CESARE ANGELINI «L’ADDA HA BUONA VOCE»
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 241-247.
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Illustrazione di Francesco Gonin |
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Nella lettura di Dante o in quella dei Promessi Sposi il canto più bello, il capitolo più bello par sempre quello che si sta leggendo.
Ho sotto gli occhi il capitolo XVII del romanzo, e sono portato a dire (ma non solo da oggi) che la penna del Manzoni qui è stata più altamente felice, la sua arte più miracolosa. Sapete è il capitolo della fuga di Renzo da Milano verso l’Adda per mettersi in salvo in terra bergamasca («terra di San Marco!»); preparato da quello che lo precede, il XVI, già preso nel vento della stessa ispirazione. Due capitoli concreati e concresciuti: uno viene nell’altro, e lo colma.
Il gran capitolo ha andatura e movimenti di canto dantesco, di situazione dove «il personaggio» è Dante. So che il richiamo va fatto con molta prudenza; ma qui, come — poniamo — nel canto II del Purgatorio, è «gente che pensa suo cammino», e sono le stesse ansiose ricerche di salvezza e della via giusta, e le trepide attese dell’alba, dell’aurora, mentre in cielo sono ancora le stelle, è ancora la luna. Un racconto all’aria aperta, tutto intriso di rallegrature paesistiche. E poi, qui e là, l’apparizione d’una barchetta... So che le somiglianze sono piuttosto nell’aria, vaghe.
Dunque, «con un andare tra il viandante e uno che vada a spasso», Renzo esce da Porta Orientale e, evitando lo stradone, per viottole e straducole e sentieri («se posso esser uccel di bosco...») è risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettono, e «d’aspettar poi l’alba in un campo, in un deserto, dove piacesse a Dio». Lasciata dietro le spalle la sciagurata avventura del giorno avanti — il tumulto per le vie, Ferrer, il vicario, lo spadaio, l’oste, la bella svegliata, i birri, le manette — la campagna ora gli viene incontro come una promessa di salvezza, un compenso, coi suoi orizzonti liberi, e gli alberi e i fossi e i canali e le stradette ombrose. «Uccel di bosco, fin che si può...»
All’osteria di Gorgonzola, scoccano le ventiquattro, l’ultima ora del giorno; e, «a guida della Provvidenza», riprende la strada verso l’Adda. «Cammina, cammina, presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce.» Nato e cresciuto alla seconda sorgente del fiume, ne conosce il corso e la figura, e «la voce». «Se qualche barca c’è da passare, passo subito; altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere.» Torna l’immagine uccellesca, alberesca. (E insieme mi ritorna la cara immagine di Carlo Linati sorpreso in bicicletta per questa strada, sulle orme di Renzo...)
Il viaggio nella notte è fantastico: campagna persa, senz’anima vivente; qua e là, lumini trasparenti da impannate, abbaiare di cani, ricordi di certe apparizioni, e, per acquietarle, Renzo recita, camminando, le orazioni per i morti. Il capitolo si salva dall’aria di favola per il senso di misura dell’artista sempre presente. Renzo è in piena comunione col paesaggio che va sempre più conquistando: la sodaglia di felci e di scope, il bosco con figure strane di alberi, la cui cima leggermente agitata getta ombre sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; scrosciar di foglie secche, che muove camminando. Nell’effusione paesistica, il Manzoni quasi tradisce la sua gioia d’esser poeta, solo poeta. Vien fatto di paragonare questo capitolo all’VIII, pure interamente lirico: due notturni. Ma il velo della poesia non può nasconderci il tragico di questa notte che Renzo va via via esplorando. «S’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi.»
Il rigore del sereno e la brezza notturna che gli batte «rigida e maligna» sulla fronte e sulle gote, tra i panni leggeri e la carne, paion spegnare in lui l’ultimo rimasuglio di vigore. «Quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito dal suo stesso terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.» È la notte di Renzo, una delle famose notti dei Promessi Sposi: quella di don Abbondio dopo l’incontro coi bravi (capitolo II); la notte dell’imbroglio o del matrimonio di sorpresa (capitolo VIII); la notte di Lucia al castello (capitolo XXI) e quella dell’Innominato (capitolo XXI). Ma, anche questa, ha il suo risolvimento in una «voce», la «buona voce» dell’Adda. «E, stando così fermo, sospeso il fruscio dei piedi nel fogliame, tutto tacendo intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorio, un mormorio d’acqua corrente.» Sta in orecchi; n’è certo, esclama: è l’Adda! «Fu il ritrovamento di un amico, d’un fratello, d’un salvatore.» La salvezza è vicina, è all’altra riva, che già tocca con gli occhi. È un momento dei più intensi del capitolo, e dei più cordiali; cresce la fiducia dei pensieri, svanisce la gravezza delle cose.
