CESARE ANGELINI MANZONI E LA CRITICA
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 319-325.
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Lanfranco Caretti nel presentare questa antologia della critica manzoniana (Manzoni e la critica, ed. Laterza, pp. 319, L. 1700) ha l’aria di scusarsi d’avere «antologizzato» anche se stesso «adoperando sue parole precedenti per costituire le note introduttive e di primo orientamento critico che introducono ciascuna delle tre sezioni della prima parte del libro», che è poi quella che più prende e più conta: il noviziato poetico (1801-1809), la grande lirica e il teatro (1810-1822), il romanzo e il suo maturarsi attraverso le tre successive stesure (1821-1840). In verità, la discreta presenza dei suoi corsivi ha il peso di un sapiente arbitraggio oltre che d’un ponte tra l’una e l’altra sezione, formando tutt’insieme uno dei capitoli più illuminanti del volume.
Il quale, dunque, è diviso in due parti: la prima raccoglie i giudizi dei critici in senso stretto, diremmo gli addetti al lavoro; l’altra, i giudizi degli scrittori, come dire i colleghi di lavoro. (Distinzione fragile e di pura suggestione, se tra gli scrittori, cioè tra quelli che non fanno opera di critica, vediamo quell’Emilio Cecchi che, scrittore lo è certamente, e scrittore grande, ma la cui lunga carriera fu proprio quella del saggista di vocazione: forse l’ultimo di una particolare stagione di critica che, incominciata verso il 1908 col Borgese e col Serra, magari sotto i segni del Croce, parve chiudersi con la sua recente scomparsa.) Ora, contando i critici che sono ventitré, più gli scrittori che sono diciannove, ne vien fuori un vistoso e mai visto schieramento di testimonianze da formare una autorevole linea critica dell’opera manzoniana, mentre si risolve in un omaggio al poeta grazie al quale l’Italia moderna è riuscita ad avere una grande letteratura.
Su tutti, si alza il De Sanctis coi suoi grandi capitoli di fondatore della critica manzoniana: Il Cristianesimo degli inni e il Realismo manzoniano, nei quali sostiene che la base ideale degli inni è sostanzialmente democratica, «è l’idea del secolo evangelizzata». Verità anche più potentemente espressa nel romanzo dove il cristianesimo è ricondotto alla sua idealità armonizzata con lo spirito moderno. Cosi il De Sanctis individuava i grandi temi manzoniani, via via ripresi da quelli venuti dopo di lui per le impostazioni di fondo dei loro scritti critici.
Non parve giovarsene lo stesso Carducci? Al quale, dopo la leggenda d’una sua avversione giovanile al Manzoni, bastò entrare in Lombardia e spingersi fino a Lecco, per sentire il volo dell’aquila lombarda e dichiarare che «negli inni, così schivi di dogmatica, vedeva risplendere i principi della rivoluzione»; dolendosi, lui che amava la gran poesia in versi, che il Manzoni «giunto alla maggior potenza della sua facoltà poetica coi cori dell’Adelchi e con la Pentecoste, ristesse»; ma consolandosi che poi, vòltosi alla prosa del romanzo, «rinnovasse la coscienza letteraria e civile di nostra gente con la verità che, intuita in tutti i suoi aspetti, diveniva per se stessa idealità».
Più spicco, forse, meritava il Croce, che, proprio attraverso a certe sue contestazioni poste come limite dell’arte manzoniana, ne aiutò il chiarimento di molti problemi, visti in prospettive e aspetti nuovi. Col suo criterio di «poesia e non poesia», trova che le liriche e l’Adelchi rappresentano veramente la poesia del Manzoni per il libero moto che vi scorre delle passioni, e quindi per un’autentica vibrazione poetica; mentre nel romanzo si inizia — dice — il periodo della riflessione morale e della prosa a danno della fantasia. Ne deriva che il carattere del romanzo, più che poetico è oratorio e di propaganda, rispondendo a un proposito etico che frena e mortifica la poesia. Dell’equivoco si rese conto lo stesso Croce nei suoi ultimi tempi, confessando di trovare nel romanzo qualcosa di più di un’opera oratoria: un’opera di alta poesia.
L’equivoco continuò negli scolari; nel Russo, per esempio, che torna a chiedersi: «Pöeta an orator?». E, da buon scolaro, calcò la mano, e mise sotto accusa non soltanto il romanzo ma anche la lirica, in ogni sua parte, trovandovi, con vicenda assidua, l’alternativa di momenti lirici, di momenti riflessivi e momenti di parenetica cattolica, che è proprio uno spaccare il capello in tre. Conclude tuttavia che se questi tre momenti raramente si fondano nelle liriche dov’è piuttosto una poesia episodica o antologica, nel romanzo, a dispetto dei presupposti morali o oratori, l’atteggiamento fondamentale è quello poetico, creandosi un rapporto armonico dei tre toni, una raggiunta unità. E’ da dire che questa invenzione dell’oratoria in Manzoni, è caduta oramai con la scomparsa dei suoi sostenitori, sgonfiandosi come un fantoccio polemico.
