CESARE ANGELINI LA «STORIA» DEL ROMANZO
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 91-112.
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Frontespizio dell'edizione del 1840illustrata da Francesco Gonin |
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Volendo definire alla buona la storia del romanzo, diremo che è la storia delle buone azioni, più esattamente, la storia delle opere di misericordia, corporali e spirituali; giacché, aggiungerebbe l’autore, siamo composti di anima e di corpo. Elementi semplici, patrimonio o bene spicciolo della povera gente, linguaggio sul quale tutti s’intendono.
Né i grandissimi rifuggirono da queste cose semplici. Dante, nel creare l’ordinamento del Purgatorio, parte da un principio platonico: «come ogni virtù e colpa proceda da amore, e in quali modi e quanti amore possa traviare». Ma proprio nella distinzione di ordine dotto, fa subito umilmente entrare l’elemento catechistico dei sette peccati capitali. Naturalmente in Manzoni questo spirito è più presente, e la sintesi o visione della vita del popolo, è rappresentata da questo bene spicciolo, da queste «opere» che non appartengono alla teologia, ma sono il breviario della morale cristiana messo a disposizione di tutti; le opere di tutti i giorni, e massime degli umili, per i quali «far un po’ di bene» è la loro poesia quotidiana, la nobiltà dei loro giorni.
I Promessi Sposi sono infatti il romanzo degli umili, e di chi sa farsi umile. Il romanzo del villaggio, visto nella luce innocente dell’infanzia, con quei particolari che crescono con l’anima: viottole e orti e cortili chiusi da muretti bassi, passati dalla chioma d’un fico; donne sull’uscio che girano il manico dell’aspo, o rammendando reti e tramagli; usci che, nell’aprirsi, lasciano vedere i fuochi accesi per le povere cene, un apparire e sparir di lucerne. E poi quel brulichìo, quel ronzio di saluti barattati che si sente sulla sera, insieme coi tocchi misurati della campana che annunzia il finire del giorno; e nelle notti di luna, l’ombra della chiesa e quella più lunga del campanile che si stendono sulla piazza nel silenzio stupito.¹ Umili i protagonisti: i due contadini, due «filatori di seta»; ma l’espressione «filatori di seta» è una carezza di linguaggio che ne fa dei poveri puliti, fini. Anche i nomi sono belli: lei, evoca un paesaggio tutto mondizia e luce — Lucia Mondella —; lui, odoroso di tramagli e di pesca — Renzo Tramaglino — come conviene a chi è «nato e cresciuto alla seconda sorgente dell’Adda», tra Pescarenico e Pescate e Acquate. Nomi che il Manzoni doveva assaporare con lunghi schiocchi di lingua, come gli altri dei paesi d’intorno: Maggianico, Pasturo, Introbio, Barzio, Primaluna..., che creano il fondale turchino del paesaggio. Attorno ai protagonisti, altra umile gente: un curato, una serva, un sagrestano (Ambrogio, quel delle brache, portate «sotto braccio, come un cappello di gala»); un console (fissato per sempre in mezzo al campo «col mento in una mano e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezzo ficcata nel terreno, e un piede sul vangile»: quasi la figurazione ovidiana del Giano: tunc deus incumbens baculo...); un sarto («uno che sapeva leggere» «che aveva letto i reali di Francia»); alcuni compari sempliciotti, Tonio, Gervasio; osti, che sanno il viver del mondo, ma lì è il mestiere che lo vuole, perché l’osteria «è sempre un porto di mare»; e un sepoltore — Paolin de’ morti — per l’ultima opera di misericordia. Poi, figure di frati. I Promessi Sposi sono l’epopea dei frati del cappuccio; non sentiti evangelicamente come quelli dei Fioretti (e nessuno porta i loro nomi) dove appaiono come un branco d’uccelli che vanno liberi per il mondo senza sapere su che ramo andranno a posare; ma sentiti con spirito cattolico, come un’organizzazione potente. Tant’è vero che, presso il convento delle monache a Monza, c’è una «fattoressa»; e la parola par messa lì apposta a dare il colore del tempo, quando il convento era anche allegra fattoria. Anch’essi hanno bei nomi, eletti: fra Galdino, quel delle noci, o il convento che riceve («Noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti...»); padre Cristoforo, o il convento che distribuisce («... e torna a distribuire a tutti i fiumi»); padre Bonaventura di Lodi («un altro padre Cristoforo» ); il guardiano di Monza, semplice e gioviale («Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero se si vedesse il padre guardiano per la strada con una bella giovane»); Fra Fazio, il sagrestano ignorantello, pàvido («di notte, in chiesa, con donne») ma in cui è lecito scoprire un tenue rivo d’umanità («chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui»). E altri, altri. Il loro elogio è sulla bocca di fra Galdino che li nomina ad Agnese. «Sentite, buona donna, il padre Cristoforo era certamente un uomo; ma ne abbiamo degli altri, sapete? Pieni di carità e di talento. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa e una barbetta misera misera; non dico per predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo sapete?» Dunque «se vi risolvete di cercar qualcuno dei nostri padri, il convento è qui che non si muove. Ehi, mi lascierò poi veder presto per la cerca dell’olio». Fra Galdino non dimentica se stesso e il suo attaccamento cattolico ai doni della terra. Ma neppur noi dimentichiamo più questi frati vivi e veri, poiché il Manzoni li ha nominati con la sua bocca, facendoli immortali.
