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CESARE ANGELINI

NELL’ATELIER DEL MANZONI

In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,
Milano, Mondadori, 1969, pp. 1-6.

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Alessandro Manzoni

Dipinto di Francesco Hayez, 1841
Pinacoteca di Brera, Milano


Questo Manzoni ci darà da fare per tutta la vita. Accade da quando (e fu molto presto) abbiamo inteso che i problemi del vivere e dello scrivere li ha risolti con strenua coerenza e puntualità; e che egli non era un consolato punto d’arrivo delle nostre lettere ma un fertile punto di partenza per più belle prove.
Ora ci ricorda gli anni andati, le prime volte che entravamo per così dire, nel suo atelier con la curiosità propria dei giovani innamorati del loro poeta, per conoscerne gli strumenti del mestiere, magari per sorprendervi qualche bel segreto, compenso al nostro amore. E nella frequentazione assidua, fatta col riguardo che imponeva l’ospite difficile, ci parve d’averne colto qualcuno.
Per esempio, l’ardita esperienza del «coro» introdotto nel romanzo; e ne rendemmo conto in talune lontane pagine pubblicate dal Vallecchi col titolo di Dono, verso il 1924 [C. Angelini, Il dono del Manzoni, Vallecchi, Firenze, 1924, ndr]. Perché il famoso «addio» di Lucia ai suoi monti, la notte che lascia il paese, ci par sempre collocato lì in funzione di coro. E tale parve anche al Russo nel 1935, curando un’edizione dei Promessi Sposi per una casa fiorentina, commentava in nota: «Non sarebbe del tutto improprio definire questo Addio una specie di coro».
È che il Manzoni, sliricatosi, era persuaso di poter risolvere molti effetti della poesia nella prosa, e, come già nei due drammi in versi, anche nel romanzo volle «riservarsi un cantuccio» dal quale osservare e commentare per conto suo gli avvenimenti e gli affetti precedentemente descritti. Rispondeva al concetto nuovo e moderno che egli aveva del coro; un momento in cui il poeta si sostituisce ai personaggi senza entrare direttamente nell’azione.
Il filo del racconto si sospende dopo le parole: «Lucia, seduta nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte come per dormire e pianse segretamente», per riprendersi quasi con le stesse parole al cominciar del capitolo seguente: «L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugato in segreto le lagrime, alzò la testa come si svegliasse».
Tra le due citazioni c’è l’«Addio», preceduto da una pausa colma che annuncia il coro, momento di trasfigurazione psicologica in cui il poeta parla un certo altro linguaggio, e il tono gli si muta naturalmente da discorsivo in lirico.
Questa qualità della pagina è anche più persuasiva, se si pensa che crea il tempo della traversata; perché in arte spazi di tempo vuoto non esistono; e il Manzoni, a mantenere l’unità tra i due momenti — il raccogliersi di Lucia e il suo ridestarsi — avrebbe dovuto darci la descrizione del tragitto. Come fa nel capitolo XVII, quando Renzo, per mettersi al sicuro, passa l’Adda, e il tragitto è colmato da quei dialoghi in apparenza così riposati tra il barcaiolo e il fuggiasco sul garbo del maneggiare il remo o sulla «macchia biancastra» che appare di fronte ed è Bergamo. Anche questo è un «addio», l’addio di Renzo al paese che ha dovuto lasciare: «Sta lì, maledetto paese», dice, appena sceso sulla riva. Ma il Manzoni, a una descrizione che pure aveva avviata, o ad un dialogo preferì sostituire quello che ha sostituito, e ne è venuto fuori il bellissimo coro; nel quale, come da un cantuccio appartato, il poeta esprime liricamente la filosofia cavata dagli avvenimenti rappresentati fin qui, e commenta un punto culminante della vita di Lucia. Né si fa fatica a credere che lì si chiuda un atto del dramma.
Si pensa al coro dell’Ermengarda, che è anch’esso un «addio», l’addio alla vita. Tra le ultime parole della regina («Parlatemi di Dio; sento ch’Ei giunge») e il principio del coro («Sparsa le trecce morbide...») c’è la stessa pausa colma di quel cantar che nell’anima si sente e non si può dir per ragione. Qui e là, lo stesso movimento, lo stesso rapimento, la contemplazione della creatura che se ne va, l’una verso l’esilio, l’altra verso la patria celeste, ma tutt’e due fuori d’un mondo che vuol esser salutato con la voce rotta da una passione mortale. Se è lecito portare avanti la propria esperienza, confessiamo d’esserci fatta questa opinione un giorno che ci accadeva di avvicinare la pagina dell’«addio» subito dopo una lettura del «coro»», scoprendovi una analogia perfetta di situazione psicologica e ritmica; non dico di egual peso lirico.
Ma Benedetto Croce in un suo scritto — Critica manzoniana — apparso sulla Stampa del 27 ottobre 1926 e riapparso nella Critica del novembre dello stesso anno, recensendo un saggio del Citanna sul Manzoni, diceva tra l’altro: «Certo il Citanna ha buon gioco nel contrastare il giudizio dell’Angelini che mette l’Addio di Lucia accanto ai poeticissimi cori dell’Adelchi. Egli riconosce che l’Addio è un magnifico brano di eloquenza, e della poesia ha soltanto l’alone di cui alla vera eloquenza è concesso ornarsi».
