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CESARE ANGELINI

SOLITUDINE DI RECANATI

In C. Angelini, Nostro Ottocento,
Bologna, Boni Editore, 1970, pp. 197-202.

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Recanati, Casa Leopardi


Penso che per creare il vero e genuino incontro con la poesia di Leopardi, sia sempre utile portarci alle sue origini prime; al luogo, non dirò che l’ha vista nascere, ma che l’ha fatta nascere: la solitudine di Recanati, vissuta spiritualmente e intensamente. Recanati è la quota o il poggio aereo da cui Leopardi sorprese il mondo. E cos’è che la colma questa solitudine? Le grandi letture nella biblioteca che il padre Monaldo, apparentemente dissipando il patrimonio, aveva voluto preparargli ricca, provvedutissima per allora, come poche altre in Italia. Letture degli antichi, greci, latini, i suoi classici. Dai dodici ai diciotto anni, ricapitola in sé tutta la cultura classica, voltando via montagne di letture. È il periodo della filologia, che gli darà una base saldissima e farà di lui, come usa dire (e molto ci insistette il Cardarelli) un poeta filologo. Leopardi conosce già il metodo, anche il metodo, della sua cultura, che non può dunque fallire: ha già indovinato quello che deve scoprire e il modo come lo deve scoprire. Perché, oltre le letture, c’è un altro fatto pieno di meravigliosa importanza, notato dal De Robertis: il suo tradurre, quel suo strenuo tradurre, che è una lettura più lettura; un «dimorare» foscolianamente nel proprio autore, un vedere più addentro alla parola poetica. Tradurre dai greci, tradurre dai latini; soprattutto dai greci: Platone, Isocrate. Mopso. Ora, proprio qui, nella passione del tradurre ci è dato di scoprire l’essenza della sua anima, del suo temperamento d’artista che ha indovinata la via giusta non soltanto per conquistare l’espressione del suo autore, ma per trovare la sua. E già da qui, scopriamo il segreto della sua poesia, realizzata attraverso i valori essenziali, con la spogliazione d’ogni valore provvisorio e caduco. Proprio quel suo tradurre lo metteva in contatto di quello che era essenzialmente nel mondo antico da cui traduceva e di quell’arte adulta e perfetta, che gli dava il fastidio dell’esornativo e delle blandizie così lontane dalle cose assolutamente belle. Traducendo si nutriva; alimentava i modi e le cadenze sue: preparava il suo tono, il suo canto.
Che comincia nel 1816, quando avviene la sua conversione letteraria, o passaggio dalla filologia alla poesia. E ne era ben preparato. Non sappiamo se allora il Leopardi fosse proprio persuaso di quello che oggi è il fondamento estetico d’ogni spirito moderno e avvertito; cioè che poesia è linguaggio. Sappiamo, ed è più bello, ch’egli già possedeva il linguaggio che era poesia. Già aveva compiuto quell’assorbimento di fatti stilistici, di segreti, di «aura poetica» che saranno poi la magia e la grandezza dei Canti.
Questo recupero sul tempo antico, ottenuto attraverso l’intensa consuetudine dei greci, dei latini, lo porta vichianamente a risalire a ritroso il cammino dell’umanità, fino alle sue origini, fino a coglierla nel momento ancora biblico della sua felicità. L’umanità giovane, fanciulla; diremo di prima della caduta. Nostalgia per l’infanzia del mondo, che rivela, intendetemi bene, un cristianesimo segreto. Perché l’idea di una purità originaria, incorrotta o, meglio, la nostalgia d’una beatitudine favolosa, sorrisa da una compiacenza divina, è storia cristiana, d’un cristianesimo vichiano; e il canto di Leopardi potrebb’essere la trascrizione musicale della visione affannosa del Vico. Nessuno era più adatto a fantasticare di lontananze originarie. E ora più che mai ce lo figuriamo, «eremita dell’Appennino», nell’immensa solitudine del paesaggio recanatese, di cui parla in un punto dello Zibaldone come «d’una veduta stretta e confinata» che desidera l’anima, la quale immagina quello che non vede e va errando in uno spazio immaginoso.
Da quella romita altezza osservava l’andamento delle umane vicende, e le cose presenti e le passate. E se gli bastava la vista «di quel lontano mar, quei monti azzurri» per fingersi arcani mondi e interminati spazi; il canto d’un villano nella perduta solitudine della notte seguente il dì festivo, gli dava balzi fantastici verso età lontane e l’eterno fluire d’ogni umana opera nel nulla. O il vento stormire tra le piante del suo colle, perché si sovvenisse l’eterno e le morte stagioni, e annegasse in quell’immensità. Ne nacquerò gl’inni alla Primavera e ai Patriarchi che, se non sono inni grandi, sono grandeggianti nell’evocazione di paesaggi cosmici e di momenti felici da vecchio testamento. La nostalgia per l’infanzia del mondo e dei suoi miti, lo porta facilmente a vagheggiare quello che nel mondo rimane di fanciullo, e il fanciullo. Istruttiva, a questo proposito, la chiusa del Sabato:


Godi, fanciullo mio, stato soave,
stagion lieta è codesta...