E poi, fuor dal convento, barcaioli e pesciaioli, lavoranti, barocciai, tutta la buona povera gente; persuasi che la felicità sulla terra è poca, ma un po’ d’amorevolezza val più di tutto l’oro del mondo; gran maestri di vita, forse perché la sanno vivere con maggior pienezza degli altri. E non è senza significato che le verità più profonde il Manzoni le metta in bocca alle persone più umili del popolo, che è il serbatoio e il rinfrescatoio della vita spirituale. Un’altra volta «la verità è rivelata agli umili», e sarà rivelata dagli umili.
Tutte le quattordici opere di misericordia (e dice Lucia che «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia») son qui esercitate e mirabilmente commentate. «Siam quaggiù per aiutarci l’un l’altro», dice il barcaiolo che ha passati i «fuggiaschi» all’altra riva dell’Adda. E se Bortolo mostrerà a Renzo d’aver capita la funzione della ricchezza («Dio m’ha dato del bene perché faccia del bene»), il sarto, correggendo Perpetua («Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo») dirà che «la disgrazia non è il patire e l’esser povero, la disgrazia è il far del male». E Lucia, a sua madre che le descrive i cento scudi d’oro («al veder tutto quell’oro»...) avuti dall’Innominato: «Iddio benedica quel signore; così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro». E ancora il sarto tornato dalla predica, nella sua felice confusione dirà del Cardinale che «ha proprio fatto vedere che anche coloro che son signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce». E a mostrare che quella parola l’ha ben capita, mette insieme un piatto delle vivande che erano sulla tavola, e aggiuntovi un fiaschetto di vino, manda la sua bambinetta a portarli a Maria vedova «per stare un po’ allegra coi suoi bambini».
Il Manzoni spiega innanzi agli occhi degli uomini il panorama del bene: e non so se più fresco sia il correr dell’Adda — così presente nel romanzo da poter esser detto il romanzo dell’Adda — o il correre ininterrotto di queste buone azioni che ne costituiscono il prezioso tessuto.² Dio è qui. Fa parte della vita. Abita più in terra che in cielo; fra questi umili, sofferenti, rassegnati; fra questi poveri che nel loro amore previdente sanno risparmiare sempre qualcosa per chi ha meno di loro. Come fa Agnese, che andando da don Abbondio a farsi spicciolare uno scudo di quelli che gli ha consegnati, gli lascia sempre qualche cosa da dare a qualcheduno più povero di lei. Mondo di timorati, di santi. Un tocco di vera santità, lo mettono certe altre creature onorate nel Vangelo: le vedove; Agnese, Maria vedova, e l’altra «buona vedova» che fa così dolce compagnia a Lucia nel Lazzaretto, la «mercantessa» (parola che crea attorno un senso di agiatezza), vi portano un clima di finezza apostolica, d’una lettera di San Giacomo, dove il Vangelo è sentito non come discussione di idee, ma adempimento d’una legge morale. Religio munda et immaculata haec est: visitare viduas et pupillos... La loro vita è umile, non umiliata, non meschina, perché riscattata dalle opere buone.
