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CESARE ANGELINI

I TRE TEMPI DELLA RIVELAZIONE

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 217-228.

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Alessandro Manzoni

Litografia del 1865
da disegno di Carlo Bianchetti
Centro nazionale di studi manzoniani, Milano


Il Manzoni è un’eredità che più si divide e più aumenta.
È il poeta che è andato più vicino all’uomo e al suo cuore. Lo ha studiato attentamente, lo ha compreso a fondo e lo ha fatto conoscere a se stesso. E poi — l’altro grande dono — ci ha dato una lingua per esprimere la nostra umana verità. Tornano a mente le parole di Gino Capponi: dopo il Manzoni siamo tutti manzoniani; e forse è già stato scritto il capitolo perché non possiamo non dirci manzoniani.
Il Manzoni è una verità che ci accompagna tutti i giorni; è il nome della nostra morale quotidiana, il nostro esame di coscienza, la lingua con la quale comunichiamo. Grandissimo nel mondo dell’arte, consolatore, benefattore. Anche per questo è un contemporaneo; cammina con noi, vicino a noi, è in noi se sappiamo vivere con umiltà e parlare con spontaneità e sincerità.
In lui troviamo una pienezza di valori che ne fanno uno scrittore di umanità completa; uno che in ogni momento e per ogni situazione ha una risposta da dare. Le sue conclusioni non sono mai negative, e dalla sua lettura si esce sempre con la fiducia e la speranza e la gioia di vivere e di operare. Come Dante, ci rende anche «il di là», che è aumento e potenziamento, cancellamento di confini, universalità.
Usa dire che all’universalità è arrivato attraverso i principii romantici, secondo i quali la letteratura, liberatasi dalla poetica classicista (rinnovato «il di dentro e il di fuori», secondo l’espressione leopardiana) aveva riportato l’arte vicino alla vita: che è un interrogare direttamente la natura, cavare poesia dal fondo del cuore, dandole nuova interiorità, nuovi spazi. Perché anche in letteratura il problema fondamentale è sempre quello di salvar l’anima, cioè la spontaneità di sentire e la sincerità dell’esprimersi. Ce n’era già un annunzio nel carme In morte di Carlo Imbonati: «Sentir, riprese, e meditar...».
Ma a fare più veramente ampia la sua arte, concorse la coscienza profondamente cristiana, rifatta col rinnovamento religioso del 1810 e l’adesione totale ai principii del Vangelo che alimentano la vita e sono per loro stessi universali. Ci pare allora superfluo parlare di principii romantici e di romanticismo: cadono le formule e restano i fatti, questo: che da un sincero convincimento cattolico è venuta la nuova salute alla nostra poesia.
Vogliamo insisterci un poco, perché questa è l’ora del Manzoni: un rinnovato fervore s’è desto intorno al meglio di lui, all’eterno di lui, il romanzo, che interessa sempre più gli studiosi; vi cerchino la storia della sua elaborazione poetica e sottilmente discorrano di snellimenti stilistici, di rarefazioni espressive, o preferiscano lodarne i motivi religioso-morali. Ma ecco quel che accade: poiché sapienza stilistica e sapienza morale nella sua pagina sono intimamente compenetrate, chi vi cerca la morale s’imbatte nello stile e in quella sua ebbrezza di linguaggio; e chi vi cerca lo stile s’incontra nella morale e s’accorge che proprio essa e le sue inquietudini ascetiche gli valsero a generare le sue migliori creature poetiche.
Si diceva dell’universalità. Ci porterebbe a discorrere anche più da vicino delle sue idee, della sua Fede intesa come unità di pensiero e superamento di filosofia. Ora non è colpa nostra, se parlando delle sue idee, parrà che facciamo un’esposizione della morale cattolica. È il suo mondo: si tratta piuttosto di vederne l’incarnazione poetica, qualunque sia la posizione spirituale del lettore.
Il Manzoni, ci appare sempre più come una nuova rivelazione della morale evangelica che si attua per gradi, lentamente, in tre tempi, e l primo tempo è lirico.
Recuperata la Fede, gl’Inni sacri (li abbiamo già descritti) rappresentano l’entusiasmo del neofita, e sono l’espressione della rinascita che lo porta ad affacciarsi su un mondo che sente suo, consentaneo con la sua indole potentemente morale.

