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CESARE ANGELINI

SAIO COLOR CORDIALE

In C. Angelini, Variazioni manzoniane,
Milano, Rusconi, 1974, pp. 77-83.

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fra Galdino

Illustrazione di Francesco Gonin


In due libri i frati francescani si trovano bene come a casa loro, nel convento: i Fioretti e i Promessi sposi. Due libri, due civiltà: la mistica del Duecento e la romantica dell’Ottocento. Diremo anche due testimonianze dell’Ordine, sorpreso prima nel suo fervore espansivo, visto poi nella sua importanza sociale e costruttiva.
Nei Fioretti c’è la primavera dell’Ordine che si apre sotto i cieli turchini dell’Umbria; è il suo momento lirico. I frati, detti minori, vivono giorni ingenui, all’evangelica, alla contadina, senza Regole, fuor che quella che ha dettato il Signore: «Non tenete oro né argento, non due vesti...». Nessuna angustia per le cose da mangiare e da vestire; tanto che a San Domenico, frate positivo, quel modo di vivere pareva una provocazione al buonsenso. Ma poi, convertito proprio da quell’incanto, proprio Domenico dirà: «Maledico dalla parte di Dio tutti i frati dell’Ordine mio, i quali presumeranno d’avere beni personali». Essi fanno capitale della Provvidenza; sanno che il dono di vivere è passato negli uccelli, nei fiori, che sono i loro maestri autorevolmente indicati: «Guardate i fiori del campo, gli uccelli dell’aria...».
Campano la vita, aiutando la gente a lavorare nei campi, negli uliveti, e ne hanno in compenso un pezzo di pane e qualche oliva; se no, vanno a mendicarlo alle porte, «parendogli d’accostarsi alla mensa del Signore». La notte, ricoverano in capanne, in celluzze di frasche e di fango battuto; i loro conventini, piccoli perché il giorno del giudizio, crollando, non facciano rumore.
A vederli così, in una visione corale, paion branchi d’uccelli che partono da una brocca e non sai su che ramo andranno a posare; uccelli raminghi che stan sempre su l’ali. Fra quei tuguri e le vigne e gli ulivi, rinnovano i giorni del Vangelo, rivivendo, in una divagata allegria, un’esperienza temeraria quanto semplice. È il momento eroico della loro storia; e storia e leggenda fondendosi insieme, fanno dell’Umbria una terra votiva; e francescano è parola che, entrando nell’abitudine del linguaggio, significa una condizione di vita, un’atmosfera di sentimento, occasione di poesia.