E perché il mondo ha da esser completo, non mancano i bambini, fregi vivi delle scene maggiori; la Bettina, che vive tutta in quel grido piccolo d’argento «lo sposo! lo sposo!»; Menico (bravo per fare a rimbalzello) vive la sua vita piena d’un giorno, poi scompare nell’aureola di una buona azione, entro un sospetto d’angelo custode... E i figli di Tonio che rivediamo con gli occhi fissi al paiolo, in quel vespero di sconsolata miseria. E quelli del sarto. Tutti bimbi di poveri, che il Manzoni s’impegna a presentar bene, a fargli fare bella figura. (Rifà anche la storia d’una bambina ricca, la «Geltrudina»; ma quanta pena!) Mondo dove tutto procede con ordine, poiché ogni cosa fa la volontà di Dio, e dove i «benefattori» sono fatti rivivere come in un racconto agiografico. E per esaltare i «benefattori», fra Galdino conta il «miracolo delle noci». «Un giorno d’inverno, passando per una viottola, nel campo d’un nostro benefattore uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce...» O quest’altro: «Mosso a compassione, un benefattore fece al convento la carità di un asino che aiutasse a portar le noci a casa». Mondo in cui l’humanitas è così ricca, che il bacchiare le noci diventa una consolazione: «Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle, perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità». (Merces multa in coelo.) E una grembiulata di noci, quella di Lucia a fra Galdino, è «tutta carità che porta sempre buon frutto». Anche una pianta vi trova la sua compassione: «Che fate voi a quella povera pianta?» Anche il fico che protegge la casa («quel bel fico»). Anche un’erbaccia: «un bel lapazio». Ci par di capire questa spirituale abbondanza, se pensiamo che la favola di fra Galdino è derivata dal nocciolo del fico sterile che riporta San Luca al capitolo XIII del suo Vangelo: «Un uomo dabbene aveva piantato un fico nella sua vigna; e venne a visitarlo e a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Disse al contadino: — Son già tre anni che vengo a cercar frutti a questa pianta, e non ne trovo; scalzatela e facciamone legna. Lasciarla in piedi non fa che adombrare il terreno. — Lasciatela stare anche questo anno, disse il contadino; fin tanto ch’io la zappi d’attorno e vi sparga concime alle radici. Poi...» eccetera.
Dal Vangelo il Manzoni deriva altri suggestivi espedienti: quello degli «innominati», creature minori che compaion per breve tempo, come per uno spiraglio, e restano senza nome. In San Giovanni c’è un uomo — l’ultimo degno di dar ricovero al Signore prima che lasci il mondo — che gli presta la casa per l’ultima cena, e passa alla storia innominato. Chi vuol saperlo, è «l’uomo della brocca». Molto gli somiglia l’«amico» che dà ricovero a Renzo quando, dopo la peste, torna al suo paese (l’incantevole scena dell’incontro: al barlume del crepuscolo deserto, sotto un cielo trascolorante, contro uno sfondo di rami e di fronde; e le parole che dicono e gli atti che fanno) e, più tardi, quando torna da Milano con la buona nuova che Lucia è viva, è guarita, è sua. Resta «innominato» anche lui; il poeta ce lo consegna col nome della virtù che esercita, dell’ufficio che compie: «l’amico». Così nel romanzo c’è l’amico («l’Amico») come c’è l’Innominato. O «la madre di Cecilia», che resta con un nome, ma è quello della figlia, morta; e pensiamo alla «vedova di Naim». Non è inutile ricordare che già in uno dei quattro Sermoni che risalgono al 1804 — gradus ad Parnassum — il Manzoni aveva dichiarato di voler celebrare il popolo degli umili, non i grandi. Restò fedele al proposito.
Ma tra il saio dei frati e il farsetto dei poveri, splendono porpore e casacche e spade; sulle case dei pescatori s’alzano palazzotti e castelli. Cioè, i grandi, i titolati, i potenti come entrano nel romanzo? In quanto sanno farsi umili e mettersi al servizio degli umili. Il Manzoni non accetta aristocrazia di sorta, né di nascita né di intelligenza, né di santità, a meno di inserirsi nella vita del popolo. Dirà che non v’è giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini se non in loro servizio. La sola e vera aristocrazia è quella dello spirito: con questo metro si misurano le stature. Perciò, personaggi dell’altezza d’un Federigo («credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa»); dell’Innominato («Aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe» e «volle accompagnare tutt’e tre gli ospiti — don Abbondio, Perpetua, Agnese — fino alla carrozza fatta trovar pronta alla Malanotte»); del Marchese successore di don Rodrigo («li condusse in un bel tinello; mise a tavola gli sposi, e volle star lì un poco a far compagnia agli invitati, e aiutò anzi a servirli»); dell’agiata mercantessa («voleva tener Lucia con sé, come una figliola o una sorella») andranno a gara a trattar bene i poveri, con aperta cordialità.