Ma gl’Inni sono ancora frammenti di quel mondo che gli si andava ampliando dentro, e colmando. Nella sua ansia di perfezione morale, di vita sempre più cristiana, che vuol dire più intensa, accompagnata da una non meno grande ansia di perfezione artistica, il Manzoni sentiva che gli mancavano ancora molte cose: meditazioni, letture più larghe, esperienze interiori. La conversione non l’aveva trovato interamente preparato al canto.
Verso il 1816, interviene un’interruzione della sua attività entusiastica e poetica, una pausa di raccoglimento. È il tempo in cui monsignor Tosi lo invita a difendere la morale cattolica contro le accuse del Sismondi, storico ginevrino e protestante. Accetta l’impegno come una buona occasione di raccogliersi e meditare più a fondo sui valori evangelici, sulle verità religiose; e da queste meditazioni nasce il libretto della Morale cattolica. È il secondo tempo di quella che abbiamo detta la sua nuova rivelazione: tempo riflessivo e meditativo. L’entusiasmo del neofita si rassoda e tramuta in coscienza più alta, più ferma.
Benché l’occasione del libretto fosse esteriore, scriverlo gli fu facilmente persuaso dalla considerazione che l’uomo ha talvolta il dovere di parlare per la verità, e quando in questioni capitali, sente di aver un parere ragionato, l’esporlo può essere un dovere. Sono sue parole, dalle quali si sente nascere l’amore per il tema; e nello stenderlo, non tanto obbedisce a monsignor Tosi quanto alla sua coscienza e al suo gusto ragionativo. Ci durò due anni: il 1818 e il 1819.
Se con gli’Inni era stato — sia pure in modo limitato — il cantore della morale cattolica, ora ne è l’avvocato, il difensore. Lo sa e lo dice fin dalla prima pagina: «Debole ma sincero apologista d’una morale il cui fine è l’amore...»; e l’esalta con parole d’una proprietà vincente, convinta, appresa dal latino meditato del Vangelo che lo conquide (il Manzoni non sapeva il greco), e del francese dei grandi moralisti del secolo XVII, Massillon, Nicole, Bourdaloue, Bossuet, Pascal, dei quali si nutre come del pane, soprattutto di Bossuet, gran maestro di verità e di stile. Non poteva trovar di meglio di questi nuovi e provvedutissimi dottori della Chiesa.
La stesura del libro gli ha rivelato il tesoro inesauribile della verità del Vangelo, e approfondita la conoscenza dell’uomo. Dice: «Più si esamina questa religione, più si vede che essa ha rivelato l’uomo all’uomo». Proprio quello che interessa lui: l’uomo, e il suo cuore, il guazzabuglio del suo cuore, e il bisogno di comprenderlo per compatirlo. La comprensione, la compassione, sono le due qualità tipicamente manzoniane.
In questi ultimi tempi la critica, dico quella stilistica (De Robertis in capo) ha celebrato il linguaggio della Morale; scoprendo il segreto incanto del libretto nell’essere il Manzoni riuscito a stabilire una parentela tra il nostro linguaggio e la parola divina.

