandezza del romanzo, ma l’arte del romanziere.
Pesano gli anni su Moretti? Forse, più sulla persona che sull’opera. Egli vive a Cesenatico, contento di rimemorare le fatiche e le gioie del suo lungo mestiere, il mestiere di scrivere. La sua opera, ha scritto Pancrazi, dagli anni prende doratura. Né importa che oggi paia inattuale a molti che alle cose mature preferiscono quelle acerbe, et dentes obstupescunt. Essa rimane tra le pagine migliori della narrativa che, lievitata di verità umana e di poesia, sapeva ancora «narrare».
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