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CESARE ANGELINI

«QUESTO POVERO LUCINI» *

In C. Angelini, Quattro lombardi (e la Brianza),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1961, pp. 21-31.

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Gian Pietro Lucini

Archivio Dossi, Corbetta

Fotografia da AA.VV., Il mondo di Cesare Angelini, a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, con un saggio introduttivo di Angelo Stella, Milano, Banca Popolare di Milano e Libri Scheiwiller, 1997, p. 144.


Morsicato ancor giovane dall’inesorabile lupus, fu mangiato a poco a poco, arto per arto, fin che morì di meningite a quarantasette anni, il 14 luglio del 1914, nella sua villa di Breglia sul lago di Como. Pietosissima fine per un poeta nato con la passione della bellezza, che è gioia. Ma egli lasciò pur scritto in una veloce Autobiografia: «Là dove tu riscontrerai miglior sofferenza, l’arte sarà maggiore».
Gian Pietro Lucini completa quel particolare quadro di scrittori lombardi che stanno tra l’ultima scapigliatura e il primo futurismo: Rovani, Dossi, lui, Linati, Bernasconi e Botta che, secondo un cliché della critica che risale fino a Boine, dovrebbero somigliarsi come le carte da gioco d’un medesimo mazzo. Ora, vicinanza c’è, di gusti e d’abitudini e forse d’anima; concorrendo anche il fatto che, vissuti tutti tra Milano e le limitrofe ville della Brianza e del Comasco, la frequenza dei rapporti e degli incontri aveva creato quel senso di camaraderie che giungeva perfino a togliere obiettività ai loro giudizi; anche quando si vantavano (strana fissazione) di discendere tutti dal Manzoni e dalla sua ineffabile arte.
Collocato più puntualmente tra i due Carli — Dossi e Linati — il Lucini non ebbe la freschezza innovatrice del primo, né la coscienza stilistica del secondo, con quegli allegri colori brianzoli che mantengono a ogni sua pagina un mirabile senso di sanità. Eppur l’impegno letterario in Lucini era molto più attivo che in quei due; essendo il Dossi un letterato di eccezione, e dichiarando il Linati di fare dell’arte come faceva dello sport. Al Lucini mancò il senso dell’armonia, che è equilibrio, e la sua pagina ha inevitabilmente alcunché di fastidioso e falso; così il suo impegno di crear favole con parole e fantasia, è rimasto inesaudito nella volontà e nelle intenzioni. Il Lucini non è riuscito ad armonizzare il contenuto rivoluzionario che in quegli anni respirava in campo sociale («il mio pensier rosso») e lo portava a farsene annunciatore, con la forma aristocratica e raffinata che il dannunzianesimo imponeva in campo letterario; e poi la sua consuetudine con gli alessandrini, e Baudelaire e gli altri «maledetti».
Abbiamo nominato il D’Annunzio; e non dimentichiamo che per il Lucini nato nel 1867, la giovinezza s’è svolta nell’ultimo decennio dell’Otto e il primo del Novecento, in piena malattia dannunziana; ed egli, come tanti altri, s’era unguentato di quei profumi opulenti e perversi fino a essere tacciato dal Thovez di plagi dannunziani. La grottesca lettera-prefazione al Duccio di Linati e la prosa scaltra e lussuriosa di Nottole e vasi ne sono testimonianze scandalose. Perfino lo imitava in certe fastidiose vanterie: «Se il giornalismo vuole occuparsi di me, si chini sull’opera mia che è già grande».
Come fu dunque che un certo momento gli si mise contro, dichiarò d’averlo superato e scrisse un’Antidannunziana? La conversione non avrebbe meravigliato nessuno, se fosse stata vera. Il guaio è che non s’è mai visto un libro scritto in uno stile più sfacciatamente dannunziano di quello. Per screditare il poeta s’era anche messo a elencare i suoi plagi da Swimburne. Malaccortamente; perché, quando Linati, provveduto di molto inglese, stese un amichevole profilo di Lucini, onestamente non poté tacere che le sue pagine richiamavano spesso (e non solo per il calore lussurioso) alla Swimburne di Anactoria. Lucini aveva dunque seguito il suo poeta in casa d’altri. Diremo piuttosto che, dichiarandosi antidannunziano, il povero Lucini che non sapeva rassegnarsi «a essere un letterato senza seguito», sognava di sostituire il lucinesimo al dannunzianesimo. Scriveva a qualcuno: «Voglio guadagnar tempo, che non si porti via tutto l’altro» E l’altro era il D’Annunzio. Non si trattava dunque di superamento, che l’avrebbe aiutato a chiarirsi davanti a se stesso, ma di un orgoglioso motivo polemico che complicava le contraddizioni dentro di lui, per il quale D’Annunzio restava sempre il bellissimo nemico.
E vorremmo anche dire dell’altro episodio che lo riguarda ancor più da vicino: l’esperienza futurista. Nel 1908, il Lucini pubblicò Il verso libero, un volume di settecento pagine in cui ci dava, per così dire, la sua estetica, esponendo o anticipando idee nettamente futuriste. Lo aveva dedicato a Marinetti, alla cui rivista, Poesia, collaborava dal 1905. Nel medesimo anno aveva pubblicato Il carme dell’angoscia e della speranza, in versi liberi, che appoggiava la sua estetica.
