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CESARE ANGELINI

CON RENZO E CON LUCIA
(E CON GLI ALTRI)

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 135-149.

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Illustrazione di Francesco Gonin


Il romanzo è tutto abitato da gente viva, che vi alita in viso. A cominciare da Renzo, «il primo uomo» della nostra storia. Vi irrompe dalle prime pagine con «la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama» e vi resta vivo fino alla fine; vincendo guai, superando tribolazioni, soverchierie, sempre fisso nella sua idea: avere Lucia, farla sua («Il cuore in pace io non lo metterò mai.») Nei momenti più smaniosi, basta il nome di lei a salvarlo. «E Lucia? Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo v’entrarono in folla». Anche lontano, in esilio, a compensarlo di ogni patimento, gli basta il ricordo di quella «treccia nera» o la visione della «casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro».
Ha voglia don Abbondio chiamarlo «ragazzone» «ragazzaccio» «giovanotto ignorante» «perduto dietro quella Lucia, innamorato come...»: e don Rodrigo a dirlo «un tanghero»; e donna Prassede a chiamarlo «un poco di buono» «un sedizioso» «uno scapestrato» «uno scampaforche» «un rompicollo»; Renzo è, viceversa, un giovine assestato, positivo, massaio, e sa bene il suo mestiere di «filatore di seta». Dice all’Azzeccagarbugli: «Domandi pure a tutto il mio comune, sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia». Ricco di coraggio e di cuore, intraprendente e acuto («Le tribolazioni aguzzano il cervello...») sa amare e pazientare, fantasticare e lavorare e pregare e odiare e perdonare. Renzo («uno di campagna») rappresenta il popolo, in cui il Manzoni crede, con le sue risorse di finezza religiosa, di sensibilità morale, coi suoi valori di umiltà e rassegnazione, di lavoro, di sacrificio, di fiducia che scorrono per ogni pagina del libro. Oso dire che ogni lombardo, massime se campagnolo, in Renzo può ritrovare aria di parentela con quei di casa sua, della sua famiglia, del suo paese. Può ritrovare se stesso, se non ha sbagliato vocazione e non ha torta la sua indole al male.
Renzo ha idee chiare, sull’amore, sul patimento, sulla giustizia, (ne è ossessionato: «A questo mondo c’è giustizia finalmente!»), sulla Provvidenza, sui poveri, sui ricchi; e sa dirle chiaramente a tutti: a don Abbondio («Ma tocca proprio ai preti a trattar male coi poveri?»); all’Azzeccagarbugli («un buon galantuomo... uno che aiuta veramente i poverelli»); alla folla tumultuante («Vergogna! vogliamo noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano?»). Pacifico e alieno dal sangue, schietto, nemico d’ogni insidia, in arringhe e colloqui Renzo è la voce del buon senso. Lo incontriamo sempre in una pienezza di gesti fini, di atti generosi: cerchi di compensare il barcaiolo che l’ha passato all’altra riva, o il barocciaio che l’ha portato fino a Monza; paghi la cena a Tonio e a Gervaso, testimoni del matrimonio di sorpresa, o offra da bere allo spadaio della Luna piena («L’avevo riempito per quel galantuomo; pieno raso, proprio da amico»); porga i due pani alla povera donna dimenticata coi suoi innocenti nella casa di via San Marco, o dia una mano, anzi «le poderose spalle», a Ferrer perché si metta in salvo, è sempre un senso di giustizia, di carità, di naturale bontà che lo muove. Renzo è sempre nel lume di un’opera buona. Umile davanti all’avvocato («Vorrei sapere da lei che ha studiato...»), commosso davanti alla donna che «Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci», contristato innanzi alla vigna abbandonata («Povera vigna»), tenero con l’amico che gli offre ospitalità dopo tante sventure («E la c’è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio...»); ameno quando parla di sé («Non sono un signorino avvezzo a star nel cotone... Qualcosa alla buona da mettere in castello... Un letto alla buona; basta che i lenzuoli sian di bucato, perché son povero figliuolo ma avvezzo alla pulizia»); malandrino innanzi a un fiasco che guarda con «due occhietti che scintillan più che mai, ora s’eclissano, come due lucciole»; imbarazzato e perduto davanti a «carta, penna e calamaio»; lagrimoso davanti ai malati del Lazzaretto («un folto, un selciato di teste» «come un ondeggiamento»); incantato a «vagheggiare la decorosa vecchiezza di Ferrer», Renzo è, in ogni momento, vivo. Subisce il fascino del paese, dell’acqua, dei monti, del cielo: si può sorprenderlo «ritto sulla soglia dell’uscio, con la testa per aria, guardare con un misto di tenerezza e d’accoramento l’aurora del suo paese»; o, nella sodaglia, durante la fuga, pronto ad «arrampicarsi sur una pianta e star lì ad aspettar l’aurora... come le passere». O fermo a guardar l’acqua dell’Adda: e la sente come umana che, l’averla trovata «fu come il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore». Diventa poeta se rivede, dopo tante ansie, il suo paese. «Il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì a quella vista, non si potrebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non dico che quei monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua».
