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CESARE ANGELINI

IL COLLEGA DON ABBONDIO

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 279-287.

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Illustrazione di Francesco Gonin


C’è poco da dire: volontà del cielo o circostanze della vita ci hanno portati a essere colleghi, habitu et sermone; colleghi naturalmente nel basso clero, nel clero proletario, destinati a «tirar la carretta» fino alla fine.
E se ora dirò bene di lui, non sarà soltanto per un giusto dovere di colleganza, ma perché, come collega, ho la presunzione di intenderne meglio i sentimenti, i comportamenti e gli umori, spesso, bisogna dirlo subito, stranamente isterici e stizzosi.
Don Abbondio è il personaggio dei Promessi Sposi più maltrattato dai critici; non c’è epiteto ingiurioso che non gli abbiano lanciato contro: vile, egoista, irresponsabile, piantagrane, senza coscienza, e peggio: dimenticando che egli è forse la più tragica creazione del romanzo, con quel suo ordine mentale e morale in cui l’ha concepito e voluto l’autore, e che è inutile tentar di cambiare.
Temo che nel giudizio avverso e irriverente cominci a giocare l’impressione che il lettore riceve fin dal principio, quando viene a sapere che «egli aveva di buon grado obbedito ai parenti che lo vollero prete». Dunque, prete senza vocazione, un’ambizione sbagliata, e tutto quello che fa e dice, risente del difetto d’origine. Un prete fallito.
Ora il Manzoni non dice che don Abbondio abbia intrapresa la carriera ecclesiastica contro voglia, come, poniamo, la Monaca di Monza; dice che «ubbidì di buon grado», senza reagire; e, proprio in questa dolce obbedienza, è lecito scoprire il segno d’una segreta volontà superiore. Meglio, dunque, non insistere sul fatto della vocazione; la quale poi, come la conversione, esattamente non si sa dir cosa sia; non certo una fulgurazione improvvisa né un colloquio col cielo aperto, ma piuttosto una disposizione dell’animo, una ispirazione comunicata per mezzo di segni o di persone, di cui le più qualificate sono proprio i parenti.

Per don Abbondio (il Manzoni che dà un nome e un cognome a un qualunque Bortolo Castagneri, ce lo indica solo col nome) per don Abbondio occorre riportarci a quel suo Seicento, anzi, al secondo Cinquecento, perché, se nel 1628, anno del nostro primo incontro con lui, passava già la sessantina, doveva aver fatto i latinucci in Seminario verso il 1560, clima di Concilio tridentino e di faticosa ripresa da un gran disordine morale anche in campo ecclesiastico; quando anche una onesta famiglia «non nobile, non ricca» poteva pensare di avviare un figliuolo al sacerdozio.
Del resto, è accaduto proprio in quel suo secolo che più d’un figlio di «nobilissima e ricchissima» famiglia fosse, per irrevocabile volontà dei parenti e per crudeltà dei costumi del tempo, avviato a questa carriera, giungendo fino ai gradi più alti, magari alla porpora, magari (aiutando l’ambiente e i privilegi) in vista della santità; e i piissimi biografi, giù, a lodare le circostanze esterne che ce l’avevano avviato. Tant’è vero che la vocazione è cosa che si scopre dopo, più tardi, quand’è stata lungamente preparata nella coscienza.
Anche il nostro don Abbondio, quando lo incontriamo tornare «bel bello dalla sua passeggiata verso casa, la sera del giorno 7 novembre 1628», è il più bravo curato della terra, e intendete pure della sua terra, affezionato alla sua «cura». Ligio all’adempimento dei suoi doveri sacerdotali, lo scopriamo proprio nella fedeltà, sia pure abitudinaria, a quello di dire tranquillamente il suo uffizio. Buono e disposto a fare del bene, aiuta i parrocchiani anche con piccoli prestiti; ricordate le venticinque berlinghe prestate a Tonio.
È quel «brutto incontro» coi bravi di don Rodrigo che gli guasta la tranquillità e gli fa perdere la testa, o, meglio, ne rivela scandalosamente l’aspetto deteriore: quello d’esser nato timido, pauroso per definizione, fino alla viltà. Don Abbondio non avrebbe mai fatto del male a nessuno; e il male che ora fa a Renzo e a Lucia, rifiutandosi di celebrare il matrimonio, non è lui che lo fa; altri glielo fanno fare, mettendolo d’improvviso in una situazione che è più facile descrivere che superare, e che certo non si supera condannandolo, quasi che noi, in quella situazione, fossimo capaci di meglio.
Perché, sta bene tener presenti i guai di Renzo e di Lucia, ma quei guai sono, prima ancora, di don Abbondio; con la differenza che, mentre a Renzo aguzzano l’ingegno e il coraggio e a Lucia accrescono la fiducia in Dio, in lui esasperano la paura, tramutandola in spavento, fino a farne un povero automa. Questo, l’ha capito anche Renzo che, dopo le prime legittime sfuriate, appena è riuscito a cavargli di bocca il nome di don Rodrigo, non se la prende più con lui ma col malvagio che l’ha messo in quell’impiccio.
Lo stesso padre Cristoforo, saputa la cosa dalle due donne, non fa nessuna pressione sul curato ma, rendendosi conto in quale aria condizionata vive il pover’uomo, affronta direttamente don Rodrigo, e gli dirà che «cert’uomini di mal affare, mettendo avanti il suo riverito nome per fa paura a un povero curato...». Ne prende, dunque, le difese.
C’è, è vero, il parere di Perpetua: «Informare il Cardinale Arcivescovo con una bella lettera»; un parere che don Abbondio ricorderà anche più tardi. Ma, coi mezzi di comunicazione d’allora, Dio sa dopo quanti giorni «la bella lettera» sarebbe arrivata alla Curia di Milano, e il matrimonio era il giorno dopo l’incontro coi bravi: «Lei ha intenzione di maritare domani...» aveva intimato uno dei due.