Tempo lirico, tempo riflessivo o ragionativo: due momenti importanti, in cui il Manzoni s’è mostrato un rivelatore che sa rendere domestiche l’alte cose della Fede. Ma la rivelazione è piena solo nel terzo tempo, che diremo corale; e ormai tutti gli strumenti sono pronti per attuarlo. Lo studio della morale gli ha dato un’estrema finezza nella conoscenza dell’animo umano, e le verità, esaltate nel piccolo libro, ora aspettano d’essere assunte in figure e creature vive. La convinzione religiosa ha toccato il suo punto più alto, con quel suo credere, quel suo forte credere che si fa ammirare con invidia anche da chi non crede. È stato scritto l’ultimo inno sacro, La Pentecoste, dov’è già annunciato il «suo» mondo. Scritti i due drammi — Il conte di Carmagnola e l’Adelchi — che sfogano il suo bisogno di rappresentare la vita più varia, più ricca, nella sua profondità e ampiezza, e la gioia d’aver scoperto rapporti bellissimi tra la poesia e la storia. Scritto il «coro» dell’Ermengarda dov’è chiarita la verità fondamentale della «provvida sventura» e risolta l’altra degli oppressori e degli oppressi. Matura è la convinzione che gli effetti della lirica vanno risolti nel’esperienza della prosa, e maturo è il problema della fondazione della lingua. L’animo è fortificato dalla cognizione del dolore: tante volte la morte ha visitato la sua casa, seminandovi lutti, più inconsolabile, quello di Enrichetta. Il Manzoni ha raggiunto il Manzoni. Ogni cosa è temprata, pronta per l’opera maggiore che, nascendo lenta, come un lungo patimento, in tre successive stesure (1821-1823;1825-1827; 1827-1840), assorbirà e dilaterà tutto quanto è stato detto nei precedenti lavori.
Siamo ai Promessi Sposi. Ora, sviluppando un’idea, annunciata dal De Robertis in un suo Studio, vorremmo liberarli dai legamenti narrativi, dagli intrecci storici, e sentirli come un «coro», un coro di voci, ossia la molteplice voce dell’anima di lui che vive tutti i suoi personaggi. Voce di Federigo, voce di padre Cristoforo, voce di padre Felice, voce di Lucia: con fortissimi e pianissimi e smorzati; coro di voci da cui sgorga la nuova e piena rivelazione. Ciascun personaggio, apparendo, dice una verità, da far un poco pensare alle «beatitudini» via via cantate sulle varie cornici del Purgatorio, mentre il poeta sale. Ma là, Dante ha affidato l’impegno agli angeli, qui, il Manzoni l’ha calato nel mondo degli uomini.
Voce di Federigo, che rivela le verità più alte, prendendo tono e fermezza proprio da quelle eccelse verità. Nel romanzo, ovunque è Federigo; e se quella gran peste di cui sostiene il peso, è soprattutto la sua azione, la sua voce è nei due grandi colloqui con l’Innominato e con don Abbondio. Grandissimo quello con l’Innominato, se ci porta alla suprema rivelazione, l’incontro con Dio. «Dov’è questo Dio?» – «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?» Colloquio inebriato, convito di grazia, tutto scavato nella carità evangelica: «Lasciamo le novantanove pecorelle, ... sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita».
Ma noi, ora, ci esaltiamo nel prodigio della Grazia o nell’incanto d’un linguaggio nuovo? Perché la voce di Federigo crea una delle più belle novità del Manzoni: un’oratoria che è una più concitata idea della poesia; o, come insinua qualcuno, la poesia della prosa, che fa del Manzoni il grande poeta della nostra prosa.
Voce di padre Cristoforo; pia se consóla le due donne nella disgrazia, con parole staccate dal Cielo («poverette! Dio vi ha visitate...»); irruente, se rimprovera il malvagio («Avete colmata la misura; e non vi temo più... Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura... Verrà un giorno...»). Voce che prega, e perdona e impone perdono, nella chiesetta del convento, sul punto di salutare i fuggiaschi. «Prima che partiate,... preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto...» Poi: «... con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: “noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui... Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui! è vostro nemico, ...toccategli il cuore,... concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi”.»
Nel Lazzaretto, presso il giaciglio di don Rodrigo moribondo, indurrà Renzo al perdono; che, nella sua coscienza, è poi bisogno di perdono per quel suo antico peccato (l’uccisione del cavaliere) che non sa mai scordare, e chiama altri a scontarlo con lui. «Da quattro giorni è qui..., senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te:... forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo... dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione... d’amore!» E rivela la verità più maestosamente cattolica e umana della religione, la comunione dei santi, tanto esaltata nel Purgatorio: gli uni che meritano per gli altri, ampliando il senso dell’universalità della redenzione, ed escludendo per sempre ogni sospetto di giansenismo.
