CESARE ANGELINI FEDELTÀ LOMBARDA
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 191-199.
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Sul Mondo del 5 gennaio 1960, correndo il decimo anniversario della morte di Carlo Linati, Arnaldo Bocelli (un critico che in un cinquantennio di intelligente lavoro ha offerto ai colleghi molti spunti e idee), gli dedicava un articolo intitolato non senza qualche amarezza: Uno scrittore dimenticato.
La sua amarezza era anche nostra, nel vedere com’era bastato così poco tempo per dimenticare uno scrittore che aveva pure avuto un suo posto onorevole nella nostra letteratura tra gli anni 10 e i 30, e le sue pagine, frugali e stilisticamente sostanziose, avevano trovato sede in riviste i cui sollecitatori erano ora un Pancrazi e ora un De Robertis.
Si chiedeva il Bocelli come mai in tanta abbondanza di «opere complete» magari di giovani scrittori che sono sì e no al terzo libro, non si fosse mai pensato a mettere insieme una scelta delle più belle pagine di Linati, scrittore antologico per definizione. E aggiungeva: «È singolare che non vi abbia mai pensato Enrico Falqui, specialista in tali lavori amorosi e pazienti e che su Linati ha scritto pagine assai acute; né vi abbia pensato... » e faceva il nome di un altro che si era occupato di lui e gli era legato da un’amicizia che risaliva al fronte della prima guerra mondiale; al Linati in divisa di tenente del Genio.
Per la verità quell’altro ci aveva pensato, interessando uno dopo l’altro due editori milanesi, per i quali Linati «è, sì, un bello scrittore ma non interessa più il pubblico». Gli editori hanno ragione; la ristampa di Linati non è un’occasione che fa cassa. Linati deve scontare anche questo privilegio. Vogliamo tuttavia sperare che non manchi fortuna al proposito di qualche giovane di buona educazione letteraria che vorrà occuparsi di lui. A nostra volta, vorremmo far subito un nome, quello di Dante Isella che, avendo curato certi scomparti di Carlo Dossi (le Note azzurre), con la sua carica lombarda è certo il più preparato a riproporci il meglio di Linati, scrittore tagliato da quella stoffa.
Comunque sia di ciò, Linati resta uno scrittore d spiccata fisionomia e di pura e di felice ispirazione. Piacque al Papini dei giorni felici che lo ebbe commensale alla Voce e in uno svelto medaglione lodò lo stilista e il paesista. Piacque al Serra che, rammaricandosi di averlo conosciuto in ritardo, non potè includerne il nome nel libretto delle Lettere, ma dal fronte gli raccomandava la nostra poesia: «E la nostra poesia? Non se ne scordi lei».
La sua prima valida prova Linati l’aveva fatta nel 1912 pubblicando dall’editore Puccini Duccio da Bontà, pagine d’impianto narrativo, nell’intenzione; in realtà una fresca avventura di colori e di luci che si libera in momenti, in frammenti, fuori d’ogni intreccio che non esiste; a meno di chiamare intreccio quella ininterrotta disposizione o arte di goder le stagioni. Dicce Duccio: «Per me, accada quel che voglia, quand’ho il mio cielo, i miei alberi, il mio sole... », e lì è tutto Linati e il suo mondo, in cui si muove come un giovane fauno, quale appare nel ritratto disegnato da Ugo Bernasconi. Duccio è un dono che la Lombardia ha fatto alle lettere.
Nel ’14 lo troviamo alla Voce di De Robertis, tra Soffici e Papini e il primo Baldini, a testimoniare un gusto teso verso la prosa lirica. Preparava i Doni della terra, il volumetto che, uscito nel ’15, lo fece conoscere a un pubblico di intenditori, non al gran pubblico, ché non era quello il genere più adatto per la prevalenza dei suoi interessi quasi solo espressivi. Prosette monde, agghindate, ruminate, tirate a perfezione con lima e l’istinto di pulizia proprio dei lombardi; nelle quali si agita la nuvola d’una quercia miniata dall’autunno, o indugia un novembre lumeggiando di kaki, o trema un tramonto sospeso in una lustra aria di colli, o una limaccia che fa sua strada, dando tempo al tempo; e, su tutte, che le impreziosisce, una vaga malinconia dell’anima.
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Nel ’18 Linati parve comporre questo suo impressionismo nell’interesse d’un vagabondaggio narrativo: Sulle orme di Renzo. Alla scoperta del Manzoni? In fondo al cuore d’ogni lombardo che tiene la penna in mano, questa aspirazione c’è sempre. Ma non lasciamoci ingannare dal titolo. Rifacendo in bicicletta il viaggio di Renzo che fugge da Milano verso l’Adda, Linati vagheggia sue parentele con pittori e scrittori della sua terra, Dossi e Conconi, Rovani e Lucini e Correnti, con nostalgia verso il maestro di tutti, il Manzoni.
