CESARE ANGELINI L’OSTERIA DELLA LUNA PIENA
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 235-240.
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Illustrazione di Francesco Gonin |
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Chi farà la storia delle varie opinioni e giudizi coi quali furono accolti I Promessi Sposi al loro comparire nell’edizione del 1827, farà certo cosa utile e interessante. Comincerà, forse, dall’opinione che il Leopardi espresse da Firenze all’editore milanese Stella, il 23 agosto di quell’anno: «Del romanzo del Manzoni (del quale ho solamente sentito leggere alcune pagine) le dirò in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano molto inferiore all’aspettazione; gli altri, generalmente lo lodano». «Gli altri», come dire le persone di poco gusto. E mi piacerebbe sapere (ma se non ci si mette Marino Parenti, temo che non lo sapremo mai) quali erano le pagine («alcune pagine») che l’hanno portato a quella scarsa opinione del romanzo. Si spiega: nella edizione ventisettana mancava ancora l’incanto e l’aereo riso, dico quella perfezione di lingua e di stile, che sarà raggiunta solo nella definitiva del 1840; nella quale i miglioramenti saranno apportati non solo a un libro ma a tutta la lingua italiana che egli ha nuovamente fondato. Troppe forme ancora stentavano a liberarsi dalle scorie del dialetto, troppe gravezze, da farla apparire una lettura impura all’orecchio di un poeta filologo come il Leopardi. D’altra parte si sa che, proprio in quegli anni, il Manzoni si stupiva come la gente potesse considerare poesia «quei canti troppo raziocinanti» del Recanatese. E si trattava degli Idilli. Poi, lo storico non trascurerà i pareri del Tommaseo e del Giordani, per restare tra noi.
Ma ci furono alcuni, e uomini di illustre cultura (lo Zaiotti a Milano, il Bussedi a Pavia) che, mèssisi a leggere il romanzo, arrivati al capitolo XIV, dove si raccontano i portamenti di Renzo all’Osteria della luna piena, furono per piantar lì la lettura, sdegnati di vedere così avvilita la dignità delle lettere. A tanto possono arrivare i pregiudizi di scuola e d’intolleranza letteraria, da far le menti incapaci d’accogliere le varie forme di bellezza, specialmente se rappresentano la novità.
Quello che un tempo scandolezzava, ora ci edifica; e proprio questo capitolo XIV, col XV che lo continua, ci pare di una importanza particolare, da poterlo considerare un capitolo-chiave. Più degli altri, ci autorizza a parlare della «novità» della prosa manzoniana, raccogliendo il sostegno e il consenso di tutti i trentotto capitoli. E ci vien fatto di ricordare una nostra vecchia persuasione, espressa e ragionata fin dal 1924 nel Dono del Manzoni [C. Angelini, Il dono del Manzoni, Vallecchi, Firenze, 1924, ndr]. Dicevamo che il Manzoni, in un primo tempo dona il popolo all’arte, introducendo nel romanzo il mondo degli umili, a cominciare dai protagonisti; e, in un secondo tempo, per una necessaria adeguazione, dona l’arte al popolo, facendolo parlare con la sua anima e il suo linguaggio. A un mondo di umili, un’espressione umile; e si vuol dire umana, cordiale: la familiarità del linguaggio, la più stupenda ricchezza di uno scrittore.
L’Osteria della luna piena è l’antiaccademia dove il Manzoni entra in una arguta e dissimulata polemica contro il classicismo e la tradizione aulica, ed espone le sue idee romantiche sul rinnovato concetto di poeta e di poesia. E poiché questa sua «poetica» è calata proprio nel bel mezzo della pratica, dico nel pieno di una gagliarda e comunicativa vitalità espressiva, rischia di valere più del Manifesto del Romanticismo, che, undici anni prima, aveva pubblicato il Berchet.
Fin dal primo capitolo, e addirittura dalla Introduzione, il Manzoni, attuando i suoi principii linguo-stilistici, dettati da sue convinzioni morali, viene creando la nuova «dicitura», o «scrittura come il parlare», attraverso le parole, le frasi, la qualità delle immagini; e la continua capitolo per capitolo. Sì che, man mano che le pagine crescono, cresce la novità, si fa imponente, vincente; si afferma la qualità cordiale del nuovo stile, con una evidenza che par proprio giustificarsi nei capitoli concreati XIV e XV.