Intorno a lui ci sono valori nettamente evangelici: è l’innocente che paga per tutti; è l’uomo più giusto e il più perseguitato dalla giustizia, da quel complesso di cose e persone che a questo mondo si chiama giustizia. L’Azzeccagarbugli lo scambia per un «bravo»; don Abbondio lo considera un «oppressore» sia nell’irruzione ch’egli fa in canonica dopo il colloquio con Perpetua su la soglia dell’orto, sia la notte del matrimonio di sorpresa; e in realtà è «l’oppresso». La prima volta a Milano, è preso per un promotore di saccheggio e di omicidio, ed è arrestato e ammanettato, mentre ha guidate le cose con tutta giustizia. («Oggi s’è fatto tutto senza torcere un capello a nessuno: tutto per via di giustizia.») La seconda volta per un «untore» («Dàgli, dàgli all’untore!»), e appena si salva dalla furia della gente, saltando sul carro dei monatti, che lo compatiscono: «Va’, va’, povero untorello; non sarai tu quello che spianti Milano». Con verità Renzo può dire: «C’è un pianeta per me in questa Milano». Con Renzo il Manzoni ci mette di fronte a quella che è la dirittura di un’anima che segue le vie di Dio, ed è continuamente perduta nelle trappole che la cattiveria degli uomini ha inventato. Renzo è veramente «il primo uomo della nostra storia», sia semplice o pregnante il significato che l’autore dà all’espressione. È l’uomo che, con o senza esordio, dice alcune delle cose più savie del romanzo («Il mio debol parere è...»); che fa esperienze per tutti: «Ho imparato... ho imparato...»; che persuade perché parla col cuore («Renzo aveva parlato tanto di cuore...»). Rappresentante genuino del popolo, che è il poeta più vero, «ne ha una vena anche lui» e ne dice delle curiose, creando l’incanto fresco dello «stile di Renzo».

Naturalmente le cose più belle le dice a Lucia, massime quando la vede fissa nell’«idea storta» del voto alla Madonna: «Parlo da buon Cristiano; e della Madonna penso io meglio di voi, perché credo che non vuol promesse in danno del prossimo. Sapete cosa dovete promettere alla Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo le metteremo nome Maria; ché questo sono qui anch’io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna».
Ma anche Lucia la pensa così; la quale, appena sentì dirsi da Padre Cristoforo ch’era sciolta dal voto, «fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore». È l’erompere pudico di un amore compresso a lungo nel cuore e che pareva finito per sempre traverso l’accoratissimo «Addio». È l’improvviso risorgere d’una possibilità temuta eppur tanto desiderata. Qui e altrove, il suo «rossore» è un segno di quel pudore che non perde mai memoria di sé, e dà soprattutto segno di sangue sano, di inclinazioni schiette di donna in carne e ossa che sente finalmente libero il sospiro del cuore.