La gustosa prospettiva di essere sulle orme dei padri (il sottotitolo del libretto è pagine di fedeltà lombarda) gli dà un’aria più sciolta, accenti più cordiali. Fu un piccolo successo. Parve che Linati, scossa la polvere d’un suo estetismo (vetrino lo disse il Cecchi), andasse verso più larghe espressioni di umanità.
Ma, a parte che nel libretto erano troppo evidenti le saldature dei «pezzi», chi conosceva il naturale di Linati poteva giurare che dopo le pagine discorsive di quello zibaldone lombardo, sarebbe tornato al «genere» più suo. E, a distanza di pochi mesi, uscirono Nuvole e paesi, continuazione dei Doni; l’anno dopo, Amori erranti, della stessa qualità e tipo, che era poi quello in cui si attuava la sua verità, il suo impegno di stile.
Equilibrato e umile, mostrava sempre più d’aver imparato la lezione dai padri, se non proprio il loro riposo. Spirito troppo fermentante per essere antico (i primi vocalizzi li aveva fatti su Poesia, la rivista di Marinetti) Linati aveva l’ambizione di voler conciliare la novità con l’autorità della tradizione. Docile attitudine che indusse un critico troppo aguzzo a scambiarla per un fatto di attenzione grammaticale; dimenticando che questo artista pieno d’ossigeno e di forza è un potente stilista, a volte nitido come un prosatore latino, a volte alato come una natura biblica. Si vedano, in Nuvole e paesi, le pagine dell’Inquieto (il vento) che, apparso la prima volta su Raccolta, la rivista bolognese di G. Raimondi, ci danno la misura delle sue illuminazioni. («Tu, quando passi sui prati e vi fai lunghi brividi e sciamate come vipere e ramarri che corran sotto l’erba — vento vipera! vento ramarro! — e prendi le montagne su su fino al cielo con grandi attacchi d’orchestra, sì che le frasche rovesciate fan d’argento tutto il monte e il mareggio e sì unanime che par che tutta la montagna dondoli e si muova come nave ancorata in un porto. Agitatore, fai alleluiare i laghi e le marine, come canti di folle in una cattedrale»). Ditemi anche voi che questa pagina è di bellezza superba.
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Seguirono Le tre pievi o pagine lombarde che, nella loro forma di vagabondaggi, volevano essere la continuazione di Sulle orme di Renzo. È il tempo della sua collaborazione al Convegno, la rivista milanese fondata nel 1920 da Enzo Ferrieri per raccogliere in quello sbandato dopoguerra gli scrittori che avevano qualche cosa da dire, e che, trovandosi insieme, contribuissero a indicare qualche cosa a cui credere e a cui restare fedeli anche in letteratura.
Da quell’assidua collaborazione nacquero le pagine di Aprilante, A vento e sole, Passeggiate lariane: pagine luminose, ricche di impeti e di gioia elegante, in cui Linati dà l’impressione di fare dell’arte come fa dello sport, per un certo piacere di sanità e gusto di vita. Ma noi cominciamo a temere che questo elencare titoli di libri non significhi accrescimento d’arte ma solo di pagine. Era lo stesso «genere» a cui s’era applicato, che escludeva possibilità di evoluzione.
E ci fu un tempo (dopo il ’30) in cui Linati tentò di prendere il largo, un più pieno contatto con la vita, buttandosi a scrivere romanzi e novelle, che è inutile nominare. Una evoluzione sì, ma nel senso esteriore e deteriore. Scivola verso il mestiere, diradandosi l’impegno del controllo e la coscienza dell’arte. Nuova conferma che il dono (il paese, la nuvola, l’albero) egli sapeva laboriosamente dominarlo e concluderlo, come un frutto che matura al sole e al vento; non la figura umana e le anime sceneggiate.
Innamorato della sua terra, le sue pagine migliori («le più scritte», direbbe De Robertis) si risolvono in una cara fedeltà lombarda; e questo ha portato qualcuno a chiamarlo manzoniano. Ma il Manzoni è una forza morale, una verità che ci libera in un alto riposo di stile e di anima; mentre Linati è modernamente troppo inquieto perché il suo naturale punto di inserzione non sia da collocare nel nostro tempo di crisi e di decadenza. A Linati manca quel supplemento d’anima. Dal gran romanzo manzoniano egli ha derivato solo l’elemento paesistico e il suo nitore. I suoi maestri sono altri; il Dossi, per esempio, e quelle sue pagine gocciate di vocaboli inconsueti e falòtici, e pittorescamente dialettali; rimanenze di una «scapigliatura» nobile e finita.
Un bel servizio glie lo ha reso Sergio Solmi nel 1951, curando per le Edizioni della Meridiana Nuvole e paesi, che coi Doni della terra resta uno dei suoi libri migliori. Le pagine (non dico tutte) sono ancora lì, fresche, giovani, con tutto quel vento, quel sapore di terra, e la religione del paesaggio nel quale egli si muove quasi alato e mitologico. Godono ancora del fresco dell’ispirazione di quando sono nate in quel 1918 dopo Cristo.
[1968]
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Fotografia di Carlo Linati militare con dedica a Cesare Angelini
Centro Manoscritti Università di Pavia |
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