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CESARE ANGELINI

LUCIA

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 267-272.

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Illustrazione di Francesco Gonin


L’unica che potrebbe darle ombra e soggezione tra le donne delle nostre lettere, è Beatrice, la teologhessa. Ma ella è in paradiso tra le coeli coelorumque virtutes, e ciò non ode.
Lucia è con noi, in questo nostro dolce purgatorio, esempio umanissimo di donna, con la sua povera storia di pudori e rossori, di nodi di pianto alla gola e serene fiducie nel Signore; che sono la sua poesia e la vicenda eterna del vivere.
E mi sia lecito ricordare un «fatto personale» con la filandiera di Lecco. Quando nel 1924 uscì da Vallecchi un libretto intitolato Il dono del Manzoni [Cesare Angelini, Il dono del Manzoni, Firenze, Vallecchi, 1924, ndr], un critico della scuola di Benedetto Croce e che allora andava per la maggiore — tal Giuseppe Citanna — in un suo saggio sul Manzoni pubblicato a puntate sulla Critica, introdusse la notizia che il vero innamorato di Lucia non era Renzo ma un altro, e faceva il mio nome. Insomma, secondo l’imprudente Citanna, poco mancava alle «pubblicazioni». Se non che poi Lucia, intimidita dalla grinta di Renzo, lo preferì, se lo sposò e amen.
Non per questo, anche in seguito, appena mi si offriva l’occasione, io smisi di guardare a Lucia e dirne le lodi e ingegnarmi a prendere da lei qualche buona qualità.
Nel romanzo, tutti guardano a Lucia; cosa più che naturale fin che ella resta al paese, tra i suoi pari, gente che fila la seta e coltiva la vigna, e don Abbondio che è il suo curato e padre Cristoforo il suo confessore. La maraviglia è quando, lasciato il paese per sottrarsi alla persecuzione di don Rodrigo che voleva farla sua, Lucia viene a trovarsi alla presenza dei grandi personaggi, diremo tra i pezzi grossi della storia, e finisce per conquistarli con la forza della sua innocenza.
Il primo personaggio in cui s’imbatte è Gertrude, la Monaca di Monza, al cui convento arriva per trovar ricovero, insieme con la madre, su indicazione e raccomandazione di padre Cristoforo. È un incontro sul quale i lettori si fermano poco, per correre verso l’episodio dell’Innominato, al quale è collegato, dice il Momigliano, da un legame assai più che narrativo. Eppure questo incontro ha un suo peso notevole, proprio perché è la prima rivelazione della forza d’attrazione e di bene che Lucia esercita su tale personaggio. Prima tappa d’una strada scomoda ma piena di imprevedute e provvidenziali conseguenze.
Dopo un avvio di colloquio un po’ scontroso per l’intempestivo intervento d’Agnese, Lucia riesce a conquistare l’anima di Gertrude che, natura calda, non tarda a sentire «una certa inclinazione» per lei, un sollievo nel vederla, nel parlarle, nel farle del bene; che vuol dire averne già ricevuto. Dice il Manzoni: «La faceva venir spesso in un suo parlatorio privato e la tratteneva lungamente, compiacendosi della ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento». Si pensa alla stravagante «Signora», abituata a fare alto e basso nel monastero, a esercitare una «superba investigazione» su quanti ella ammetteva alla sua presenza «a chiedere la grazia». Vicina a questa creatura semplice e schietta, con la quale può aprirsi cuore a cuore in un bisogno d’amicizia che non ha provato mai prima, Gertrude si libera dai superbi capricci dell’orgoglio, dal compiaciuto gusto di perversione e di dominio, e s’illumina d’una luce di bontà che le scioglie il dolore antico e le quieta il tormento dei rimorsi. Ogni giorno è una reciproca scoperta di tenera confidenza; al punto da raccontarle una parte (la parte netta) della sua storia, «di ciò che aveva patito per andar lì a patire». Sì che la prima maraviglia sospettosa di Lucia, si cambia in compassione per le maniere della sua benefattrice. «Qualche volta Gertrude s’indispettiva di quel suo star sulle difese, ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza; e tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento guardando Lucia: — A questa fo del bene. Ed era vero, perché, oltre il ricovero, quei discorsi, quelle carezze erano di non poco conforto per Lucia. » Ma vien da chiederci se è maggiore il bene che lei ha fatto a Lucia o quello che ne ha ricevuto e oramai le ha cambiato l’animo e il volto.


E il giorno che Egidio, l’amante segreto, in ossequio al comando dell’Innominato, le propone di sacrificare l’innocente che ha in custodia, Gertrude si sente tutta sconvolta. Dice il Manzoni: «La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara...; e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione». Gertrude è entrata in una nuova coscienza del bene e del male, in una seconda vita; l’espiazione è già incominciata, con l’aiuto della sua protetta. Continua il Manzoni: «La sventurata — e l’epiteto è carico d’una pietà già nota — tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola che le stava sempre aperta davanti»: dire no a Egidio. Gertrude questa forza non l’ha. L’Innominato avrà il coraggio (ma non era neppure coraggio) di mandare al diavolo l’impegno preso con «quell’animale di don Rodrigo»; perché l’Innominato non ha nessuno sopra di sé. Gertrude (che è anche donna) ha Egidio sopra di sé; «l’atroce giovane» che, in caso di rifiuto, può vendicarsi rivelando tutto e accusandola dell’assassinio della conversa. È il momento più drammatico e tragico per la povera Gertrude.
Ma le sue afflizioni ed effusioni («La mia povera Lucia...») sono sincere; tanto che Lucia è commossa dell’afflizione di lei. E della sua sincerità è prova il richiamo che fa a Lucia quando la vede partire per il luogo dove le ha detto di andare. «Quando Gertrude che dalla grata seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca e disse: — Sentite, Lucia...» Nel contrasto penosissimo, la chiama indietro, obbedendo al cuore che vorrebbe trattenerla. Ma il cuore, che guazzabuglio, il cuore! E aggiunge subito: «tornate presto». Dove non è certo ombra di finzione né, tanto meno, di scherno, come è parso a qualcuno, ma un sincero augurio fatto in una disperata speranza.
In questo momento, Gertrude potrebbe anche apparirci un inconsapevole strumento di quel segreto provvidenziale che nell’economia del romanzo dispone del rapimento di Lucia e del suo arrivo al castello, per aiutare — quasi spia di Dio — la conversione dell’Innominato; l’altro grande che la presenza di Lucia piegherà più decisamente.
Mi torna a mente il Tommaseo e una sua opinione stravagante. Dice che Renzo e Lucia nel romanzo entrano di straforo, di sbieco; dice che la loro presenza non è che un appicco a legare i grandi fatti storici. E il Tommaseo era un uomo d’ingegno. Ma ricordo anche la risposta dello Zòttoli al Tommaseo: che la cosa principale nei Promessi sposi sono proprio i promessi sposi, loro due, Renzo e Lucia, e soprattutto Lucia, intorno alla quale tutto il mondo del romanzo gira come attorno al suo cardine.
Come dire che Lucia è l’unità poetica del romanzo; nel quale, non lei serve i potenti, ma i potenti servono lei. E in questo è la redenzione della loro condizione di privilegiati.


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