Ma quando nel 1909, Marinetti pubblicò il famoso Manifesto, cominciò l’opposizione e la rottura. Più tardi, sulla Voce del 10 aprile 1913, il Lucini pubblicò un lungo e documentato articolo intitolato: Come ho superato il futurismo. E non intendeva già il suo, ch’egli spiegava come un anelito e un’arte nuova, un desiderio d’essere coetaneo con qualunque generazione avvenire: ma quello di Marinetti, il cui torto era d’aver fatto di questa aspirazione una scuola, negazione della personalità del poeta e della libertà dell’arte. 
C’era del vero nella sua esposizione, ma c’era anche un palese risentimento verso la posizione di capo che Marinetti si era usurpata nel nuovo movimento che, anche per riconoscimento di Silvio Benco, avrebbe dovuto accampare il Lucini come suo vero iniziatore. E il comportamento di Lucini di fronte al futurismo, non è ben chiaro; se lo stesso Papini d’allora lo chiamava misterioso.
Ma questa è polemica, costume, magari malcostume; rumore che il tempo ha cancellato, facendovi scorrer sopra un silenzio pesante; e di un poeta non ci interessa la sua polemica ma la sua poesia. La quale egli ha raccolto in otto o dieci volumi. Letti in altra e ben lontana stagione, ne abbiamo ricordi come di povere cose. E poche cose, in vero, sono più false di quelle Figurazioni (1894) e delle Immagini terrene (1898) dove, nelle tradizionali sestine e ottave, è calata la peggiore imitazione dannunziana, con sfoggio di opulenze orientali e amori per bellezze sataniche e perverse. I versi si inanellano nei versi, con luci di gioiellerie procaci e suono d’oro falso. Meno ci interessano le Revolverate, del 1909, poesia sociale che canta, poniamo, il patto colonico e in forme prosaicissime e un poco da comizio. O il Carme dell’angoscia, con quelle tiritere di infiniti versi cacofonici ed epilettici, deserti d’ogni grazia e ispirazione. Nec ros, nec pluvia...
E le prose? C’è un romanzetto, pure a fondo sociale, che s’intitola Gian Pietro da Core, dove forse è possibile salvare una diecina di pagine per una Antologia. Ma, alla fine, è povera cosa, a tesi: storia dell’evoluzione di una idea; e ci voleva tutta l’imprudenza d’un critico a dichiararla «una delle più sode e salde opere di letteratura narrativa apparse dopo i Promessi Sposi». Così come sono dilettantesche e false le Nòttole e i vasi; scenette, poesie, racconti, che il Lucini finge tradotti da papiri greci. Pagine inutilmente malsane, fiori del male: è tuttavia il libro (insieme con la Piccola Chelidonio curata dal Linati) dove meglio appare l’arcidotto Lucini e la sua sensibilità malata di molti estetismi e prodigata con gesti disordinati. Può anche far pensare ad alcuni dialoghi di Luciano per certi toni e immagini, che ne troviamo di delicate. Quella, per esempio, del vasaio tanagrino che leviga un’olla «dalla bocca esigua come quella d’un bimbo che l’apre per meraviglia». O la schiava di Tabistha, la cui tunica «è un velo di fiato come esce d’inverno dalle froge d’un cavallo». O Batillo, che ha «occhi di pervinca, che se li baci, si fanno oscuri e profondi come le viole». Graziose; ma ne troviamo a manate negli alessandrini che egli rifà.
Quando nel 1902 Felice Cameroni (felice anche nell’ingegno) avvicinò il Lucini a Carlo Dossi, si riprometteva cose buone da questa amicizia; il contatto con uno scrittore spontaneo e fresco come il Dossi, avrebbe potuto portare il Lucini a quella purificazione che spesso è toccata ad artisti anche meno dotati di lui. Viceversa, mancò. Lucini non seppe superarsi, non onostante la sua persuasione in contrario: «Il mio maggior titolo è di essermi sorpassato». S’affezionò tuttavia al Dossi e, in suo onore, scrisse L’ora topica, con entusiasmo da iniziato e una stima che pare perfino umiltà verso l’amico più grande.
Alla sua morte, la Voce scrisse nel breve necrologio: «Penserà il tempo a scegliere in quelle sue creazioni che sono più una foresta che un giardino; e dove non è facile che l’occhio corra subito su un’aiuola o un fiore». Un po’ poco, per la rivista che l’aveva avuto collaboratore generoso.
Anche Linati lo commemorò in Sulle orme di Renzo. «Quest’opera ferraginosa mi fa l’effetto d’un gran campo d’erbacce dove ogni tanto c’incontri pure dei bellissimi rosolacci e delle magnifiche cicute». Un po’ poco, per un amico che l’aveva «pianto come un fratello».
Nel 1916 Mario Puccini, scegliendo dai suoi libri di poesia e di prosa, riuscì a mettere insieme un volumetto di centocinquanta pagine, per l’editore Carabba. Lucini già non poteva esser letto che così, in antologia. Ma noi temiamo che quel volumetto oggi debba ridursi d’una buona metà, o forse più. L’opera di Lucini interessa, più che i poeti, gli studiosi del costume e la storia dei movimenti letterari.