La prima idea sarebbe quella di passarla a guado; ma l’Adda «non era fiume da trattarsi in confidenza». Si consulta tra sé sul partito da prendere: «arrampicarsi sur una pianta e star lì ad aspettare l’aurora...». Le pennellate ridenti colmano le pagine, si fanno, per così dire, sostanza alimentare del racconto, la poesia di Renzo. Il quale, ora che la salvezza è a portata di mano, pensa che su la paglia della capanna vista poco prima nella sodaglia, una dormitina sarebbe ben saporita. Ci torna, vi si rannicchia con l’intenzione di dormire; ma quante immagini vanno e vengono nella sua memoria o nella sua fantasia. Due, su tutte l’altre, lo commovono: una treccia nera e una barba bianca: Lucia e padre Cristoforo, quanto di più caro si lascia indietro, ora che è sulla via dell’esilio.
All’avvicinarsi del giorno, Renzo sente nel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio, come una voce misteriosa e solenne. «M’immagino che dovesse esser quello di Trezzo.» Il particolare dell’ore, che non poteva essere espresso con più poetica vaghezza («m’immagino che...») non è detto da Renzo ma dal Manzoni, che interviene come «personaggio». Giovanni Bazzoni, nella scia del romanzo storico, scrisse il Castello di Trezzo; ma più che per quel romanzo, Trezzo vive per le ore che il suo orologio batte ancora in questo capitolo.
Le fresche notazioni paesistiche che hanno rallegrato le pagine fin qui, ora si rapprendono, per così dire, nella descrizione dell’alba, che è certo tra le cose più universalmente famose del romanzo: «Il cielo prometteva una bella giornata; la luna, in un canto, pallida e senza raggio...», e continua nella lode del «cielo di Lombardia, così bello quando è bello, così splendido, così in pace». Aggiunge il Manzoni, e par spegnerci in bocca ogni altro commento: «Se Renzo si fosse trovato lì andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell’albeggiare così diverso di quello ch’era solito vedere sui monti». Ma egli è attento a vedere se giunga una barchetta per passare di là. E la barchetta giunge, quella d’un pescatore che, a una sua voce leggera, s’avvicina e l’accoglie. La conversazione dei due sul garbo di maneggiare il remo e sulla «macchia biancastra» che si vede sui colli di contro ed è Bergamo, colma la traversata del fiume. A riva, Renzo scende, si ferma un momento a salutare la patria lasciata di là, e a pensare chi vi lasciava.
Quello che segue, il lettore lo sa, ed è ancor tutto stupendo: la fermata di Renzo all’osteria, per ristorarsi lo stomaco, e l’opera buona compiuta con l’elemosina degli ultimi quattrini ai mendicanti sdraiati sulla porta; il resto del viaggio fino al paese del cugino Bortolo, l’arrivo al filatoio tra il rumore dell’acqua cadente e delle ruote, l’accoglienza del cugino e le parole e gli abbracci che si scambiano.
Il capitolo, tenuto dentro continue note di paese, si può dire descrittivo. E lo è; nel modo e nella misura consentiti al genio del Manzoni, sempre volto al morale. Ma qui, più che altrove, il Manzoni ha trascritto sul paesaggio le sue grandi verità; e il paesaggio è tutto in funzione del personaggio e del suo dramma umano. Torna a mente una bella osservazione di G. A. Borgese; dice che il paesaggio manzoniano è sempre trascorso da un’anima migrante. Così è nell’«Addio» nella traversata del lago, e nel viaggio fra le Alpi del diacono Martino.
Ma come mai Emilio Radius nel suo commento ai Promessi Sposi (Paura di che? Ed. Garzanti) dove sono pur cose finissime come quelle sui «rossori» di Lucia, ha potuto interpretare questo capitolo in modo così barocco e sconcertante? A Radius, la paglia che Renzo trova ai piedi della capanna, gli fa pensare alla «stalla di Betlemme»; la gioia con cui Renzo saluta «la macchia biancastra» che è Bergamo, la paragona alla esultanza dei Crociati all’apparire di Gerusalemme; nell’Adda, vede il Giordano; e nella disinvoltura con cui il Manzoni presenta il pescatore che traghetta Renzo all’altra riva, ritrova la familiarità di Gesù per i pescatori e il suo gusto delle ritirate sull’acqua quando voleva sfuggire alla folla. Che ci pare veramente un commento di disturbo. Perché, lasciando stare il resto, l’Adda è bella proprio perché è l’Adda, e, per nobilitarsi, non ha davvero bisogno d’esser riferita al Giordano: le basta d’essere una presenza tutelare del paesaggio manzoniano.
Né crediamo che i richiami biblici, Radius li abbia fatti per aiutare la sostanza religiosa del capitolo; ché mai capitolo ne è stato più colmo. Il sentimento religioso, qui è dato dalla presenza di quella Provvidenza che penetra e splende in ogni punto, illuminando il viaggio di Renzo, e la sua tragica notte. È proprio in questo capitolo che troviamo quei suoi gridi esultanti: «La c’è la Provvidenza!», «L’ho detto io della Provvidenza!». Sicché essa diventa il vero protagonista del capitolo, come è l’alta poesia di tutto il romanzo.
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