Sarebbe cosa di cattivo gusto oggi (dopo tant’anni che è morto Eugenio Cecchi) tornare a chiamare Lucia creatura di maniera, melensa. «Madonnina infilzata» la chiamò Perpetua, quando volle sfogarsi d’essere stata «infinocchiata» da Agnese, la famosa notte del matrimonio di sorpresa; e lo ripeterà più tardi don Abbondio. Lucia è tanto viva che agisce su tutti quelli che l’avvicinano; su Renzo, e lo trattiene dal compier vendette; su l’Innominato, a cui appare «in atto di dispensar grazie e consolazioni»; su Gertrude che pensa: «Almeno a questa fo del bene»; sul Griso, e lo commuove fino a fargli trovare l’immagine del fiore «che non si può levar dalla pianta senza toccarlo»; perfino sul Nibbio che, alla vista di Lucia, si lascia prendere da un sentimento mai provato prima, e si chiama compassione. Lucia è la virtù operante, sempre attiva. Ma non agisce, ahimè, sul Citanna, su Giusepe Citanna, che la dice ancora «personaggio non vivo» «annichilato» «nome letterario più che immagine palpitante». Indelicato! Prima di tutto il Manzoni, pazientemente fedele al senso storico, ci ha rappresentato in Lucia la contadina del ’600 («una giovine di campagna»), la brianzola coi suoi costumi e limiti e virtù... Oso dire che il Manzoni, goloso descrittore di Gertrude e della sua «bellezza sfiorita, sbattuta e scomposta» e vivo pittore della gelosia d’Ermengarda, più d’una volta deve aver provata la tentazione d’aggiungere al ritratto di Lucia un colore di più, un movimento di più, per farla esteriormente più mossa e espansiva e libera; come aveva fatto con la donna di gran casato e con la sposa del re. Ma con Lucia non era il caso: c’era la storia di mezzo, cioè la verità. E Lucia è creatura viva, proprio perché è «storicamente» vera, e in un romanzo storico la vera storicità comincia (spesso) ad essere verità artistica.
Poi non dimentichiamo che negli anni che si muove innanzi a noi, Lucia ha tutt’altri imbrogli da sbrigare che non siano i soli imbrogli d’amore; persecuzioni, sorprese, tradimenti, esilio, rapimento, prigione. Lasciate che intorno a lei, povera martire, si faccia un po’ di sereno, ed ella possa metter su casa, e vedrete chi è Lucia: la bella razza lombarda, rivelando tutta la salute e la disinvoltura che prima non ha avuto tempo di mostrare; né avrebbe potuto, anche se fosse stata creatura naturalmente più vivace: «Prima che finisse l’anno di matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo di adempiere quella sua magnanima promessa, fu una bambina, e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quanti altri, dell’uno e dell’altro sesso». Nulla manca a Lucia per esser sposa di pudibondo valore. E chi, nel romanzo, è l’ultimo a dir parole d’amore, riservate, ma schiettamente espansive? Proprio lei, Lucia che «soavemente sorridendo» dice a Renzo: «Quando non voleste dire che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene e di promettermi a voi».
In Lucia (era bella? Il Manzoni, presentandola, la dice «di una modesta bellezza»; però il guardiano di Monza la chiama senz’altro «una bella giovane»; nel gruppo delle fanciulle che tornano dalla filanda, don Rodrigo rimira lei sola; la gente del nuovo paese dove vanno a finire i promessi diventati sposi, la chiamano «bella baggiana» sia pure con un po’ di contrasto; e vien fatto di pensare che il «modesta» che il Manzoni aggiunge a «bellezza», non sia un limite ma un ornamento di virtù); in Lucia il Manzoni ci ha dato una creatura tutt’altro che spenta. Ma, coerente con le sue idee morali che d’amore nel mondo ce n’è seicento volte più del bisogno, l’ha messo in circostanze da non poter tutta fiorire. In lei mette in evidenza i valori veri della donna, l’amore e il pudore. Sa che l’amore è la sua forza e il suo segreto; e il pudore è la coscienza e l’ombrosa gelosia di questa ricchezza, di questo dono intimo. Le sue convinzioni etiche sono tutt’una cosa con le estetiche; poiché nella grande arte (Virgilio, Dante) l’amore è sempre qualcosa di riservato e composto. Lucia ci ripropone in pieno il problema del Manzoni e del suo riconoscibile mondo: quello che ha da dire alla donna, le rivelazioni che ha da farle.