Che grandezza acquistano entrando nella persuasione evangelica! Dice l’Innominato a Agnese, ricoverandola nel suo castello: «Voi mi fate del bene a venir qui, da me, in questa casa. Voi ci portate la benedizione».
Poi, ci sono i personaggi d’alto affare: il conte Zio del Consiglio segreto, «un politicone», borioso e reticente, pieno di sospiri e di soffi e rigirii di parole: «un parlar ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, un restringer d’occhi, un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia»: l’uomo ch’era stato alla corte di Madrid, più volte; e, quando parlava, tutta la compagnia gli stava attenta «come un uditorio». (E c’è un suo ritratto fisico, fatto con modernissima malizia. «Intendo, disse il conte Zio; e sur un certo sfondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia che vi faceva un bellissimo vedere.») Il padre provinciale, o il frate diplomatico, che rappresenta l’organizzazione e i suoi frutti non sempre evangelici; ligio ai casato, al conte Zio, alle attinenze «cospicue». Il dottor Azzeccagarbugli «il signor dottore delle cause perse», «una cima d’uomo», l’avvocato che conosce tutte le gride, le vecchie e le «fresche», e sa che «a saperle ben maneggiare, nessuno è reo e nessuno è innocente»: se caccia le mani in quel caos di carte «le rimescola dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio». Sempre pronto a difendere i clienti «purché non abbiano offeso persone di riguardo, intendiamoci», disposto a toglierli d’impiccio «con un po’ di spesa, intendiamoci». Don Ferrante «il letterato» «che passava di grand’ore nel suo studio dove aveva una raccolta di libri considerabile..., tutta roba scelta»; d’astrologia, «dov’era ritenuto, e con ragione, più che un dilettante»; di filosofia antica, di filosofia naturale, di cui s’era fatto più un passatempo che uno studio; di magia e di stregoneria in cui s’era internato di più trattandosi di scienza in voga; di storia, di politica, di lettere amene. Ma in scienza cavalleresca era addirittura «un professore». Più di trecento volumi. La seconda biblioteca del romanzo; l’altra è quella del Cardinale. E poiché la libreria è l’espressione del cervello, della cultura e della consistenza spirituale del suo padrone, quella di don Ferrante ora «è dispersa su per i muriccioli»; quella del Cardinale, al contrario, è ancora in piedi («se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana...»). E lui, don Ferrante? A forza di negare la peste «non prese precauzioni contro di essa; gli s’attaccò; andò a letto a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». Donna Prassede «la signora moglie» lunatica, bisbetica, la nobilona irrigidita nelle formole d’una religione posticcia e orgogliosa, contenta di «secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello». In Carlo Porta, trova certo qualche sua parente. Tutta gente che mostra la ridicola falsità della vita fittizia.
E gli altri? I senza timor di Dio: «quelli che restano fuori». Don Rodrigo, il tirannello sciocco e cattivo, cui dà noia il troppo star bene, perciò fa il più pazzo, il più disperato mestiere, quello di molestar le femmine. Spirito piatto, rincagnato; incapace di mutamenti, di risvegli. Nessun’alba sorgerà mai sulla sua anima, nessuna onda di suoni rallegrerà il suo cuore: don Rodrigo si sveglierà sempre don Rodrigo. Il conte Attilio «lo spensierato d’Attilio» il cugino di don Rodrigo, il nipote del conte Zio; uomo senza fantasia, banale senza rimedio. Egidio, «lo scellerato di professione», l’uomo che ha posseduto la monaca. E, appunto, la Monaca di Monza «la monaca singolare» «la monaca per forza» «la signora». È gente che resta fuori; o son lì come elementi di contrasto, e non contano. Le figure che rinnegano la vita, non possono entrare, se non per contrasto, in un libro di vita. Per il Manzoni contano solo quelli che son riusciti a risolvere il problema della vita nella pratica dell’umiltà e del bene.