Se il Croce e i suoi hanno letto il Manzoni portandovi qualche diffidenza, per i loro pregiudizi estetici e morali, altri lo hanno letto con una più umile disposizione di partecipazione e di consenso, avvicinandosi meglio alla sua verità: il Momigliano. Nessuno ci ha insegnato a leggerlo meglio di questo probo israelita, e a capirne l’anima e l’arte e il profondo senso cristiano; sicché il suo resta un commento perpetuo alle liriche, ai drammi, al romanzo che egli intende «come un poema». E trova la ragione della sua armonia («Dio gli ha dato un po’ della sua armonia») nella fede, la quale «è la chiave che ha aperto alla fantasia del Manzoni le porte del mondo e gliel’ha spiegato dinanzi in una chiarità contemplativa che nessun altro poeta nostro ha conosciuto». E dice anche: «Nel romanzo, le Osservazioni sono diventate creature, un mondo vivo e luminoso».
È la finissima scoperta che svilupperà, più tardi, il De Robertis, quando nelle Osservazioni (sulla morale cattolica) sentirà già di lontano la voce di Federigo, o la verità che si fa creatura viva. Ascoltatore attentissimo di poesia, il De Robertis arriva in tempo a fare il bilancio di un lungo lavoro, di un’epoca; sopra tutto per quella sua capacità dì ascoltare e assaporare i valori verbali e gli echi e le voci segrete che si alzano dalle pagine, non senza un effetto di suggestione. E, in fatto dì lingua, fu il primo a segnalare l’uso che il Manzoni ha fatto del Vocabolario milanese-toscano del Cherubini, o la prima sciacquata dei panni in Arno; magari per farci concludere che, in fondo, era meglio l’Adda che l’Arno.
Finissime cose dice anche il Cecchi, parlando della elaborazione del romanzo, cioè «percorrendo le grandi tappe attraverso le quali raggiunge la sua ultima perfezione il più bel romanzo che sia mai stato scritto, e la formidabile conquista poetica». E pagine sostanziose scrive il Bacchelli sullo «sliricamento» (abbandono del verso, ripudio della lingua classica e poetica, con la creazione di un linguaggio nuovo, il parlato) e sulla «diseroicizzazione» o mortificazione dell’eroico, di ogni eroico, che non sia quello della Fede, ragione e gloria della sua poesia suprema.
In questa linea di ammirazione consapevole dell’arte manzoniana e del riconoscimento che essa culmina nella rappresentazione del sentimento religioso, piace trovare anche il Sapegno che, in pagine sulla novità del Manzoni, afferma che il romanzo «è una grande opera di poesia proprio in virtù dei suoi presupposti morali che hanno dato fastidio a più d’uno». E aggiunge: «Proprio per il tramite della conversione e della adesione al cattolicismo, l’ideale morale del giovane Manzoni si riempie di un contenuto vero e acquista una forza espansiva, riconoscendosi nella faticata saggezza e nella secolare esperienza degli umili, e, inversamente, il principio egualitario cristiano per la prima volta scende con lui dal cielo sulla terra e diventa criterio di interpretazione e discriminazione delle vicende storiche e degli atteggiamenti umani».
Coi critici o lettori del poeta per amore di poesia, si mescolano, negativi e illegittimi, i «progressisti» che nella lettura del poeta portano i loro umori infelici e le loro passioni di parte e di partito. Gramsci, per esempio; che parlando degli umili nei Promessi sposi (fra Galdino, il sarto, Renzo e la stessa Lucia) dice che il Manzoni li presenta «in maniera sprezzante e ripugnante»; dice che «i popolani per il Manzoni non hanno vita interiore né personalità morale, ma sono animali, e il Manzoni è benevolo verso di loro della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali ecc.». Opinioni imprudenti e ingiuriose che maravigliano in un uomo d’ingegno come il Gramsci, che possono nascere quando uno legge il Manzoni pensando a Marx.
Della stessa parrocchia è il Moravia, viziato delle stesse ideologie, rispettabili nella vita, ma assurde quando si prendono come criterio di giudizio in sede letteraria. Lette le sue pagine (accuse di decadenza, di oratoria, di propaganda, di presenza ossessiva della religione) non si sa da dove incominciare per ribatterle, tanto sono poi contraddittorie. Ma siamo grati all’antologia che le fa subito seguire da quelle ariose e divertite del Gadda; il quale, col suo sano senso milanese e manzoniano, s’incarica di smontarle tutte, a una a una, e gli oppone «ciò che incanta in quel libro, e incanta massimamente un lombardo».
Nel nostro elenco, ci siamo fermati particolarmente sui nomi che nell’antologia sono presenti con saggi o trattazioni di problemi o esperienze fondamentali che più direttamente aiutano la formazione della critica manzoniana e, coi loro risultati, ne segnano e determinano il progresso.
Ma altri sono presenti con saggi e contributi tutt’altro che secondari, anche se parziali e di aspetti minori. Il Baldini, per esempio, a cui l’epilogo del romanzo pare una cosa a se stante, quasi un passaggio dal romanzo storico alla novella borghigiana. O il Contini, che nel Cànone della Messa rintraccia l’onomastica manzoniana con pia e argutissima sagacia. Il Raimondi, che negli inni sacri vede una svolta capitale nella storia del Manzoni, dov’è in gioco tutto il suo futuro di romantico. Il Migliorini, che trova la grande innovazione manzoniana della lingua nel trasformare una disputa di letterati in un problema civile. Il Terracini, che penetrando nel mondo lessicale del Manzoni, cerca «le parole umane e fraterne».
E chiudiamo con uno stimolante avvertimento del De Sanctis, che par raccogliere il senso del nostro discorso: «Ora ci siamo risvegliati e cominciamo una nuova storia; e la pietra miliare della nostra nuova storia è questo romanzo, dove risuscita con tanta potenza il senso del reale e della vita».
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