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CESARE ANGELINI

L'INNO PERFETTO

In C. Angelini, Variazioni manzoniane,
Milano, Rusconi, 1974, pp. 57-63.

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Autografo de La Pentecoste

Biblioteca Nazionale Braidense, Milano


Si sa che l’inno piaceva molto all’antimanzoniano Carducci il quale (avendo nella mente migliaia di versi di poeti greci, latini, italiani furiosamente amati e che gli davano la misura della perfezione) invitava i suoi scolari di Bologna a mandarlo a memoria, come esempio di alta poesia; «perché», diceva, «quando il Manzoni è perfetto, anche quelli che onoransi di provenire dalla scuola del Foscolo e del Leopardi, lo inchinano». E alla Pentecoste si richiamava ogni volta che voleva indicare la vetta e il vertice sommo della lirica manzoniana.
Ma la Pentecoste cos’è? È, prima di tutto (nota Luigi Firpo che l’ha sviscerata nella sua tormentata elaborazione) un ritorno del Manzoni alla poesia sacra, ai primi quattro inni che, finiti e pubblicati nel 1815, lui steso sentiva non perfetti, mancando d’una unità interna o continuità di ispirazione. Per qualcuno aveva anche scritto explicit infeliciter. E la sua infelicità è anche nostra. Ora, già nell’ottobre del 1822, ci tornava dopo sette lunghi anni ma soprattutto dopo la lettura degli apologisti francesi — Bossuet, Nicole, Bourdaloue, Massillon, Pascal — che egli considerava come la seconda grande stagione dei padri della Chiesa e che, disinfettandolo dalle dottrine degli ideologi frequentati da giovane ad Auteuil, gli avevano dato momenti di alta meditazione sulla grande invenzione cristiana; momenti già presenti nella Morale cattolica, uscita nel 1819. Aggiungiamo che ci tornava con quella vena piena e allegra che gli aveva concesso di scrivere il tumultuante e patriottico Marzo 21, il Cinque maggio e i cori dell’Adelchi.
Qualcuno ci aiuta a esprimerci meglio; se i primi quattro inni erano i temi, la Pentecoste ne è la musica spiegata; se quelli erano i passi del poeta nuovo, qui c’è il volo e, citiamo ancora il Carducci, «il volo dell’aquila lombarda». C’è di mezzo l’uomo nuovo, visitato dalla grazia che è il fiore segreto della Legge cristiana.
La prima grandezza dell’inno è la stessa grandezza del tema, la discesa o irruzione dello Spirito sull’uomo come un gran vento (ma non era il vento) sull’uomo e sull’umanità tutta quanta che ora cammina sotto cieli nuovi:


Nova franchigia annunziano
i cieli, e genti nove...

Anche qui il Manzoni faceva della storia derivandola dagli Atti; ma i fatti gli volavano via in visioni, gli germogliavano in verdissime immagini.
La seconda è la densità lessicale, dico delle parole, che per il De Robertis «hanno un peso logico pari a quello dell’anima», e al Momigliano parvero, in alcuni punti, d’una robustezza michelangiolesca, «rappresentando quasi sotto il peso fisico (come faceva il Buonarrotti) la forza spirituale»:


E allor che dalle tenebre
la diva spoglia uscita
mise il potente anelito
della seconda vita...

È ben ora di dire che l’inno si divide in due parti geometricamente perfette (la geometria è la qualità poetica pascoliana). La prima è trattenuta dentro un a solo, anzi due, che durano fino al verso 80; la seconda è un coro. Nel primo a solo il poeta apostrofa la Chiesa militante che, come una grande potenza senz’armi, ha esteso per tutta la terra la sua forza spirituale:


Tu che da tanti secoli
soffri, combatti, e preghi
che le tue tende spieghi
dall’uno all’altro mar...

Ne rivede pateticamente le piccole, umili origini:


Dov’eri mai? qual angolo
ti raccogliea nascente?

Ne segue quel suo gran crescere, segnato dalle epoche del suo Fondatore: la morte, la risurrezione, l’ascensione, con immagini spaziose e rapide, l’una seme dell’altra, fino alla storica discesa dello Spirito:


quando su te lo Spirito
rinnovator discese;

due settenari in cui batte il cuore di tutto l’inno. Poesia alleata di Dio, per quel che ci rivela dei misteri del Regno.
Al primo a solo che è, per così dire, quello dello storico, segue quello del profeta, dell’annunziatore. La voce che si fa luce:


Come la luce rapida
piove di cosa in cosa...

si volge a tutta l’umanità perché s’accorga che c’è in giro lo Spirito Santo e ne è vigilata, anzi abitata da lui, ospite dell’anima. Una vivacità drammatica muove le sacre strofe, annunziando la novità che ci fa tutti uguali, nuovi e uguali nella Rivelazione, che ha rovesciato tutti i valori correnti della vita. «O voi... o voi... o voi...»; e la voce concitata del poeta par quella d’un contemporaneo degli apostoli che hanno visto il Signore: la stessa festa, la stessa fede. Poesia alleata dell’uomo, per quel che ha dato alla vita religiosa e civile. Si pensa ancora al Carducci che negl’inni sacri e, più, nella Pentecoste così priva di dogmatismo e di formalismo liturgico, vedeva splendere «i motivi della rivoluzione; la fraternità anzi tutto, e l’egualità umana, e poi anche la libertà intellettuale e civile, altamente sentiti da uno spirito sereno e cristiano, con la temperanza dell’arte italiana».

Al verso 81, su gli a solo scoppia l’esultante coro della seconda parte, l’invocazione dell’umanità allo Spirito:


Noi t’imploriam! Placabile
Spirto, discendi ancora.
Scendi e ricrea, rianima
i cuor nel dubbio estinti,

in uno sgorgo di settenari che si slargano fino alla misura degli esametri. Rivive nell’intimo dell’inno la speranza e la sostanza del Veni, creator Spiritus, / mentes tuorum visita..., la Sequenza aurea attribuita da alcuni a Innocenzo III, da altri ad Ermanno Contratto; l’inno quasi perduto, che non si insegna più, che non si canta più.¹
Il lettore dice che da qui l’inno spicca il suo volo più alto, più libero, con velocità di trapassi, con modernità di linguaggio, nell’ampia visione d’una umanità affratellata nella novità dell’annunzio che cancella le distinzioni sociali e religiose: fedeli e infedeli, ebrei e greci e romani, liberi e schiavi, e ognuno nella sua condizione ne partecipa; l’umile e il violento, l’oppresso e il potente, la sposa e la vergine, il giovane e il vegliardo e il morente, muovendo tutto un mondo che pare già annunziare quello dei Promessi sposi.
Parlando della Pentecoste disse una volta il Manzoni che era quanto di meglio gli era uscito in poesia. Aveva coscienza d’averci dato un capolavoro, in gara con l’arte dei grandi compositori, Verdi, Beethoven...; quei pianissimi e quei fortissimi, quella coralità, quell’irruenza di vita.
(Si racconta che i sacerdoti d’Apollo in Delfi, la sera dei plenilunii estivi invocavano Pindaro alla cena del Dio di cui avevano celebrato i misteri. Anche il Manzoni è diventato il signore degl’inni eterni; e, non foss’altro che per la Pentecoste — ma conosciamo altri miracoli — noi possiamo invocarlo a partecipare ai grandi ministeri di cui ha celebrato le umane verità.)



1. Un lampo di questo fuoco è già nel Cinque maggio, dove parla «del creator suo spirito... ».


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  Vedi anche altri studi di C. Angelini su Alessandro Manzoni