Accanto ai casi singoli, ci sono quelli sociali: peste, fame, guerra: la maestà delle grandi sofferenze, i castighi biblici, per cui il romanzo iniziato come umile fatto di cronaca, di paese, continua e sale epicamente come storia di tutta una tragica epoca. Sono le parti storiche, che dànno all’architettura del poema un aspetto solido e convinto e gli mantengono intorno un’aria illustre. In esse il Manzoni ha buon gioco a descrivere il popolo che, nel Seicento, sotto la dominazione spagnola (ma la Spagna dei Seicento è l’Austria dell’Ottocento; di qui la contemporaneità del romanzo) è ancora un volgo disperso; e a far studi di folle, delle quali non gli sfugge l’aspetto pittoresco; ma il suo è naturalmente un interesse umano. Una esperienza anche questa; vedere la faccia e il contegno degli uomini quando sono in massa, come si suggestionano e tradiscono e abbrutiscono; con tutto quello che c’è in essa di primordiale, istintivo e irresponsabile; distinguendo quello che negli avvenimenti appartiene alla loro debolezza da quello che si deve alla «forza dei tempi», mostrando le sue doti di osservatore argutissimo, bonario e umoristico, pronto ad avvertire il difetto dovunque, e pronto a compatirlo. «Si potrebbe tanto nelle cose piccole come nelle grandi, prendere il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quelle altre messe insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.» Il Manzoni non è mai stato così manzoniano. Ed è un tono che torna, quasi supplichevole, frequente: «Ma noi uomini siamo in generale fatti così...».
Lo si è accusato d’aver fatto servire i grandi fatti all’umile storia di due contadini... Non s’è pensato, prima di tutto, che la preferenza del Manzoni va alla «storia umile» più che «alla storia illustre». Poi, appoggiava il suo concetto alla stessa liturgia biblica, dove Dio si serve dei grandi flagelli per mettere a posto le malefatte degli uomini. Quel che dice don Abbondio della peste: «È stata un gran flagello, questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti...». E Renzo: «Se lascio scappare un’occasione così bella...»; e parla anche lui della peste. Il Manzoni commenta. («La peste! vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!»)
Tutte queste opere buone si moltiplicano e si intensificano se, sul filo del racconto, ci lasciamo guidare al «senso ascoso» dei fatti. Premettiamo che questa diavoleria del «senso ascoso» è un valore acquistato alla letteratura da quando Dante ha applicato «la verità ascosa» alla costruzione del suo poema. Però noi non l’andiamo impegnando nel modo dantesco, attraverso simboli e allegorie, ma in un modo moderno, riuscendo a universalizzare fatti particolari; sicché le azioni individuali dei personaggi diventano il canone delle azioni di tutti.
C’è, dunque, sotto il fatto cronachistico o di favola, un significato pregnante, che non può non esserci in uno scrittore moralmente attento come il Manzoni; specialmente nei punti dove il tessuto è più prezioso e colmo. Citiamo il protagonista, Renzo; il quale, quando esce dall’osteria d’oltre l’Adda e quasi inciampa nei poveri («tutti del color della morte») che gli stendon la mano, vuota la tasca dei pochi soldi che ha, dicendo: «La c’è la Provvidenza». L’opera di misericordia impreziosisce il tessuto del romanzo. Ma che conta qui è la «coscienza» che ha Renzo d’essere strumento vivo della Provvidenza. Lui stesso racconta che dall’essersi spogliato degli ultimi danari, gli è venuta più confidenza per l’avvenire che non glie ne avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Poiché «se a sostenere in quel giorno quei poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuto in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe, chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di se stessa, così efficace, così risoluto?». Che è veramente un modo di creare la Provvidenza.
Renzo è a Milano la seconda volta, in cerca di Lucia. In via San Marco sente una voce di donna, dimenticata in casa coi suoi bambini affamati. Le offre i due pani che ha in tasca, e gli pare di compiere una «restituzione» dei pani trovati vicino alla croce di San Dionigi nell’altra sua entrata in Milano. Renzo stesso scopre questo valore. «Ecco una restituzione; e forse meglio che se li avessi restituiti al proprio padrone; perché qui è veramente un’opera di misericordia.» È così persuaso il tono delle parole, che Renzo par che sia stato chiamato un’altra volta a Milano più per compiere quest’opera che per trovare Lucia. Il trovare Lucia, appartiene alla trama esterna del romanzo; l’opera di misericordia appartiene alla sua unità intima, al poema del bene, che si compie solo che Dio metta in atto alcune circostanze che sono il segreto della sua Provvidenza.