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(*) NOTA. Le pagine sul Lucini furono pubblicate sul Corriere della Sera. Quando uscirono, qualcuno — di parrocchia repubblicana — mi accuso aspramente d’aver cominciato fin dal titolo a ingiuriare il Lucini, sentendovi dentro non so che sufficiente compatimento. Naturalmente quel signore non aveva sentita tutta la buona pietà che, viceversa, era nel titolo; ma, peggio, non sapeva che quelle erano parole dello stesso Lucini. Racconta il Linati in Sulle orme di Renzo (pag. 41): «(Lucini) voleva fare del suo casone di Breglia una specie di Accademia letteraria alpestre dove convenissero amici e simpatizzanti dell’opera sua. Qui — mi diceva un giorno prima di morire — c’è libri a iosa, aria fine, stanze allegre, latte prelibato. Farete della poesia, del chiasso, delle passeggiate, e infine penserete anche a stu pover Lucini».
La Nota vuol difendermi da una accusa ingiusta, non certo continuare un pettegolezzo che non aiuta nulla e nessuno, né i vivi né i morti. Quanto poi al valore del Lucini, è quello che è, o quello che spesso il nostro giudizio vuole che sia; grande, nella mente del mio accusatore; un po’ meno, nella mia. (Ma Terenzio Grandi era spirito troppo onesto e generoso per restare dalla parte dell’accusatore; ed è bastato un incontro personale per riconciliarci nel caro nome del Povero Lucini).