CESARE ANGELINI PERCHÈ SE NE VANNO?
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 337-342.
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Illustrazione di Francesco Gonin |
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In questo Manzoni è sempre possibile un nuovo supplemento di indagine. Per esempio, perché nell’epilogo del romanzo Renzo e Lucia partono dal paese nativo dopo che la Provvidenza — la regista dell’opera — ha lavorato in cielo e in terra ad accomodare ogni cosa per farveli ritornare a godere quella da un pezzo sospirata pace che si direbbe interamente goduta solo lì, al paese; dove ha detto uno di loro, «nessuno avrebbe spinto al di là dei suoi monti nemmeno un desiderio fuggitivo, se una forza perversa non li avesse sbalzati lontano». E ora che la forza perversa si è placata con la morte di don Rodrigo, ed essi vi sono tornati sani e salvi e liberi, e finalmente sposi, «gli voltano le spalle» e se ne vanno con una decisione che arriva pressoché improvvisa.
Veramente, nel corso dei dolorosi accidenti, non mancano accenni all’idea di lasciare il paese e andar a metter casa altrove. Ma sapete che poco peso hanno quelle proposte e quei propositi fatti nella esasperazione di una persecuzione dalla quale non sanno come salvarsi.
Se già nel capitolo 3°, a Renzo furibondo contro don Rodrigo («questa è l’ultima che fa quell’assassino») Lucia dice tutta spaventata: «Renzo, voi avete un mestiere e io so lavorare; andiamo tanto lontano che colui non senta più parlare di noi», è per offrire un altro e diverso spazio ai pensieri di Renzo e distoglierlo da fare uno sproposito.
Nel capitolo 6°, gli sposi, rimasti promessi, cercano insieme con Agnese un modo per indurre don Abbondio a maritarli, magari chiappandolo all’improvviso; perché, dice Renzo «maritati che fossimo, tutto il mondo è paese; e, a due passi da qui, sul bergamasco, chi lavora la seta, è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bertolo mio cugino m’ha fatto sollecitare di andar là a star con lui, che farei fortuna come l’ha fatta lui». Come dire: non potendo più vivere tranquilli qui, andiamo a vivere dove ci è offerto un lavoro e un asilo sicuro. Il vagheggiamento di andare sul bergamasco, per Renzo si fa subito urgente necessità dopo i fatti di Milano, quando è costretto a scappare in quella direzione per mettersi in salvo dalle manette e dai birri. E, giunto sull’altra riva dell’Adda, in terra di San Marco, immagina le accoglienze del cugino e il guadagno che farà lavorando con lui; insomma, fa i suoi piani. «Si fa scrivere alle due donne che vengano qui... Vengano quelle due donne, e si mette su casa. Curati, ce n’è per tutto.»
Ma la soluzione che Renzo vagheggia, è proprio quella di chi ha perso ogni speranza di tornare al paese («Sta lì, maledetto paese!»); tanto più ora che la forza perversa lo perseguita anche col mandato di cattura che l’ha colpito.
Più tardi, nel capitolo 33°, al cugino da cui si congeda solo per fare una scappata al paese e avere notizie di Lucia, promette di tornare da lui a lavorare quando verrà, accompagnato per stabilirsi nel paese adottivo... Sono le proposte di un pover’uomo forzatamente rassegnato a una sorte che non muta. Non diversamente va inteso il partito dell’impietosa cessione «di quel poco che hanno al sole», accennato nel capitolo 37°: «Renzo aveva già preso il partito di disfarsi d’ogni cosa, a qualunque prezzo, e di impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare».
Accenni alla nuova patria, al paese adottivo, ce n’è più d’uno, ma nessuno ci persuade che quella sia la sua libera volontà e non piuttosto l’inclemente volontà delle cose: le lacrimae rerum.
Perciò, ci arrivano di sorpresa, nel capitolo 38°, le parole di Renzo alle donne, dopo l’incontro che ha avuto col sempre incerto don Abbondio. «Vedo che vuol essere una lungagnata. È meglio fare addirittura come dice lui: andar a maritarci dove andiamo a stare». Renzo sa, è certo, che don Rodrigo, «il grande inciampo», è morto; tuttavia qui è fin troppo chiaro che egli è veramente venuto a patti con l’idea di andarsene.
