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CESARE ANGELINI

LA CONVERSIONE DELL’INNOMINATO

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 249-254.

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Illustrazione di Francesco Gonin


«Oh la notte! no, no la notte!» È il grido dell’Innominato che lacera rabbiosamente la notte della famosa crisi; allorché, pensando di staccarsi al tristo passato, dalla passione che gli riempie tutta la vita, si trova davanti al vuoto, alla «solitudine tremenda», quasi disoccupato; e, come se il tempo franasse, si chiede con una furia di precipitose domande: «E poi, che farò domani? il resto della giornata? che farò doman l’altro? E la notte? la notte che tornerà tra dodici ore? Oh la notte! no, no, la notte! E ricaduto nel voto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti».
Chi racconta la conversione dell’Innominato, solitamente si rifà a questa notte, descritta sulle fine del capitolo XXI; la notte che è «sua», la notte non dormita, l’interminabile notte, la malanotte, che non si può distaccare dall’arrivo di Lucia al castello; la notte della disperazione, la notte in cui qualcuno con suggestione biblica gli ha detto: «Tu non dormirai». E, sull’albeggiare, uno scampanio a festa, e gente passare allegra giù nella valle, e avviarsi tutti verso un’unica meta, il paese dove il giorno prima era arrivato il Cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, e ci sarebbe stato tutto quel giorno. La risoluzione di andar «a vedere quell’uomo» coi propri occhi, l’incontro e la drammatica conversione con lui, che gl’insegnerà come colmare quel vuoto: «tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere». Che è un arrivare all’ultima perfezione della conversione; e noi ne cerchiamo il principio.
Paride Zaiotti, letterato del primo Ottocento, con animo più astioso che intelligente si lamentava che il Manzoni avesse tolto al Cardinale il merito della conversione. Diceva: «Se l’Innominato, come racconta il Rivola suo primo biografo, si convertì dopo il colloquio col Cardinal Borromeo, perché togliere il merito al Cardinale per darlo a Lucia, ai suoi occhi, alla sua voce soave, alle sue parole, al voto?» Che è un voler saperla più lunga del Manzoni.
Con buona pace dello Zaiotti, il merito forse non è né del Cardinale né di Lucia, perché (per quanto in questo genere di cose ci è permesso di investigare) l’Innominato «non è stato convertito» ma «si è convertito», convertito di suo, coerentemente con la sua indole autonoma che il Manzoni ha suggestivamente colorita. Intanto il Rivola citato dallo Zaiotti (e avrebbe potuto citare anche il Ripamonti, storico dell’epoca) parla dell’Innominato figura storica, cioè di quel Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Ghiaradadda, che ebbe il famoso colloquio col Cardinale. Ma noi siamo davanti all’Innominato del romanzo, che aggiunge nuova tela, nuovo spazio, alla figura storica, lavorata secondo i diritti del romanziere e la libertà dell’arte, e presentata in novità di scene e di situazioni che non sono esattamente nella storia. (Si pensi anche alle trasmutazioni che la figura storica ha subìto, passando dal Conte del Sagrado della prima stesura, a quella più detersa e compiuta della definitiva.)
Ora dunque ci domandiamo; in che punto del romanzo avviene la conversione dell’Innominato? Certo prima di arrivare alla presenza del Cardinale che lo aiuterà, se mai, a riconoscere la sua conversione. All’Innominato che esclama: «Dio! Dio! Dio! se lo vedessi! se lo sentissi! Dov’è questo Dio?», il Cardinale risponde: «E chi più di voi l’ha vicino? Non lo sentite in cuore che vi agita?». Quasi le parole di Pascal: «Tu non mi cercheresti, se già non mi avessi trovato». Il Cardinale è la rivelazione della conversione; rappresentante dei valori religiosi e dei poteri ecclesiastici, e lì per sancire esternamente quello che Dio ha operato in lui: Dio, o lo stesso Innominato, che tanto ha sofferto per liberarsi dalla prigione in cui lo teneva il delitto. Comunque, è lì per ricevere la legittimità di quanto è avvenuto, e a guarire un passato.
Ma la conversione è già avvenuta anche prima dell’incontro con Lucia, prima di sentire quelle sue parole che, risuonandogli dentro a lungo, portano nuovo lievito nella sua coscienza: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia»: e proprio in esse, il Momigliano vede il centro della conversione, la chiave che ne apre la porta. Certo non è possibile negare l’influenza pressoché decisiva di Lucia sul compimento della conversione: la sua presenza, la preghiera, il voto. Come dire che Lucia, presa, prende il suo feroce vincitore. Giuseppe Casella in un suo breve e succosissimo saggio (Le insonni tenebre manzoniane in Omaggio alle lettere, Ed. Collegio Borromeo, 1960, Pavia) dice cose molto suggestive e acute su questo particolare momento, spiegandoci fino a che punto «Lucia attraversa il destino di lui che così assurdamente e provvidenzialmente aveva attraversato il destino di lei».
Però ancora prima del rapimento, prima che Lucia arrivi al castello, l’Innominato è già minato e scosso. Ricordate con che inquietudine dalla finestra del castello egli guarda giù nella valle la carrozza che deve portargli Lucia. Non è l’eccitazione dell’uomo passionale che aspetta la donna, preda per il capriccio della sua notte; e nemmeno è l’inquietudine orgogliosa del potente che, nel successo dei bravi, vede il capolavoro della sua prepotenza. La sua è un’ansia diversamente turbata, fatta di rimorso, di ribellione, di rabbiosa pietà. Avrebbe perfino voluto non riceverla e mandarla direttamente a don Rodrigo per il quale s’era impegnato a rapirla dal monastero, senza sapere come ciò sia avvenuto. Inquietudine meglio espressa dal Manzoni quando dice che l’Innominato «si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso»; che è poi la sua stessa anima che cammina per uscire dalla torre d’avorio della sua orgogliosa individualità. La crisi, è vero, scoppia quando Lucia è al castello e il Cardinale è in visita nel paese vicino: ma queste sono le attese coincidenze, le provvidenziali condizioni allo scoppio della crisi, ormai al limite.