E vogliamo dire anche questo: con un finissimo accorgimento, la passione amorosa di Lucia, il Manzoni l’ha trasferita in Renzo; il quale «per tutte le ragioni che ognuno può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa», la casetta di Lucia: «il mio cuore è qui». Una vera corte, che è dichiarata in più luoghi, ma in nessuno è detto che Lucia resistesse o ne mostrasse disgusto. Sicché, attraverso il comportamento di Renzo, è delicatamente scoperta la corrispondenza amorosa di Lucia. E Renzo, così ardente, così innamorato, altre cose avrà da rimproverare a Lucia — timidezza, scrupolo — non quella d’esser poco espansiva, poiché la capiva molto bene. Nell’ultimo capitolo Lucia, rivedendo Renzo dopo la lunga assenza, sapete come gli va incontro: «Vi saluto, come state?». Commenta il Manzoni: «E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto e se l’avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso. Intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia». Il Manzoni ha prevenuto le obiezioni dei lettori e dei critici; i quali «quel fare troppo asciutto», al contrario di Renzo, «se l’hanno per male». E però quanto mi piacque la finezza, non so se più intelligente o più cavalleresca, con la quale il Russo nel suo commento al romanzo, difende i detti e i fatti di Lucia: «quel nome (par dire) per il quale anche noi sentiamo d’avere un po’ d’affetto e di riverenza». Nel romanzo Lucia è il cuore che batte più forte; in certi momenti si sente solo battere il suo cuore. Come è la coscienza più retta, più delicata. Misuratela con la Monaca, la quale, complice Egidio, tien mano al tradimento. Si tratta di farla uscire dal convento senza che sia vista, per mandarla sulla strada di Monza dove l’aspetta la carrozza del Nibbio, il rapitore. Dice Lucia: «Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m’ha mai visto uscire e mi domanderà dove vo?». «Cercate — le risponde la Monaca troppo disinvolta — di passare senza essere vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione». (Par di sentire la voce di certe comari del Decamerone.) Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia. Il Manzoni, a cui nulla sfugge di quanto aiuta a creare la coerenza del personaggio, fa in modo che Lucia passi inosservata; così non dirà la bugia suggerita dalla Monaca. Ma il confronto è ben ghiotto. Del resto, è vero che Lucia, figlia spirituale di quell’uomo tutta schiettezza che è padre Cristoforo, ogni volta che compare fa luce in ogni canto. «Lucia a lucendo.» È la sensitiva che dice: «Le strade mi facevan tanta paura»; che sente il peso morale d’una parola: «Sentite, figliuoli, se vi fidate di vostra madre...; a quel vostra Lucia si riscosse». È quella che dice la parola più grande del romanzo, e tocca il cuore dell’Innominato: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». È la fanciulla del miracolo. Lucia («Certo un angelo protegge costei...») tiene in mano tutto il romanzo. In mezzo al suo gran crepacuore, non perde mai la calma, perché ha sempre un respiro più ampio, in Dio, dal quale deriva la forza di portare il dolore e dominare l’amore: che ci pare il più bel modo di mostrar di esser vivi. È la creatura che ha veramente raccolto l’invito evangelico «di non temere nulla». «Paura di che? diceva la voce soave...» Lucia è la voce costantemente «soave» del romanzo; sempre così viva e trepida da far pensare che il Manzoni, scrivendone, avesse nell’orecchio una vivace voce di donna. E forse esiste veramente il personaggio che ha creato Lucia: Enrichetta, e la sua virtù continuamente operante.