Ne gode don Abbondio che, prima alla «buona vedova», poi al nuovo marchese successore di don Rodrigo, è lieto di far sapere che «questi giovani e qui la nostra Agnese hanno già intenzione di spatriarsi, e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene».
Con buona pace di don Abbondio, Renzo e Lucia possono star bene anche stando a casa loro, al paese nativo, ora che la forza perversa è interamente placata con la scomparsa di don Rodrigo e con l’assolutoria del bando; ora che ogni cosa è accomodata in loro favore, e lui stesso, don Abbondio, tra poco non avendo più dubbio («Ah, è morto! È proprio andato!») si offrirà di sposarli («Ho la consolazione di maritarvi io»); e il marchese li ospiterà nel suo palazzo per il pranzo di nozze e li servirà a tavola; da parere, insomma, che il paese sia diventato tutto roba loro. Anche lo stato economico di Renzo è quello di un piccolo benestante, con beni al sole più che sufficienti per vivere da poveri: la casa dei suoi vecchi, la vigna di nove o dieci pertiche, la casa e il campicello di Agnese. E poi la sua abilità di filatore di seta, specialmente ora che la peste ha fatto tanti vuoti in paese e i rimasti vivi si possono contare.
Per tutto questo, la decisione di Renzo ci ha perplessi. E non risulta nemmeno che ci sia stato dibattito tra loro, né che si sia sentito il parere di Agnese avvezzo a darlo per ogni circostanza importante. Benché, a dir vero, un accenno vien fuori, pure all’improvviso, quando l’autore dice che «già da qualche tempo erano avvezzi tutt’e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l’aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando le agevolezze che ci trovavano gli operai, e cento cose della bella vita che si faceva là».
Un cedimento, dunque, alla tentazione del benessere? Ci rincrescerebbe pensarli così improvvisamente imborghesiti cioè impoveriti di quella vita semplice per la quale li abbiamo amati fin qui. E la partenza ci lascia sempre più perplessi; sia perché pare annullare tutta l’azione della Provvidenza in loro favore, sia perché va contro la logica interna del romanzo secondo la quale il ritorno al paese è il vero premio di quanto hanno patito, mentre il partire è un altro castigo, un castigo nuovo; sapendo che partono senza nessuna garanzia di sicurezza e, giunti al nuovo paese, per urti e disgusti più d’uno, («Renzo, a forza di fare il disgustato, era diventato disgustoso») devon presto lasciarlo per un altro.
Ma — dice l’autore — «non si pensò che a far fagotti e a mettersi in viaggio. Casa Tramaglino per la nuova patria!». Troppa euforia per questo momento d’addio; e le parole suonano un poco impietose. «Chi domandasse se ci fu dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne, ci fu di sicuro. Bisogna dire che non fosse molto forte, perché avrebbero potuto risparmiarselo stando a casa loro». E che non fosse molto forte, par di desumerlo dalla penultima delle vignette (e si sa quanto il Manzoni le abbia vigilate perché cogliessero tutto lo spirito delle scene) nella quale il Gonin presenta la famiglia che sta uscendo di casa: Renzo, carico di fagotti, precede risoluto e disinvolto; Lucia è tutt’intenta a salutare la buona vedova; solo Agnese piange, col fazzoletto agli occhi.
Le amare vicende che hanno via via alimentato nei lettori un sentimento di comunione con quella terra, l’avrebbero viceversa affievolito nei nostri personaggi concresciuti con quelle stesse zolle, ognuna delle quali ha, per loro, una voce. E la partenza par svuotare della sua umana commozione un altro Addio, che ha colmato una notte di pianto ed è rimasto nel cuore di tutti: l’addio a quei monti, a quelle acque, a quel paese, a quella chiesa, a quella casa.
Ci chiedevamo perché partono... Difficile trovare una risposta. Ed è proprio il non poterla trovare che mortifica l’epilogo del romanzo: con quei segni di stanchezza che i lettori vi notano, con quel senso di liquidazione troppo affrettata: quasi un rallentarsi dell’impegno sentimentale dell’autore per il racconto e per i personaggi.
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