A parte la confusione che nasce dalla sua antica fissazione sul pöeta an orator? per cui le pagine dei Promessi Sposi sono alta eloquenza e non poesia; la lettura del Croce, come già quella del Citanna, era un po’ disattenta, cosa della quale molto mi rammarico. Perché nel Dono del Manzoni [C. Angelini, Il dono del Manzoni, Vallecchi, Firenze, 1924, ndr] a pag. 72-78, io sostenevo la qualità di coro dell’Addio; e, come tale, lo avvicinavo al coro dell’Ermengarda. Non facevo questione di grado di poesia, che è un’altra cosa; e chiunque lo riconosce minore di arte e di grazia poetica. (Benchè quella finale «Chi dava a voi tanta giocondità...»)
Una piccola soddisfazione ce l’ha pur data in quei giorni lontani — 1924 — la scoperta del testo nel quale sono allineati i nomi delle donne del romanzo; l’Ordinario della Messa, nella preghiera del Canone che si recita sotto voce, submissa voce, dopo la Consacrazione, ne verba tam sacra vilescant. Vi si invoca la partecipazione dei peccatori alle gioie celesti insieme coi santi e con le sante, con «Perpetua, Lucia, Agnese, Cecilia...». Canone femminile, lo chiamò di recente, il Contini, in una più ampia onomastica manzoniana. Testo molto familiare al poeta che ha piamente cantato i vari momenti del rito mistico; certo più familiare delle inverosimili ordinanze curiali verso le quali ci traviavano le ricerche di altri pur attenti lettori, come, per esempio, il Crispolti.
E quale fu l’ultimo omaggio che il Manzoni fece al Monti, suo antico maestro? Anche questo, l’abbiamo scoperto un po’ tardi. Ricordate che il Manzoni, nel capitolo XXII del romanzo, introducendo la figura di Federigo, ricorre a una similitudine che infonde nel lettore un sentimento di calma e di pace tranquilla. «A questo punto della nostra storia, noi non possiamo fare a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stanco e tristo da un lungo camminare per un sentiero arido e selvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull’erba, vicino ad una fonte d’acqua viva. Ci siamo imbattuti in un personaggio...»
La similitudine dell’ombra dell’albero e della fonte, gli fu evidentemente suggerita da un passo della quinta lezione di Eloquenza — un corso su Socrate — che il Monti tenne all’Università di Pavia nel 1803. «Coloro che d’estate viaggiano per discoperte e arse campagne, se incontrano lungo la via un qualche bell’albero pieno d’ombra, ringraziano la fortuna e, stesi sull’erba, si ristorano del loro penoso cammino, per riprenderlo quindi più rinfrancati e allegri. E noi pure viaggiamo per campi arenosi e sterili; e poiché oggi la sorte ci presenta una bella pianta e un bel fonte a cui rinfrescarci — la compagnia di un grandissimo personaggio — io credo che faremmo cosa da stolti se non ci arrestassimo a godere di questa gioconda ventura».
Certo il Manzoni ricordò di aver sentita la bella similitudine dalla stessa bocca del Monti, quando, diciassettenne, veniva da Milano a Pavia in diligenza o in barchetto sul Naviglio per ascoltare l’illustre maestro e i suoi fiori d’eloquenza; e, cambiati pochi contorni, la utilizzò nel suo nucleo essenziale e nei suoi movimenti un poco sonori. Una rilettura del Monti ci portò nel 1931 a scoprire la fonte, e a giovarcene per una commemorazione del Cardinale nel 3° centenario della sua morte [C. Angelini, Commemorazione del Cardinal Federigo, Almo Collegio Borromeo, Pavia, 1931, ndr].
Ora non dirò la sorpresa avuta quando scopersi che la pagina più famosa del romanzo «Scendeva dalla soglia...», è derivata e quasi trascritta dal De Pestilentia del Cardinal Federigo, precisamente dal paragrafo VIII, De miserandis casibus. Mi parve che l’officina del poeta fosse diventata tutta mia, e gli arnesi dell’arte e i servigi diversi. Ma la mia gioia durò poco, perché venni presto a sapere che la dipendenza dell’episodio manzoniano dallo scritto federiciano l’aveva già indicata tal Giuseppe Galli sull’Archivio storico lombardo del 1903. E, prima di lui, il riscontro l’aveva fatto il Cusani nel suo libro sulla Peste di Milano del 1630, stampato nel 1841. Centoventicinque anni fa! In luoghi tuttavia così poco frequentati, da essere essi stessi da scoprire.
Scoprire, scoperte... Parole troppo grosse per così piccole cose. Se mai, più alla buona, testimonianza di amorose letture che aiutano talvolta a trovare quello che c’è nelle pagine del libro immortale; e lontane dall’abracadabra di certa critica che spesso, volendo incantarci con gerghi solenni, ci priva del solo e vero incanto, che è quello delle parole del poeta.
E una volta fu proprio Attilio Momigliano a ricordarci (Corriere della Sera, 23 aprile 1936) che per primi abbiamo ampiamente sottolineata la presenza dell’autunno come la stagione o il colore fondamentale dei Promessi Sposi. Ce ne vantiamo? Absit! Vogliamo solo rendere omaggio al lettore più fine del Manzoni, che, nei suoi commenti, aprendoci le parole di quella prosa o di quei versi, è una vera e continua scoperta del poeta.


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