Ancora. Renzo giunge al Lazzaretto, sempre in cerca di lei, Lucia. La scopre attraverso un filo di voce che par giunga da un dolce purgatorio: («Paura di che? diceva quella voce soave»). Per l’economia del romanzo è giusto che Renzo giunga lì dov’è Lucia, guarita. E dove c’è padre Cristoforo che, giovandosi della sua autorità, la scioglierà dal voto e offrirà a tutt’e due la possibilità d’essere sposi. Così vuole la trama del romanzo che comanda una soluzione. Ma sotto il fatto di cronaca c’è una economia spirituale, a suo modo ben più importante: Renzo è chiamato lì per aiutare la situazione estrema di don Rodrigo. Perché don Rodrigo si salvi, non basta la preghiera di padre Cristoforo né quella di Lucia: ci vuole anche il perdono di Renzo, che giunge in tempo a darglielo, perché glielo dia anche il Signore: attuando le parole: «Quello che avrete perdonato in terra, sarà perdonato anche in cielo». E don Rodrigo scompare dentro un lume di tranquillo mistero; perdonato, salvo anche lui. Correzione molto significativa alla fine triste che fa nella prima stesura.
Pensate ora a Lucia, che proprio da uno sbaglio — l’aver accettato, sia pure a malincuore, di fare il matrimonio di sorpresa — ha la sua salvezza. Se quella notte («la notte degli imbrogli») non fosse andata dal curato, sarebbe stata sorpresa in casa e portata via dai bravi di don Rodrigo. O pensate a padre Cristoforo che da un impeto d’ira non contenuta (l’uccisione del cavaliere per le vie della sua città) ritrova la sua vocazione e si fa frate.
E tutto il dolore che accompagna le vicende esterne di Renzo e Lucia, cioè il disegno del romanzo, non va certo sciupato: concorre alla salvezza dei persecutori: l’Innominato, don Rodrigo, la Monaca. È l’attuazione della verità più ilare della religione cattolica: la comunione dei Santi. La Divina Commedia e I Promessi Sposi — libri di eccezione — vanno letti così, come si legge la Bibbia; ché solo così rivelano la loro ascosa e profonda ricchezza.
E un’altra volta, innanzi a questa visione di bene, così colma, così totale che ci presenta il romanzo, cade fatalmente ogni incauta e puntigliosa accusa di giansenismo.
Poi, s’è detto tutto, quando s’aggiunga che il mondo manzoniano è intimamente consolato, sereno, non ottimista, perché il Cristianesimo, che ne è l’anima, è fondamentalmente triste (Cristo ha portato nel mondo il dono religioso della tristezza: «Beati quelli che piangono...»); non pessimista, perché l’uomo è consolato dal sapere che il dolore e i guai, «la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». Parole che fanno camminare il mondo, e la vita diventa uno stato di purificazione. Armato di fiducia e di rassegnazione (forza, non debolezza) nella sofferenza l’uomo migliora: trova approfondimenti d’anima, rivelazioni, conoscimenti solidi, e benedice anche il dolore. Dice Renzo in uno dei momenti più critici: «Quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa; c’è anche per noi. Vada tutto in isconto dei miei peccati. Ma Lucia è tanto buona. Non vorrà farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo». E più tardi, per le vie di Milano vuotata dalla peste, innanzi alla donna che «scendeva dalla soglia di uno di quegli usci...» esclama: «Oh Signore, esauditela, tiratela a voi, lei e la sua creaturina; hanno patito abbastanza, hanno patito abbastanza».
Questa è la valutazione che il Manzoni fa della vita: cosa d’una tristezza inevitabile, ma consolata da un senso inestimabile di espiazione. Nostro purgatorio.
L’ultima parola non è caduta invano; poiché la valutazione manzoniana ci riporta nel lume della seconda cantica, tra quelle albe quete, quei teneri tramonti, solo che i canti dei salmi e degli inni che illuminano i bordi e le vallette del Purgatorio, qui sono sostituiti da onde di suoni, da scampanii a festa. Dante, che sulla terra ebbe tutt’un’altra vita di quella del Manzoni — agitata da forti passioni politiche quanto fu tranquilla quella del Manzoni — questa situazione d’equilibrio l’ha collocata in Purgatorio, dove lo spirito si purga e diventa degna di salire al Cielo. Ma la situazione è la stessa: creature che soffrono in una segreta allegrezza «di tornar belle a Colui che le fece»: «al Dio dei santi ascendere — sante del lor patir».