E gli altri personaggi? Tutti vivi anch’essi; maggiori, minori, minimi; e i bambini e la folla. Tutti vivi e in ogni momento veri; sempre coerenti e crescenti, e nuovi. Nessuno compare sul palco a recitare: son tutti nella vita, a soffrire, ad amare, a far del bene. E il lettore, illuso d’essere nella realtà, entra in confidenza con loro; li segue e sente quel che passa per il loro cuore. Fisionomie, anime, che non si dimenticano più. Basta sollevare l’eco del loro nome, per vederceli innanzi nella loro figura e statura, abitudini e indole, vizi e virtù, eccitando in noi via via ilarità o compassione, ammirazione o sfiducia o sdegno. Don Abbondio, o il sistema del quieto vivere, «un uomo da poco» (quanti ritratti di lui, e tutti coerenti con quel carattere fondamentale della sua «comicità» che nasce dal sentimento del suo dovere in contrasto con la sua paura che è più forte di lui). Don Abbondio ha creato una parola che non muore: «Il coraggio, uno non se lo può dare». Tutti sono in obbligo di aiutare lui: quando scappa dalla parrocchia per l’arrivo dei lanzichenecchi: «Possibile che nessuno mi voglia aiutare? O che gente, che gente...»; o quando sale al castello dell’Innominato a prender Lucia: «Il cielo è in obbligo di aiutarmi». E, sapendo con quanta cura il Manzoni ha rifinito ogni suo personaggio, come faremo ora a dire che don Abbondio è il più rifinito?
Perpetua, la serva-padrona, a cui nessuno cava la voglia d’esser fantastica, ma nel consigliare il suo padrone si troverà d’accordo, addirittura, col Cardinale («i pareri di Perpetua!»). Il ritratto che il Manzoni ci dà di lei nel I capitolo, dopo l’incontro di don Abbondio coi bravi, dura nella memoria per tutta la lettura del romanzo e dopo; ritta d’innanzi a don Abbondio «con le mani arrovesciate sui fianchi e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto». C’è tutta la sua faccia tosta. Lei, che il segreto lo sapeva custodir così poco; e quando è riuscita a strapparglielo, «un così gran segreto stava nel cuore della povera donna come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che brilla e gorgoglia e ribolle...»
Agnese, quella dei pareri: andar dall’Azzeccagarbugli, sorprendere il curato di notte per il matrimonio; ma, soprattutto, pare incaricata di rivelare la natura dei signori. Dice a Renzo: «Non bisogna mai andare con le mani vuote da quei signori...». E a Lucia: «Non te ne far meraviglia... I signori, chi più chi meno, chi per un verso chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista di ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste... Del resto, se camperai, figliuola mia, se t’accadrà ancora d’aver che fare con dei signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai». Don Rodrigo che, nella sua malvagità, salva qualche statura fino a quando sull’orizzonte non compare l’Innominato. Poi s’eclissa. Don Ferrante... Per lo stesso suo abito di storiografo e spettatore di grandi fatti sociali, il Manzoni prima studia l’epoca che descrive, poi ne cava gli individui; prima crea il mondo, poi va verso i personaggi che prendono valore (spesso) non tanto dalla animazione di cui sono avvivati, quanto dalla società in cui si trovano a vivere. Il conte Zio e don Ferrante, poniamo, e don Rodrigo, saltano fuori completi dall’ambiente creato prima; e se anche come personaggi sono inventati, finiscono per essere storici, perché nati dal senso storico, dal colore del tempo. In verità volendo dare il tipo del nobile, dello scienziato o del signorotto dell’epoca, il Manzoni non poteva darcene meglio che in quelle figure.
Ma c’è un punto nella musica del romanzo, in cui si muovono tutti i grandi pedali dell’organo: è l’incontro di una cappa con una porpora. Quello che avviene tra l’Innominato e il Cardinale, lo sappiamo. In altri tempi si sarebbe favoleggiato di «Francesco e d’un ferocissimo lupo ammansito».
Interessante figura, l’Innominato sarebbe stato caro al Macchiavelli; vorremmo quasi chiamarlo l’ultimo uomo del Macchiavelli; che non è il furfante, come credono i timorati, ma l’uomo dotato di risorse spirituali che lo distinguono nettamente dagli altri. È l’eroe, il superuomo, formatosi attraverso lo spasimo critico del Rinascimento; l’uomo che non s’adegua al piano comune degli uomini. È l’uomo più grande delle cose che gli sono intorno e si chiude nella solitudine del suo orgoglio. È l’individualismo accampato su una rocca; il frutto d’una civiltà disperata e senza sbocchi; lui steso disperato di non poter credere a qualche cosa più grande di lui. Ma non è possibile resistere in questa solitudine orgogliosa, in questo silenzio arso, disumano. L’Innominato trova la sua perdizione proprio dove crede di trovare grandezza e salvezza. Se vuol salvarsi, deve scendere a valle («Prese la scesa, di corsa») dove Federigo l’aspetta.
