CESARE ANGELINI IN CASA DI LUCIA
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 273-278.
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Illustrazione di Francesco Gonin |
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Tra una tastiera e l’altra toccata col sapientissimo garbo di chi possedeva la regola d’oro dello scrivere italiano, il compianto Antonio Baldini trovava modo di dare una mano ai lettori del Manzoni nell’intendere questo o quel personaggio, questo o quell’episodio dei Promessi sposi. Notando, per esempio, che tutta la base del racconto nell’epilogo si alleggerisce e «dal romanzo storico si entra nella novella borghigiana». Arrivato a questa conclusione che è la vera, per poco non gli scappava di dire come l’avrebbe poi messa Marino Moretti, uno dei nostri narratori più «borghigiani» e più nobilmente manzoniani.
In verità, scomparso tutto l’illustre e il solenne della storia (la fame, la guerra, la peste), scomparsi o tiratisi in disparte i potenti (don Rodrigo, la Monaca, l’Innominato, il Cardinale) nell’epilogo si torna al piccolo mondo del villaggio, in parrocchia, tra gli umili: don Abbondio, Agnese, Ambrogio, il sagrestano, Tonio, l’amico e, naturalmente, Renzo e Lucia. Qualcuno manca, a cui abbiamo voluto bene: padre Cristoforo che ha finito i suoi giorni al lazzaretto in servizio del prossimo; Perpetua, anche lei portata via dal contagio; e parenti, amici, famiglie intere; e, per tutto, quel silenzio attonito e un po’ spaventato di un paese visitato dalla peste.
Baldini avrebbe anche potuto finire il suo pensiero, e dire che nell’epilogo il racconto è tornato a essere quello che era in principio, nei primi otto capitoli, quando nessuno dei nostri personaggi (lo diremo con la bocca di Lucia) avrebbe spinto al di là dei suoi monti neppure un desiderio fuggitivo, se una forza perversa non li avesse sbalzati lontano, chi a Monza, chi a Milano: e fu come un perdersi nel mondo.
Ma Milano ora è lontana, e i suoi tumulti e le sue osterie traditore e i suoi birri. E anche il lazzaretto è lontano; ne rimane il ricordo fatto quasi soave dalla presenza della «buona vedova», l’agiata mercantessa che tanta buona compagnia ha fatto a Lucia in quel soggiorno di dolore, e ora è qui anche lei a compire la festa.
Dunque. «Una sera Agnese sente fermarsi un legno all’uscio. — È lei di certo! — Era proprio lei, con la buona vedova. La mattina seguente, di buon’ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamente per isfogarsi un po’ con Agnese su quel tardare di Lucia. Gli atti che fece e le cose che disse al trovarsela davanti...» Bisognava proprio arrivare al trentottesimo e ultimo capitolo, per poter entrare nella casetta (dalla quale anche noi, come Renzo, non sapevamo stare lontano) con l’animo finalmente sollevato e sereno. E proprio lì, cominciano a fiorire i più bei discorsi, intonati da loro nel colmo della felicità. «Vi saluto: come state? — disse a occhi bassi e senza scomporsi — Sto bene quando vi vedo — rispose Renzo con una frase vecchia ma che avrebbe inventata lui in quel momento.»
Roberto Longhi fu, forse, il primo a domandarsi in un numero della Voce del ’13 o del ’14, che cosa c’è di incantato in queste battute così modeste, in queste parole così dimesse e logore come monete fatte più lucide dall’uso, e dove par raggiunta parte della bellezza suprema. Abituato fin da allora a guardare gli ingenui affreschi del Trecento, gli dev’essere parso di trovare in quest’incontro qualcosa di somigliante a quell’antico ingenuo incanto che sfugge a non stare attenti. Poi, i critici ci hanno trovato tutto quello che sappiamo; un prezioso canone d’arte, il segreto del vivo della scrittura manzoniana e il suo incanto perenne.
