CESARE ANGELINI ILLUSTRI PENTIMENTI
In C. Angelini, Variazioni manzoniane,Milano, Rusconi, 1974, pp. 45-50.
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Il centenario manzoniano ci permette di ricordare alcuni illustri «pentimenti», tranquillamente, senza polemica, col solo piacere che dà l’onestà di ogni pentimento. Quello, per esempio, del Carducci col famoso Discorso di Lecco del 1891 ne quale, accennato a una leggenda (ma non tutta leggenda) d’una sua avversione al Manzoni, nella tenerezza d’un mattino lombardo applaude senza riserve all’arte del poeta. «Applaudo alla grande arte lombarda che in tre tappe rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la “moralità” col Parini, la “realtà” col Porta, la “verità” col Manzoni. E come la verità intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per se stessa “idealità”, io applaudo alla interezza dell’arte in Alessandro Manzoni». La confessione è così schietta da parere entusiastica.
O quello del Croce, che nel 1952, nello scritto Tornando al Manzoni, augura, più cauto ma non meno sincero, «che la critica letteraria cominci a fare ammenda della fredda stima in cui ha tenuto l’opera del Manzoni che è nel numero delle opere capitali della letteratura europea». E avendo egli stesso considerato i Promessi sposi come un’opera oratoria, spiega come quell’impropria parola che poi fu raccolta da altri, dal Russo per esempio (pöeta an orator?) fosse nata in lui dall’osservazione dello Scalvini che «i Promessi sposi non si svolgono sotto un libero cielo ma sotto l’angusta volta d’una chiesa». Osservazione e giudizio che manca d’ogni fondamento teorico, trattandosi di una pura impressione. Aggiunge il Croce: «Dire l’origine d’un errore o di una distrazione, è sempre difficile, e tale è nel caso mio. Per il quale devo confessare che sono rimasto mortificato tra me e me quando vi sono tornato sopra, ancorché nessuno me n’abbia rimproverato come io meritavo. Dopo questo ben chiaro mea culpa, ecc.».
Abbiamo ricordato le due coscienze più alte dei tempi moderni, i cui giudizi tanto più schietti in quanto onestamente riveduti quasi con spirito di riparazione, ripuliscono l’atmosfera.
E c’è un terzo pentimento, quello della Chiesa, non meno illustre in quanto c’è di mezzo un’istituzione, e la valutazione non è soltanto letteraria ma morale, e tocca l’uomo vero. Si sa (e l’ha ricordato in questi giorni lo Spadolini sulla «Nuova Antologia» in una pagina riguardosa e scrupolosa) che, vivente il Manzoni, la Chiesa non lo guardò mai con troppa simpatia. A parte i precedenti familiari un poco ambigui (quella madre, quell’Imbonati, quel Giovanni Verri...) troppi preti giansenisti tra i piedi! E poi l’amicizia col «pericoloso» Rosmini; e quel Cavour e le Guarentigie, e quegli abbracci a Garibaldi... Alla sua opera poi, dico i Promessi sposi, la Chiesa guardò a lungo con freddezza che pareva condanna, e forse lo era. Quel curato così poco curato, quella monaca così poco monaca... Ma venne l’ora che cominciò a parlare del «nostro Manzoni» e a pensare che la sua salma, invece che al Famedio, starebbe bene in una chiesa, magari in Duomo. Fino al messaggio di Paolo VI; una pagina di fede nell’altissima poesia manzoniana, di intelligenza, di onestà, proclamata pochi giorni fa nel Duomo di Milano da un arcivescovo cardinale vissutamente manzoniano.
E tornando al Discorso di Lecco, il Carducci aggiungeva: «Mi dolsi e mi dolgo con rammarico, io che amo la gran poesia in versi, che il Manzoni, giunto alla maggior potenza della sua facoltà poetica con l’Adelchi e con la Pentecoste, quando mostrava più simpatica allegrezza di rappresentazione che non il Goethe, più armoniosa caldezza d’invenzione che non l’Hugo, mi dolsi e mi dolgo che ristesse».
Bello, anche se un po’ solenne, questo Carducci che ci riporta alla ridimensione del Manzoni lirico, in cui vedeva «la dolce carezza di una donna che ha persuaso e il puro spettacolo delle gioie domestiche che ha vinto». Come dire le scaturigini autentiche dell’ispirazione della poesia alleata dell’uomo, le armonie interiori della vita, da cui ci hanno disabituato le amare aridità degli scrittori d’oggi, che non sono «le nostre qualità». Gl’Inni vanno primamente guardati come poesie d’amore sbocciate fra il focolare e la mensa, come il loro «poetico vapore».
Si rammaricava il Carducci che il Manzoni come lirico finisse con l’Adelchi e con la Pentecoste. Glorioso «assertore» di generi letterari, il Carducci pensava al donatore di cori e di inni perfetti. Ma il Manzoni, poeta meno professionale e di più vasta umanità — più attuale — aveva altro da inventare, da dire: staccarsi da ogni residuo di poesia «classica» e perciò «classista» o linguaggio d’una sola classe, la letteraria, e, andare verso tutti, con una forma e un linguaggio accessibili a tutti, con un parlato moderno; un effettivo aumento di poesia, in ampiezza di mondo e familiarità d’espressione. E abbiamo detto i due elementi di superiorità dei Promessi sposi sulle liriche; perché quegli stati d’animo singoli e quegli umani valori che il poeta aveva prima sperimentato in categorie di eccezione e in modo limitato (nella veloce necessità della lirica e del dramma) ora, rivissuti in una vita interiore immensamente più ampia, rientrano nel romanzo e vi raggiungono il loro massimo sviluppo — altri direbbe la loro musica spiegata — slargandosi in valori universali e assoluti perché riflessi nella vita di tutti.
La capacità del Manzoni di allargare il mondo degli affetti e dei sentimenti gli ha aperta anche l’espressione, fattasi più alla mano, gli ha aperta la parola fino al sapore «dialettale»; quello che il Contini chiama «democraticità manzoniana». S’arriva a una doppia universalità, rappresentata dall’esperienza psicologica di tutti portata al livello di tutti; cose universali dette con le parole di tutti i giorni. Di tutti i giorni, non di tutti gli umori; al di là dei quali c’è il rischio, c’è il Dossi e la sua preziosa scrittura stravaccata in un pittoresco maccheronico.
Né siamo noi che, leggendo le liriche, le consideriamo anticipi del romanzo; è la lettura del romanzo che con le sue situazioni ed espressioni foltemente riprese e ampliate, fa pensare alle liriche come ad albeggiamenti del capolavoro e del suo mondo in piena. E accade di ricordare, e con più verità, quello che altri disse del Leopardi e del Foscolo: che mai i versi hanno meglio preparata e nutrita la prosa più singolare e più nuova d’Italia.
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