Renzo, a cui le osterie non sono estranee (in nessun altro romanzo si va all’osteria come nei Promessi Sposi), su indicazione e in compagnia della guida sconosciuta, vista l’insegna di un’osteria, ci entra, con una certa baldanza. Ha fatto un bel discorso in piazza, ha esposto il suo «debol parere» sul modo come dovrebbe esser fatta la giustizia, «ha parlato tanto di cuore», ha dato una mano a salvare il vicario dall’ira della folla; è soddisfatto, contento. Può andare a sedersi in capo alla tavola, a un posto in vista. Fa bene un po’ di panca, dopo essere stato tanto tempo in piedi e dopo tanto parlare. All’oste che chiede: «Cosa comandano quei signori?», nemmeno mostra meraviglia d’esser chiamato signore, lui, uno di campagna; e risponde: «Prima di tutto un buon fiasco di vino sincero, e poi un boccone».
Così, mentre mangia lo stufato che gli ha portato il garzone, col «pane della Provvidenza», raccolto il mattino sotto la Croce di San Dionigi, avvia il discorso con l’oste, con la guida sconosciuta, con gli avventori che giocano al tavolo vicino. Fioriscono le parole e le immagini, ilari, comiche; tutto un fitto e appassionato discorso, che va dal «pane sgraffignato» al «mettere qualche cosa in castello», alla notazione del «sole che va sotto», al vino e alle parole «che continuano ad andare l’uno in giù e l’altre in su»: il fondo idiomatico dialettale, che forma l’incanto della nuova scrittura, lo stile di Renzo. Perché questo è proprio il capitolo di Renzo, tutto di Renzo, che, aiutando il vino e l’insistenza dell’oste, non è mai stato così spontaneo, espansivo, prodigo di sé.
La conversazione tocca il suo punto più alto e stimolante, quando uno dei giocatori esce in quella bella trovata dei «signori che mangian l’oche, e si trovano lì tante penne che qualcosa bisogna che ne facciano». La spiegazione fa ridere tutti, e provoca la singolare esclamazione di Renzo, che scopre un poeta: «To’, è un poeta costui...»; e si scopre poeta: «N’ho una vena anch’io...» (Se il più stesse nel meno, diremmo che questa è una situazione portiana.) Interviene il Manzoni. «Per capire questa baggianata di Renzo, bisogna sapere che presso “il volgo” di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator del Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano che, nei discorsi e nei fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestiere del “volgo” è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato. Perché, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con un cervello balzano?» Cosa ci ha che fare, il Manzoni lo sa bene; e qui, e non qui solo, è tutta una celebrazione del «volgo» e del «volgare»; cioè il cambiamento del concetto di poeta. Il Manzoni quasi di straforo e senza parere, svuota la parola del suo senso tradizionale, classicista, per colmarla di passione e di vita: poeta è, più alla buona, «uno che abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole». La poesia come irrazionale, convinzione del romanticismo. E già il Parini, un altro lombardo, aveva scritto: «orecchio ama pacato — la musa, e mente arguta, e cuor gentile».
All’Osteria della luna piena, nasce dunque una nuova «poetica»? Poetica e, un po' più su, accademia, sono parole che adoperiamo per ridere. Ma certo nasce un nuovo linguaggio, una nuova poesia, che è cosa più importante. Attenti all’altre parole di Renzo («Renzo, il primo uomo della nostra storia...»): «Oggi s’è fatto tutto in volgare». E l’espressione, insistente, può anche far pensare all’antico passaggio dal classico al «volgare», o «lingua del volgo», e diede origine al nostro linguaggio e alla nostra poesia. Sento che il richiamo è solenne, ma sento pure che qualche cosa di vero c’è, e, comunque, la cosa avviene anche se non c’è l’intenzione. «S’è fatto tutto in volgare»; senza latino e senza aulicismi; un servire la lingua in letizia. S’è fondato il nuovo modo di scrivere («lo scrivere come il parlare»), di poetare, di parlare onesto. La scrittura si carica di un nuovo incanto, che porterà alla bellezza suprema dell’ultima pagina del romanzo, l’incontro di Renzo con Lucia. «Vi saluto, come state? disse a occhi bassi, e senza scomporsi. — Sto bene quando vi vedo, rispose il giovine con una frase vecchia, ma che avrebbe inventata lui, in quel momento» Qui è il segreto del vivo dell’espressione manzoniana, il suo incanto perenne: frasi vecchie, parole logore dall’uso quotidiano e di tutti; ma sempre nuove, inventate, trovate, quand’uno le colma della sua passione, di persuasione, di vita. E torna a mente anche il Porta, che ebbe lo stesso senso del reale, la stessa persuasione, applicata proprio alla scrittura, alla lingua: «Sta roba früsta cla par semper noeuva».
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