Questa concezione della vita, si riflette anche sul paesaggio del romanzo, sorraso da un respiro di umiltà evangelica, non tanto per taluni colori e motivi biblici segretamente chiamati ad avvivare le pagine (i seminatori del capitolo IV che «andavano gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore» fan pensare al Salmo: Euntes ibant et flebant mittentes semina sua), ma in quanto gli elementi di cui risulta, derivano dalla santità della rinuncia. Mettendosi fuori dalla tradizione, il poeta non spende una riga per la primavera; ha la cautela di non nominarla mai, come cosa che turba; o, se la parola vi cade di sfuggita, quattro volte in tutto, è in momenti di tetra santità che ne smorzano il suono troppo nuziale.³ Come, a non fare la narrazione troppo cupa, introduce sobriamente notazioni gentili. Tonio, per esempio, colpito dalla peste e in attitudine di insensato, ce lo fa trovare «con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini» (il particolare più gracile di tutto il romanzo). Nel Lazzaretto, tra il tramenio dei carri e l’urlio dei frenetici, c’è un volo di rondini che par voglia alleviare la gravezza delle cose. Non dimentica di dirci che il primo milanese a cui s’è attaccata la peste era un «suonator di liuto»; o che nel silenzio spaventato di Milano nei giorni della morìa, «c’era sempre in Duomo una campana che sonava, all’alba, a mezzogiorno, a sera». O è il dono di Federigo che, accennando la carestia a finire e tornata la stagione delle messi, a ogni povero che gli si presentava, dava «un giulio e una falce» per mietere. Ma non v’accadrà mai d’imbattervi nella descrizione dell’estate ricca, trionfale; particolare interessante per un lettore di Virgilio, il poeta che s’indora al sole dell’estate sontuosa:
Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant;
Nunc virides etiam occultant spineta lacertos.
Thestilis et rapido fessim messoribus aestu
Allia serpullumque herbas contundit olentes.
At mecum raucis, tua dum vestigia lustro,
Sole sub ardenti resonant arbusta cicadis.
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I versi gettano sulla pagina il chiaror caldo delle messi mature, fra un frinir di cicale abbriccate agli immobili faggi e lavoratori che pigliano il fresco asciugando il sudore presso i fonti solinghi. È tutto un colore che manca nel Manzoni. C’è, nel capitolo XXVIII, una riga che pare una finestra aperta, per un momento, su zone luminose di molto oro: «Intanto quei benedetti campi incominciavano a imbiondire». Tutto qui; in questa riga che pare la trascrizione del principio d’un inno, preso magari dallo stesso Virgilio: «Molli paulatim flavescet campus arista». O da un luogo poco frquentato di Cesare: «Iamque frumenta maturescere incipiebant». O dal Vangelo: «Videte regiones quia iam albae sunt ad messem». E c’è un’altra brevissima sensazione d’estate (capitolo XXXIII), la notte che don Rodrigo ammala di peste («Una notte, verso la fine d’agosto...»): ma è un baleno. Ne senti l’afa, e basta.
Piuttosto ogni pagina è trattenuta dentro un temperato lume d’autunno: dalla «passeggiata» di don Abbondio («Tornava, bel bello, verso casa, la sera del 7 novembre...»), il «memorabile avvenimento» che apre il romanzo, alla salita di padre Cristoforo alla casetta dov’era aspettato («Un venticello d’autunno staccando dai rami le foglie appassite del gelso...») fino al «E venne l’autunno...» delle vicende ultime. Se il poeta ha da fare un rimando di tempo, è all’autunno («Fino all’autunno del seguente anno, rimasero tutti...»; oppure: «la mortalità epidemica si prolungò fin nell’autunno»). Se richiama un temporale, è quello d’autunno («Come dopo un temporale d’autunno si vede dai palchi fronzuti d’un gran albero»); se nomina la brezza, è «più che autunnale». E quando, per i buoni uffici del Cardinale, Lucia fu accolta in casa di donna Prassede e dovette separarsi dalla madre, «si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno». Quel cielo di Lombardia «così bello quando è bello, così splendido, così in pace», e che torna a lodare nel mezzo d’una affaccendata conversazione («Chi lodava il cielo di Monza...»), è cielo d’autunno, sentito con l’allegrezza pacata d’un lombardo. Amore di Lombardia, che si riconosce nella cortesia del contadino offrendo un po’ del suo piatto: «Volete restar servito?»; o nella «bellezza molle e maestosa che brilla nel sangue lombardo» delle donne. Cielo tutto suo, e terra e gente, poiché entrati nel suo ordito sentimentale, nella illogorabile melodia del suo racconto.
Anche la luna, vista dalla «sodaglia» dell’Adda, è «in un canto, pallida e senza raggio» e «spicca nel campo immenso d’un bigio ceruleo»: luna fina, sognata, tacita; luna manzoniana per sempre. E simile è l’altra alba, quella dell’Innominato, quando «le montagne eran mezze velate di nebbia, e il cielo tutta una nuvola cenerognola». (Ritorna «il temperato albor» del coro di Ermengarda.)