Voce di padre Felice. Di lui non sentiamo che una predica a quelli che, guariti dalla peste, stanno per uscire dal Lazzaretto: «Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia!... benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi. Oh perché l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione, e infervorato nella gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui? se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi?». Ritornano i motivi di carità, di perdono, cari a Federigo, a padre Cristoforo. Dicono che queste voci, pur nella loro finezza espressiva, sono di alta oratoria. Ma oratoria è parola che ormai ci mette in sospetto contro chi la pronuncia; e gli stessi crociani che l’avevano messa in giro — poëta an orator? — si sono poi dovuti ricredere.
Voce soave di Lucia: la sola voce descritta proprio come elemento fisico che diventa espressione di qualità morali. La voce più poetica del coro, sa trovare le vie del cuore. Dice all’Innominato che la tiene chiusa nel castello: «Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera d misericordia!». Frase vaga come un suono musicale, dice il De Sanctis; ma dolcemente concreta per l’uomo che si vede sfilare davanti tutta la serie dei suoi delitti. La conversione dell’Innominato è giusto che si concluda tra le braccia di Federigo che ha il potere di assolverlo; ma comincia qui, da queste parole, da questa voce che gli risuona nell’animo più a lungo della voce delle campane che al mattino hanno riempita la valle.
Ma c’è un luogo dove la voce di Lucia è anche più pura e si scioglie in un pianto segreto. È il luogo forse più noto del romanzo. «Addio monti. Monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo... Addio casa natìa... Addio, casa ancora straniera... Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.»
Voci, di minori e di minimi, a cui è affidata la rivelazione d’una verità alta, che non paia che la morale evangelica sia cosa d’eccezione, ma universale, senza esclusione di individui o classi; e il suo insegnamento innalza il semplice e la femminetta al di sopra dei savi del paganesimo.
Voce del barcaiolo che, ai ringraziamenti dei fuggiaschi ch’egli ha passato all’altra riva dell’Adda, risponde: «Di che cosa?... siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro».
Voce del sarto: «la disgrazia non è il partire e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male».
Voce del cugino Bortolo: «Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene...».
Voce di fra Galdino: «noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi».
Voce dell’«amico» che Renzo incontra dopo la peste, e rappresenta in quel momento il balsamo dell’amicizia intesa come una virtù: «Sai che sono rimasto solo? solo! solo, come un romito!... cose brutte,... cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarsi l’allegria per tutta la vita; ma a parlarne, tra amici, è un sollievo».
Voce dell’«anonimo»: «Fate del bene a quanti più potete, e vi seguirà spesso d’incontrar de’ visi che vi mettono allegria.» – «A questo mondo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene; e così si finirebbe a star meglio.»
Voci di umili. Un’altra volta la verità rivelata agli umili, è rivelata dagli umili.
Voci, voci del bene.
E le voci del male? Per il Manzoni il male non ha voce. Esiste il malvagio, la mala azione, ma non esiste la voce del male. Il bene è sempre accompagnato da una parola che si ricorda. Il male, no. Che parole si ricordano di don Rodrigo? del conte Zio? del padre provinciale? di Egidio? della Monaca? Nessuna. Il male non ha voce.
Voci alte, voci umili, e, alla fine, tutte rivelatrici di verità. E mi piace immaginare che il coro delle voci, viaggi su una barca portata dall’Adda che «ha buona voce» «quella benedetta voce dell’Adda»: ed è anche un modo di restituirle alla loro terra e alla sua saggezza: poiché l’Adda è la presenza tutelare di tutto il paesaggio manzoniano.
Sicché torniamo a domandarci: — Queste voci ci prendono per le verità che dicono o per il modo come le dicono? Confessiamo che la domanda ci seguiva a ogni pagina della nostra lettura: e quasi non sappiamo rispondervi, tanto gareggiano insieme la consolazione della verità e l’ebbrezza del linguaggio in cui sono liberate.
È da concludere — e anche questo è stupendo — che la nuova rivelazione della morale evangelica ha trovata l’espressione che rimane la più nuova nella storia delle nostre lettere. La «renovatio» religioso-morale per la quale il Manzoni visse e scrisse, s’incontra con la «renovatio» poetica o il suo linguaggio, che è l’acquisto più alto della poesia moderna.


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Lo studio di Alessandro Manzoni
nella casa di via Morone, Milano

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