L’incanto che dura su tutto il capitolo, sui discorsi di tutti: frasi vecchie, parole logore, eppure tutte inventate, nuove, perché chi le dice le colma della sua passione. I nostri personaggi sono appena tornati dalla tribolazione, le grandi prove dell’esilio e della peste; e in tutti è il senso della vita ritrovata, la ripresa dei disegni dell’avvenire che parevano distrutti, il sollievo di avercela fatta. Sicché mestizia e letizia si temperano intimamente e fanno nuova ogni cosa. Ciascuno ha un suo discorso da fare, secondo il suo naturale, su misura proprio del parlare, del chiacchierare casalingo, col cuore in mano. A cominciare dalla buona vedova, che si è inserita così bene nella compagnia, ed è proprio lei che ci aiuta a ritrovare il domestico e il familiare dei luoghi. Sentitela: «Ora, signore sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende, ché a Lucia farò io da mamma; ed ho proprio voglia di vedere un po’ meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare e il poco che n’ho visto mi pare una gran bella cosa». Don Abbondio (è vile? è crudele? ma è soprattutto nuovo, è tutto nuovo) rassicurato che don Rodrigo è proprio morto, è uscito dall’incubo che condizionava la sua vita: «Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese!». Ha ritrovato il sentimento della sua vocazione; è tornato parroco, e i parrocchiani, vivi e morti, tornano a essere tutti i suoi figliuoli.
A dare più spazio e respiro alla sua immaginazione, sono arrivati anche i saluti del cardinale e glieli porta il signor marchese in persona, il successore di don Rodrigo; sciogliendo in lui una parlantina che nessuna cosa è più amena. Parli delle nozze con gli sposi («Sicché, se volete... oggi è giovedì... domenica vi dico in chiesa, e poi ho la consolazione di sposarvi io»); scherzi con la buona vedova («E lei, signora, non hanno cominciato a ronzarle intorno dei mosconi?»); ricordi la povera Perpetua («Ha fatto proprio uno sproposito Perpetua a morire ora, ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei»), o si faccia cogliere presso il marchese per l’acquisto delle due casette degli sposi, visto che dopo le nozze andranno a metter su casa altrove; don Abbondio è spassoso, patetico, ha perfino fantasia; e quel suo saltare di palo in frasca, è solo il segno della sua gioia traboccante. («Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo».)
Anche Renzo e Lucia, la loro vita ora è tutta in quel pensierino delle nozze, che dà a ogni cosa il colore della felicità. «Venne quel benedetto giorno: i due sposi andarono con sicurezza trionfale proprio a quella chiesa, dove proprio per bocca di don Abbondio furono sposi.»
E poiché nei Promessi sposi, che contano veramente sono i promessi sposi, il Manzoni vuole che siano loro a trovare il sugo d tutta la storia. Sicché, dopo un dibattito, Renzo e Lucia conclusero insieme che «i guai, vengono per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». Conclusione in cui non è difficile sentire l’eco della sapienza cristiana imparata da padre Cristoforo; e riporta la «novella borghigiana» al vasto respiro immenso del poema.
Ma nell’epilogo, com’è tutto lombardo, genuino, anche in fatto di lingua! Di recente m’è capitato di leggere che «Renzo e Lucia nei Promessi sposi parlano toscano»; e, a prova della loro toscanità, si portava la popolarissima esclamazione di Renzo: «La c’è, la c’è, la Provvidenza!» che sarà anche fiorentina, ma prima è schiettamente e onninamente lombarda: «La gh’è, la gh’è, la Pruvidensa!».
Ci porta a dire che il «fiorentinismo» manzoniano, l’ha creato, più che altro, la suggestione d’una frase, la famosa sciacquata dei suoi panni in Arno. Il Manzoni non è andato a Firenze in cerca di linguaggio fiorentino, ma a controllare se certe voci lombarde calate nell’edizione ventisettana avevano o no rispondenza nel vivo uso di lì. Sicché, anche dopo Firenze, il fondo lessicale del romanzo, che è poi tutto interiore, è rimasto lombardo e italianissimo.
Il toscano p. Pistelli nel suo commento riduce le voci di pura o impura toscanità a una dozzina o poco più. E i pedantissimi Rigutini-Mestica ronzando fra le grandi pagine del romanzo come fastidiosi mosconi, per non so quali idiotismi lombardi o modi popolari un po’ vivi che vi hanno trovato, suggeriscono al Manzoni una seconda sciacquatura in Arno... Ci avesse risparmiata anche la prima! Non avrebbe sollevato tante umilianti osservazioni da parte dei grammatici vecchi e nuovi, e avrebbe salvato autentiche vivezze bevute con l’acqua dell’Adda fin dalla puerizia.
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