Briciole di felicità, ch’egli riconosce ancora alla fanciullezza; la quale è per l’individuo ciò che quelle età furono per l’umanità.
Da quelle lontananze fantasticamente intraviste e raggiunte con la sterminata fantasia, cogliendo l’umanità nel suo stato felice, il poeta la vede poi nella sua caduta; che non è esattamente quella biblica ma molto l’adombra. È l’allontanarsi dalla culla, dal’infanzia, il farsi adulta, con la perdite delle illusioni e degli ameni inganni, per il sopraggiungere della riflessione e dell’arido vero: la conoscenza del dramma umano, il male del vivere. Il poeta risoffre in sé quella caduta, e accompagna l’umanità nel suo discendente cammino di dolore. E con un linguaggio ora pietoso ora irato, ne lamenta il troppo amaro destino. Ne nasce quello che fu detto il dolore mondiale, che è lo scioglimento e l’approfondimento del suo dolore personale; e il mondiale e il personale si fondono così intimamente insieme da farne un unico dramma, anche se può esser ragionato in due momenti e magari in due forme.
Compagno dell’umanità nel suo cammino di dolore, il poeta ne diventa, ne vuol diventare, il consolatore che, consolando, riconcilia e redime. E lo diventa attraverso quel suo linguaggio che egli sa parlare, attraverso la parola trasfigurata e trasfiguratrice, che fa della poesia una partecipazione — conscia o inconscia — della Grazia divina. Anche i motivi più dolenti della sua poesia riappaiono purificati nel tono dell’espressione, e la vanità e la morte e il nulla. Sono redenti nel momento del canto, nell’atto stesso in cui sono rappresentati.
Accade, a questo punto, una specie di incantesimo. Leopardi afferma l’infinita vanità del tutto; e il suo canto, ecco, valorizza la vita, e invoglia terribilmente a vivere. Invoca la morte, ma nella sua poesia il sentimento della morte diviene quasi una fede. Canta il dolore dell’umanità, ma porta l’anima alla presenza di paesaggi sereni, di orizzonti chiari, consolati. Par negare Iddio, e i canti ne sono una continua affermazione, nella perenne esigenza d’assoluto e d’eterno. Gli è stata negata — quasi — la giovinezza, ed ecco, riesce a trattenere la giovinezza nel mondo. Ha negato tutti i valori della vita, e giunge a produrre un così alto valore quale è la poesia. Sono le antinomie di cui parla il De Sanctis, che non avrebbe potuto risolvere né la filosofia né l’azione; ma nell’animo di Leopardi le risolve la poesia, e il suo linguaggio vincente. Disperazione, pessimismo, polemica con la vita — e il peso schopenhauriano — cosa contano più? Erano aspetti caduchi; dunque, non suoi. Suo è l’eterno. Cadono i canti del dolore, i canti del pessimismo (come cadono i canti della patria). E rimangono i canti; puri, nudi, assolutamente belli. Cadono le critiche psicologiche che parlavano della poesia del Leopardi e ci nascondevano la poesia del Leopardi; volevano servire alla conoscenza del suo canto e, proprio esse, ne ostacolavano la conoscenza. Libero e felice, resta il donatore dei canti, dei canti di vita. Pensate alle rimembranze, agli idilli odorati di primavera e di festa, ai notturni irrorati di luna, alla voce di Silvia. Nelle parole inventate o, meglio, lontanamente preparate, nell’armonia celeste dei versi, nel loro «tempo» magico, nelle immagini dei paesaggi stupendi, il poeta che ha risofferta in sé la rovina dell’età favolosa — giovinezza del mondo — ci restituisce ora quell’infanzia perduta, quel perduto paradiso. Il suo canto rigenera l’innocenza dei giorni primitivi.
Miracolo della poesia che ha risolto in lui le contraddizioni più amare, riconciliandolo con sé stesso e con la vita. Ma anche miracolo del nostro amore per la sua poesia. Il poeta che tanto chiese amore in vita, non poteva essere pienamente inteso senza il nostro amore.

[Pavia, 1949]


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Biblioteca di Casa Leopardi

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