Sappiamo cosa ne pensa il Cardinale Arcivescovo quando, messo al corrente della dolorosa vicenda, chiamerà don Abbondio al famoso colloquio, richiamandolo ai doveri del suo ministero «comunque vi ci siate messo». E noi, mèssici dalla parte del collega, non vorremmo tuttavia mancar di riguardo al superiore; come forse ha fatto Papini chiamando il discorso del Cardinale «una impennata di umiltà da definire con la parola che il Cardinal d’Este usò a proposito dell’Orlando Furioso». Anche il Momigliano somigliò parte del colloquio a una gara. «Tanto più — aggiunge — che, contro l’intenzione del Cardinale, il confronto finisce col non esser per lui una prova d’umiltà; perché egli non può ignorare che esso si concluderebbe in suo favore, come proclama esclamativamente don Abbondio: “Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?”. »
Ma forse era superfluo ricordare l’opinione dei due letterati, se lo stesso Cardinale, a un certo punto del colloquio, lascia capire che il povero curato merita le attenuanti. Quando don Abbondio dice: «Gli è perché le ho viste io quelle facce. Vossignoria parla bene ma bisognerebbe esser nei panni di un povero prete, e essersi trovato al punto»; il Cardinale si sente disarmato, per il fatto ch’egli vive lontano dai pasticci in cui l’altro si trova. E, mutando la gravità autorevole e correttrice in una gravità compunta e pensierosa, trova accenti di toccante umiltà: «Pur troppo, disse Federigo, tale è la misera e terribile nostra condizione... Dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiamo fatto in casi somiglianti».
E un giorno che il caso di don Abbondio fu portato in tribunale, trovò un difensore in un avvocato che era, per di più, professore di Diritto ecclesiastico all’Università di Roma, abituato a portare le cose su un piano di concreta realtà. Disse dunque l’avvocato Carlo Alberto Iemolo: — «L’argomento di don Abbondio — Le ho viste io quelle facce... — non mi è parso mai senza peso. Per quanto poco eroico, è l’eterno argomento dei deboli che non trovano vantaggio nell’essere eroici; e vale certo più dell’eroismo verbale dei predicatori, e forse quanto il coraggio di chi può trarne lustro».
Nei trentotto capitoli in cui si svolgono le vicende del Romanzo, don Abbondio lo incontriamo tante volte e in situazioni diverse ma sempre con l’animo gretto di chi rosicchia i suoi giorni tra paure e sospetti. Ne sentiamo le parole troppo spesso imprudenti, sconsiderate; ne vediamo i comportamenti urtanti, irritanti, odiosi; da parere talvolta comportamenti e parole di uno che ha persa la sensibilità del dovere e della colpa.
Ma vedetelo al tempo del disgelo; quando, morto don Rodrigo, don Abbondio esce dall’incubo e dallo spavento che condizionava la sua vita e ritrova se stesso, o, insomma, il meglio di se stesso: ritrova la sua vocazione di modesto curato d’una piccola cura, e i parrocchiani, i vivi e i morti, tornano tutti a essere i suoi «figliuoli». Pur nella sua mediocrità, don Abbondio è un altro uomo. A dare più spazio e più immaginazione al suo nuovo respiro, arrivano anche i saluti del Cardinale, e glieli porta il marchese successore di don Rodrigo: «Vengo a portarle i saluti del Cardinale Arcivescovo».
E Renzo e Lucia e Agnese cosa ne pensano ora? Lasciamo che ce lo dica lo stesso autore. «Quelle buone creature avevan sempre conservato un attaccamento rispettoso per il loro curato; e questi, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Sono quei benedetti affari che imbrogliano gli affetti.»
Parole che paiono una patetica riabilitazione di don Abbondio, e quasi una voglia, da parte dell’autore, di far dimenticare le tante frecciate che gli ha lanciate, che doveva lanciargli, per farne quel personaggio mirabile che intendeva di farne. E, nello stesso tempo, sono un invito a voler essere riguardosi nell’accusarlo, nel condannarlo; che si tenterebbe inutilmente di nascondere quel tanto di don Abbondio che — sudditi o superiori — è in ciascuno di noi.


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