Il punto o il momento in cui avviene la conversione è, dunque, più indietro, ancor prima della visita di don Rodrigo e dell’impegno preso con lui; risale a quando l’Innominato méssosi avanti ai propri delitti, ne risente tutto l’orrore. «Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commetteva una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe; era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza, vinta e poi scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire.» In questa ripugnanza è il sorgere d’uno stato d’animo nuovo, un primo lume destinato a crescere. E più cresce nei momenti in cui il tormentato esaminatore di se stesso ripassa in rassegna, con l’anima impaurita, tutte le sue scelleratezze, e vede che fan corpo con lui: «Erano tutte sue, erano lui».
Ma il Tommaseo dice che l’Innominato si converte troppo rabbiosamente, e accusa il Manzoni di non avercene descritte le tappe. Lettore spesso ringhioso dei Promessi Sposi, il valentuomo non poteva dir cosa più balorda: non s’è accorto del finissimo studio d’anima che il Manzoni ci ha dato, descrivendoci le smanie e i moti tanto instabili del cuore del suo personaggio; nel quale la stesa esperienza del peccato è un modo per entrare a conoscere il cuore dell’uomo e aiuta un più perfetto conoscimento dell’animo. La conversione è un temporale che comincia a brontolare fin dalla fine del capitolo XIX e ha il suo risolvimento nel capitolo XXIII. Dice dunque che l’Innominato non si converte per una fulgurazione ma per un processo di logica lenta. Lo sgretolamento della sua coscienza di malvagio era già cominciata da un pezzo («Già da tempo...»). Ha ragione lo Zòttoli: il Manzoni è il poeta di una logica storicizzata dell’animo umano e dei suoi moti; e questa, è, forse, la pagina in cui l’autore è più sostanzialmente impegnato a render conto a se stesso d’una esperienza personale, a darci un prezioso frammento autobiografico. Del resto, anche «l’altra» conversione del romanzo, quella di padre Cristoforo, non è una decisione improvvisa né un colpo di grazia, ma una cosa pensata, meditata: «Più d’una volta gli era saltato la fantasia di farsi frate...»; l’uccisione del superbo cavaliere per le vie della sua città, ne determinerà il proposito.
A questo punto, vien spontanea la domanda: nell’idea del Manzoni, la conversione dell’Innominato fu un miracolo o soltanto l’esito naturale d’un processo psicologico, tanto il poeta ci ha tenuto a colorire il carattere del personaggio? La risposta ci porterebbe dalla «descrizione» della conversione, sulla quale ci siamo un poco indugiati, alla «defnizione» dell’avvenimento mirabile sul quale torneremo.


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