Questa rinuncia ai quadri delle stagioni esplosive e troppo contente, più che un dato cronologico — al quale l’artista dà poca importanza — è un fatto psicologico. Per il Manzoni, così atto a rendere gli stati d’animo accorati e la poesia meditativa, la bellezza della vita nasce dalla presenza del dolore e da tutto un misterioso impreziosire di rinuncie e d’umiltà: a rappresentare le quali, nulla più adatto dell’autunno il cui aspetto contemplativo si scioglie in un patimento rassegnato e consapevole: quasi sublimazione del sentimento. Senza dire che è l’aderente interpretazione di questa nostra terra lombarda, di cui l’autunno è il colore fondamentale, psicologico, quasi il temperamento religioso. L’autunno è nostro. Accanto alla rassegnazione della povera gente, il Manzoni ha voluto onorare il personaggio umiliato, mite, la stagione povera perché ha tutto donato. Ed è proprio un beneficio del Cristianesimo questo risolvere anche la nostra tristezza in una forma di pacata letizia: «pacata in suo contegno». Dopo il Manzoni, che ci ha rivelato artisticamente la cristiana consapevolezza del dolore, col suo mondo d’equilibrio e di rassegnazione, nella vita c’è una consolazione di più. Abbiamo parlato di rivelazione. E la pienezza religiosa della parola non è mai stata così bene invocata come qui: il Manzoni è una seconda rivelazione dei valori cristiani.
Il discorso sul paesaggio ci porterebbe anche a comprendere il gusto come il Manzoni lavorava il particolare, minuzioso, da parere, talvolta, trito. Ma non era mai un impegno topografico o geografico, come lo sentirà, più tardi — poniamo — un Fogazzaro; era tutto artistico e creativo; ricostruito con elementi tolti da altri paesaggi, diventati memoria, affettuosa fantasia. Come faceva verosimilmente coi personaggi: quante volte il Manzoni, intento a darci la figura di Federigo, deve aver buttata idealmente la porpora sulle spalle del grande Rosmini, o del Tosi, togliendo dall’uno e dall’altro particolari evangelici e pastorali per completare il suo personaggio. Ed è molto ingenua la ricerca «bindoniana» del critico che studiando il paese sulla realtà, contrasta con le ragioni geografiche... Dicono che «dalla stradicciola» per la quale «tornava bel bello dalla passeggiata verso casa», era impossibile che don Abbondio vedesse la luce del sole già scomparso, scappare «per i fessi del monte opposto». Dicono che, per la porta della chiesa del convento di Pescarenico non era topograficamente possibile entrasse la luna a illuminare la barba d’argento di padre Cristoforo, che stava lì ritto in aspettativa... Se mai, è proprio la conferma che il paesaggio manzoniano è lavorato con l’animosa libertà del poeta. A una sola cosa egli obbediva: alla sua esigenza artistica. Che è un’altra liberazione, e un altro incanto della poesia manzoniana.
1. Dice G. A. Borgese: «I Promessi Sposi cominciano come un racconto epico, piano, fertile, ricco di fronde e di ombre... Poi, d’un tratto si slanceranno verso il gruppo del salvamento di Lucia».
2. Perfino i monatti, difendendosi dalla pistola di don Rodrigo appestato (capitolo XXXIII) vanteranno il loro delicato ufficio: «Contro i monatti! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!» E, in verità, a parte i «visacci», a parte le «facce scomunicate», anch’essi a loro modo continuano l’opera (non l’intenzione) di Tobia. Anche lo spadaio-bargello (capitolo XIV) dirà a Renzo che lo ringrazia d’avergli indicata un’osteria: «Non siam obbligati a far servizio al prossimo?». Parole che praticate o non, sono però l’eco di quelle verità che vengono trasmesse nel più elementare insegnamento della religione.
3. La prima volta è in bocca di fra Galdino (capitolo III) che racconta il miracolo delle noci in quel tramonto sconsolato: «Infatti, a primavera, fiori a bizzeffe...». La seconda e la terza, nella potente relazione di Milano affamata (capitolo XXVIII): «Nell’inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male...»; e «così passò l’inverno e la primavera». La quarta e ultima (capitolo XXXIV) torna come similitudine a proposito dei cadaveri appestati sul carro dei monatti «avvoltati, ammonticchiati, intrecciati insieme come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera».
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