CESARE ANGELINI MORAVIA E IL MANZONI
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 309-312.
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In un suo Quaderno verde, pubblicato su un giornale milanese, Alberto Moravia ha scritto degli Appunti per un saggio sul Manzoni. Non abbiamo capito se è simpatia o antipatia che l’ha mosso a fare questo discorso. Tra il bene e il male che ne va dicendo, cadono osservazioni strane. Dice, per esempio, che la critica estetica «tende a rendere immobile e quasi a pietrificare il capolavoro manzoniano, e a metterlo fuori del tempo e dello spazio»; sicché «le bellezze del Manzoni sarebbero oggi quali erano ieri e, senza dubbio, quali saranno domani».
E pensare che è stata proprio la critica estetica a far camminare in poche diecine d’anni anche il capolavoro; e la sua bellezza — d’invenzione e di linguaggio — una volta dissigillata, ecco, diffondersi maravigliosamente, come fa la luce nello spazio di luoghi interminati. Insomma, è proprio grazie alla critica estetica che noi oggi leggiamo il Manzoni meglio di un tempo; quando, per dirne una, lettori intelligenti ma schiavi di pregiudizi, giunti al luogo dove si raccontano i comportamenti di Renzo all’osteria, piantavano lì la lettura, indignati dell’avvilimento a cui vedevan ridotte le lettere. Liberandoci da questi e simili e peggiori pregiudizi di contenutismo o di scuola, la critica estetica ci introduce nella intimità dell’opera, ne illumina le pagine, ne aiuta la lettura.
Aggiungeremo che, se c’è un momento in cui l’affermazione del Moravia ci appare meno vera, è questo nostro, così favorevole alla comprensione del romanzo; e proprio in questo favore sta il suo movimento e aumento, cioè il suo continuo rivelarsi.
Moravia parla poi del decadentismo del Manzoni; perché, dice, «le parti migliori del libro, le più belle e le più ispirate, si trovano in due episodi di disfacimento e di corruzione: la monaca di Monza e la peste». Ora, che i due episodi siano tra i più belli, ne siamo sempre stati persuasi, come ne sono i due drammi più alti, l’uno individuale e l’altro sociale. Vedete il modo come il Manzoni ci presenta la monaca: questa strenua analisi dei sentimenti, degli stati d’animo che creano un panorama psicologico ricco e ogni momento nuovo; quel personaggio come paesaggio, sottilmente presentato, da far pensare alla descrizione iniziale del libro, col ramo del lago «tutto a seni e a golfi» e poi «a nuovi golfi e a nuovi seni» e quelle strade, stradette e svolte cui somigliano ora i giri intricati delle passioni descritte in un progredire, in un crescere che raggiunge la profondità labirintica del cuore umano. O la peste: dico la parte romanzata e storica, narrata attraverso la figura di Renzo che la vive, e di Federigo che la domina. Perché anche questo è da dire: i quadri nel Manzoni non sono mai fine a se stessi, come accadrebbe nella pagine di un decadente. Il Manzoni mira a far vedere come l’umanità riesca a trionfare anche dei più grandi mali. Dunque, nessuna traccia di decadentismo. Sta bene che siano fatti di disfacimento e corruzione, come dice Moravia. Ma il decadentismo non è nei fatti, è nell’atteggiamento spirituale del narratore di fronte ai fatti. Ora il Manzoni davanti a tali episodi non è per nulla affascinato né dal gusto del macabro né dal senso del peccato: ne salva la bellezza funerea, e conserva una sanità totale e un equilibrio addirittura classico.
Ma aggiunge Moravia che «le parti meno belle, meno ispirate, sono quelle edificanti». Non sappiamo esattamente a quali parti alluda, né quale valore abbia più la parola «edificanti» applicata al Manzoni dove ogni residuo di proposito contenutistico è bruciato in viva fiamma d’arte. Piuttosto vorremmo domandare se per Moravia conta così poco la presenza di Federigo, e i suoi discorsi con l’Innominato, con don Abbondio, che entusiasmano lettori finissimi; e conta così poco la sua voce, la più alta del romanzo. Per tacer di Lucia e della sua presenza vereconda che, fortificata dalla cognizione del dolore, crea da per tutto quel clima di fiducia, di altezza morale, di continua invenzione, sì che passando da una parte all’altra del libro, non s’avverte nessuno squilibrio, nessun tono mutato, che non sia quello voluto dai suoi registri.
Il Moravia poi si maraviglia che la conversione di cui si parla nei Promessi Sposi — quella dell’Innominato — non sia un elemento autobiografico del Manzoni, non sia cioè una trascrizione romanzesca della sua conversione.
Sappiamo con quanto riguardo vada toccato questo punto difficile, questo bel segreto, sul quale il Manzoni non volle mai aprirsi, e, ci accorgiamo, non s’è aperto nemmeno con Moravia. Ma la conversione dell’Innominato è tutta una vicenda personale, sua. Basta riflettere che la notte dell’Innominato non è una pagina o una creazione della storia, ma una creazione del romanziere che si è giovato della sua esperienza: il modo come avviene, come progredisce e matura; e quel farsi avanti di un lume, di un lume interiore, che lo porta alla conversione finale.
Ma ingenua, per non dir grossolana, è l’accusa che gli fa di «insufficiente creatore di personaggi». E li paragona a marionette docili... Qui Moravia non manca di riguardo al Manzoni, ma a se stesso e al suo illustre ingegno.
Lasciamo stare i grandissimi: Federigo e l’Innominato, padre Cristoforo e don Abbondio e Renzo e Lucia. Ma anche gli altri, e i minori e i minimi, tutti vivi e in ogni momento veri; sempre coerenti e crescenti, e nuovi. Nessuno compare sul palco a recitare; sono tutti nella vita, a soffrire, ad amare, a dir cose belle, a fare del bene. E il lettore, illuso d’essere nella realtà, entra in confidenza con essi, li segue col cuore che batte, e sente quel che passa per il loro cuore. Fisionomie. Anime, per chi è degno di incontrarli.
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