Nei Promessi sposi l’Ordine arriva naturalmente adulto, con quattro secoli di vita, di esperienze, di lotte e di botte tra conventuali e spirituali, di riforme, di trasformazioni. Ci arrivano con la barba e il cappuccio in punta; appunto, i cappuccini, che sono del ’500 e sorti da un bisogno di richiamar l’Ordine da un vaneggiare pericoloso a una maggiore severità. Dunque, con altra forma e altra forza; con una coscienza operosa, un codice, una gerarchia, e magari dei privilegi, seguendo un processo umano e logico che è di tutte le istituzioni che non devono morire. È una grandiosa collaborazione; è il momento storico dell’Ordine. In fondo, la stessa evoluzione della Chiesa che in un primo tempo è solamente evangelica: quelle prime comunità cristiane, quei sodalizi casalinghi vivevano un cristianesimo primordiale e commovente; umile gente, umili opere e genti. Poi viene san Paolo, e da quel rivolo nasce il grande fiume; nasce la Chiesa, con la sua organizzazione, la sua dottrina e disciplina, dentro la quale le anime trovano sicurezza, fidatezza, aiuto. Senza organizzazione, quei nuclei evangelici quasi si pensa che sarebbero stati percossi come germinazioni esitanti, indifese.
Ma torniamo ai nostri cappuccini. La loro presenza nel romanzo, si sa, è imponente; prima di tutto, per il numero. Un pregiudizio che nel secolo passato trattenne più d’uno dalla lettura del libro, era che vi si incontravano troppi sai, troppi cappucci e sandali. È l’accusa banale del Settembrini. Se poi li guardiamo all’opera, il romanzo è «l’epopea dei frati»: dei più umili come fra Galdino (quel delle noci), fra Fazio, ai più autorevoli, padre Cristoforo, padre Felice, il guardiano di Monza, il padre Bonaventura da Lodi, il padre provinciale. E se fra Galdino, ci apre, un momento, la porta interna del convento, ne vediamo, insieme con Agnese, una fila: «Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria?...». Molti cappucci, ma senza odor di cappucci o di tabacchiera. Se mai, le loro sporte e le loro scatole sono «d’un legno ordinario, ma tornite e lustrate con finitezza cappuccinesca». La loro missione è la carità in atto, il Vangelo in azione; fare del bene, come comanda il loro motto: Pax et bonum. Il convento ora è ben piantato ed è «come il mare, che riceve acqua da tutte le parti e torna a distribuirla a tutti i fiumi».
L’immagine spaziosa ci riporta alla organizzazione cattolica dell’Ordine. Lo volevano i tempi, in cui era portata al massimo grado la tendenza a organizzarsi in classi, a formarne di nuove, a procurare la maggior potenza di quella a cui appartenevano. Uniti, i frati formavano un corpo, una temibile potenza, da intimidire anche don Rodrigo, che dirà al cugino Attilio: «Che volevate, che mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?». E il conte Zio, che è quella potenza che è, è troppo prudente per non tener conto dell’alta potenza che sono i padri cappuccini presi tutti insieme, «capacissimi, per difendere uno dei loro, di dar noie anche ai casati». Nei conventi era entrato anche il punto d’onore, l’onore dell’Ordine, che, dice Prezzolini, è il motivo che circola in tutto il romanzo, come era il pregiudizio del secolo.
Quando Lucia, dopo il matrimonio andato a monte, per mezzo del frate cercatore manda a chiamare padre Cristoforo, il Manzoni dà spiegazione di tanta confidenza: «Nessuno pensi che quel padre Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi un uomo di molta autorità presso i suoi e in tutto il contorno, ma tale era la condizione dei cappuccini che nulla pareva per loro troppo basso né troppo elevato. Servir gl’infimi ed esser servito dai potenti, entrar nei tuguri e nei palazzi; il cappuccino era spesso un personaggio senza il quale non si decideva nulla». Il Burckhardt ha scritto una bella pagina in proposito. Dice che il cappuccino era una persona indispensabile, una potenza pubblica; la sventura della povera gente di paese sarebbe stata completa senza la sua figura, che riconcilia e soccorre, in tempi malsicuri.
A dire quant’è spiegata la loro disponibilità organizzativa, ricordate che gli stessi bravi, nei momenti che fuori non tirava aria buona per loro, si rifugiavano nei conventi. («Noi siamo amici del convento...».) E la monaca di Monza, la signora avvezza ad accordar protezione, un certo momento confessa: «in un caso, in un bisogno, saprei anch’io far capitale della protezione dei cappuccini». Gli stemmi cedono al saio. I poteri e i privilegi dei frati erano tali che (dirà il guardiano del convento) urtare un cappuccino, sarebbe stato un attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo.
Ma il caso che ci dà in pieno la potenza dell’Ordine in funzione del bene, è quello di padre Cristoforo che organizza la partenza degli «sposi» rimasti «promessi» dal paese nativo, per sottrarli alla persecuzione di don Rodrigo. «Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione, torrente a pochi passi da Pescarenico. Lì vedrete un battello fermo. Direte: Barca. Vi sarà domandato: Per chi? Risponderete: San Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un barroccio che vi condurrà fino a...»
Commenta il Manzoni: «Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione quei mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere di un cappuccino».
Certo, diverso e maggiore di quello dei frati minori che abitano i Fioretti, e ancora li videro gli occhi di Dante «andar per via». È il potere dell’Ordine cattolicamente organizzato sull’Ordine evangelicamente libero. E anche questo va detto: che mentre nei Fioretti in ogni frate si esalta il Santo, il Fondatore, nei Promessi sposi ogni frate celebra l’Ordine, l’organizzazione intesa come una norma per vivere. Ma, minori o cappuccini, tutti insieme rappresentano i valori evangelici genuinamente e diversamente vissuti; e il saio è sempre un color cordiale.

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padre Cristoforo

Illustrazione di Francesco Gonin

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