Federigo, o la ripresa dei valori schiettamente umani e religiosi; l’eroe vero, che gli insegnerà non esserci giusta superiorità su gli uomini, se non mettendosi in loro servizio. L’Innominato nell’abbraccio di Federigo («buon Federigo») è l’umanità che si redime attraverso i principii del Vangelo, che Federigo ancora rappresenta in modo tanto vivo e imponente. E all’Innominato, insegnerà come si può realizzare sulla terra la parte divina della nostra natura: non nell’orgoglio (che è l’antireligione), ma nell’umiltà, la virtù che rimane quando tutto è perduto.
La figura del Cardinale («uno degli uomini rari in qualunque tempo») riempie il romanzo con tale pienezza, che diventa il romanzo «borromaico». Vederlo nella carestia, nella peste¹. «Appariva un soccorso... mosso da una mano ricca di mezzi, avvezza a beneficare in grande: ed era la mano del buon Federigo».
Poi c’è padre Felice, diverso dagli altri frati: il più spirituale di tutti. Facciamo torto a padre Cristoforo? Nemmeno per sogno. Padre Cristoforo — l’anti-don Abbondio: in tutto il romanzo il Manzoni non lo fa mai incontrare con don Abbondio — è quello che è; direbbe Renzo, «val più un pelo della sua barba...». È il padre spirituale di Lucia, l’amico di Renzo, nelle cui visioni la sua immagine si lega strettamente con l’altra tanto amabile e cara di Lucia: «una treccia nera e una barba bianca». È la forza dei perseguitati, il bastone del cieco; è, insomma, il frate del romanzo, tanto posto vi occupa; e, «dove compare, è certo per far del bene. Poiché del bene se ne può far per tutto». In principio era padre Cristoforo... Entra in scena con «un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento». Non si dimenticano più i suoi «occhi sfolgoranti con repentina velocità, come due cavalli bizzarri». «Che diavoli d’occhi» dirà Renzo. «Occhi che vedono tutto.» E anche nel Lazzaretto, quando lo si incontra per l’ultima volta ed è «come carne rotta e cadente», solo l’occhio è rimasto quello di prima, «e un non so che più vivo e splendido, quasi la carità, sublimata nell’estremo dell’opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello». Né più dimentichiamo la sua «barba d’argento» ora «alzata con un moto leggero della testa all’indietro», ora «illuminata dalla luna». Cristoforo è «l’uomo che se ritto», dantescamente: è l’uomo sempre impegnato a far giustizia, a rivendicare oppressi, a rimproverare oppressori, a intimare — faccia levata, indice teso — al reprobo ostinato nel male il «verrà un giorno...». È il profeta disarmato. Appartiene ancora all’inferno e al purgatorio della vita, intesa come milizia, combattimento, talvolta sconfitta, spesso trionfo.
Padre Felice è un’altra cosa. È «il mirabile frate» (e l’aggettivo è consapevolmente dantesco: «la cui mirabil vita...» ). Compare in un solo episodio, al Lazzaretto, tutto nella carità. Splende e arde; e, se si muove (si muove sempre) senti un battere d’ali in arrivo. È già del Paradiso. Le sue, sono parole colme, senz’enfasi; gesti semplici, da angelo nocchiero che guida e benedice barcate d’anime verso il Cielo. Lo stesso padre Cristoforo, incontrato qui nel regno di padre Felice, è un vento che si è calmato.


1. L’«intenzione» di celebrare Federigo, ossia lo spirito del profilo del Cardinale, non è detta nel capitolo XXII del romanzo dove estesamente si racconta di «quella bella vita»; ma nel XXXII, a proposito della peste in cui Federigo tutto si spese. «Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato superiore alla più parte dei suoi contemporanei.»

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