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CESARE ANGELINI

CANTI E VOCI DI RECANATI

In C. Angelini, Nostro Ottocento,
Bologna, Boni Editore, 1970, pp. 179-190.

***


Recanati


A un certo punto dello Zibaldone nel quale segnava ogni giorno le sue esperienze di letture e di vita e i ricordi dei giorni remotissimi e dei presenti, il Leopardi trascrive alcuni canti o canzonette popolari che si cantavano a Recanati in quei suoi giovanili anni 1818-1820. Quartine, distici, principî di canti; piccole cose la cui grazia, come avviene, è spesso affidata all’aria che meglio ne esprime il sentimento, e senza la quale poi restano le parole mortificate e sole.


Fácciate alla finestra, Lucïola,
Decco che passa lo ragazzo tua,
E porta una canestrello pieno d’ova
Montato colle pampane dell’uva.

*È già venuta l’ora di partire,
In santa pace vi voglio lasciare.

*Nina, una goccia d’acqua, se ce l’hai;
Se non me la vuoi dà, padrona sei.

*Io benedico chi t’ha fatto l’occhi,
Chi te li ha fatti tanto innamorati.

*Una volta mi voglio arrisicare,...
Nella camera tua voglio venire.

Ora che il Leopardi abbia trascritto questi canti, può anche non avere un grande importanza. C’è sempre, prima o poi, un professor Antonio Giannandrea che farà puntualmente la Raccolta dei canti marchigiani fino al 1860. Più importa conoscere l’impressione che questi canti facevano sull’animo suo, come gli andavano al cuore quando li sentiva cantare; la commozione che gli davano e lo facevano tanto fantasticare, specialmente se uditi nella perduta solitudine della notte. E questo è pur detto in più d’un luogo dello Zibaldone: «Canto notturno dei villani a tarda notte, seguente il giorno festivo; e pensieri medesimi che ne seguivano». E altrove: «Dolor mio nel sentire a tarda notte, seguente al giorno di qualche festa, il canto dei villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente ripensando ai romani così caduti dopo tanto romore; a ai tanti avvenimenti ora passati che io paragonavo dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce e di quel canto villanesco». Ancora: «Canti e arie, quanto influiscono mirabilmente e dolcemente sulla mia memoria». «Principio del mondo immaginato in udire il canto di quel muratore, mentre io componevo...». «Canto mattutino di donna, allo svegliarmi. Canto delle figlie del cocchiere, e in particolare di Teresa...». È ascoltando questi canti che gli verrà fatto di stendere quel vivaio poetico che sono Appunti e ricordi, dai quali poi, per lenta incubazione, nasceranno gli idilli migliori, e le Ricordanze. Qui sorprendiamo i primi e più freschi segni del suo stato d’animo nei momenti della concezione poetica.
Canto popolare come suscitamento di emozione, come condizione di poesia e quasi preistoria di essa. Quel frammento drammatico su Maria Antonietta, scritto a sedici anni, gli accade di appuntarlo mentre udiva un canto malinconico di popolane. E forse ricordate l’altro giovanilissimo frammento intitolato «canto di fanciulla», primo timido affacciarsi del suo canto e quasi lontano precedente d’un idillio maggiore:


Canto di verginella, assiduo canto,
che da chiuso ricetto errando vieni
per le quïete vie, come sì tristo
suoni agli orecchi miei? Perché mi stringi
sì forte che il cor a lagrimar m’induci?

Lasciate che l’emozione si condensi, e diventerà motivo vero dei suoi canti — poniamo — nella Sera del dì di festa:


...ahi per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian
che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core
a pensar come tutto al mondo passa
e quasi orma non lascia.

E un po’ più avanti il motivo torna, non meno suggestivo, non meno intenso:


Nella mia prima età quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume, ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire poco a poco

già similmente mi stringeva il core.

Che se il canto solitario e notturno lo accora, e gli fa fantasticare di età lontane e dell’eterno fluire d’ogni umana opera nel nulla, il canto diurno, che fa risonare le vie del borgo, gli dà speranza e baleni di giovinezza.


Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e, tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quïete
stanze e le vie d’intorno
al tuo perpetuo canto...

È il canto di Silvia al telaio, che nell’aureo giorno entra col profumo dei campi per l’aperta finestra della stanza dove il poeta lavora, e lo turba dolcemente e gli stimola il canto immortale. Il poeta l’ascolta; d’ogni rumore del giorno non ode, non ricorda che quel canto:


Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte... porgea gli orecchi al suon della tua voce.

O è la voce di Nerina:


O Nerina, ove sei, ché piú non odo
La tua voce sonar...

Recanati è un paese tutto nel canto; la gente s’aiuta a lavorare cantando:


Sentia le valli risonar del canto d’agricoltori...;

un frammento che vive spesso nello Zibaldone, e pare una prova dei versi che torneranno nell’idillio alla sua donna:


...per le valli ove suona
del faticoso agricoltore il canto.

E se insistessimo nel dire che Recanati nei versi del poeta pare un vero cantico delle creature, aggiungeremmo volentieri quel passero solitario che


In sulla vetta della torre antica
cantando va fin chè non muore il giorno;

e un’altra volta sorprendiamo il poeta, di notte,


mirando il cielo ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna;

e, nella Quiete, ascoltare «augei far festa» e la gallina tornata sulla via che «ripete il suo verso».
Ci porta a dire che gli effetti che provava al canto, il poeta li provava ancora ai suoni, alle voci di persone e di cose:
«Sento dal mio letto suonare l’orologio della torre. Rimembrare di quelle notti estive nelle quali, essendo fanciullo e lasciato il letto nella camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio, sentivo battere tale orologio». È il precedente inevitabile d’un luogo delle Ricordanze, forse il più bello:


Viene il vento recando il suon dell’ore
dalla torre del borgo.

O è lo stridore notturno delle banderuole, traendo il vento. «Mio giacere, d’estate, allo scuro, con la luna annuvolata e caliginosa, allo stridore delle ventarole, consolato dall’orologio della torre...» O il vento tra le piante: «sussurrando al vento — i viali odorati». O la campana del borgo, che dà il segnale della tempesta, o della festa che viene. O tintinnio di sonagli: «Odi anacreontiche, composte da me alla ringhiera, sentendo i carri andanti e il tintinnio dei sonagli». Preziose per queste voci del borgo, sono le pagine degli Appunti. Voci di donne nella notte, con un che di incantesimo e vago; e una consiglia, per riso, alla compagna sedente alla luna di porsi le braccia sotto il zendale, perché secondo i villani la luna fa nere le carni. O è la figlia del cocchiere, che, affacciatasi alla finestra a lavare un piattello, dice a quei di dentro: «Stanotte piove davvero. Se vedeste che tempo: nero come un capello» e poco dopo, con la voce, ch’era parsa un emissione di luce nel buio, sparisce il lume della finestra. O è il suono delle porte e dei catenacci. In Recanati ogni cosa ha una voce — Nil sine voce poëtae.
In questo modo, canti, voci e suoni prestano le parole e le sillabe al nascere dei canti del poeta; isolati o corali, di persone o di cose, questi canti, queste voci, sono entrati come motivi e tessere della sua poesia; e i colori dell’aria e i sapori della terra.
A nessun altro poeta mai, è capitato un fatto così, e proprio per la stessa natura dei canti, nati tutti nel suo paese, dal suo paese.
Pensate a un Manzoni e ai suoi inni e alle sue odi, che appartengono alla liturgia e alla storia, non a una terra fissa. O pensate al Foscolo e alla sua varia produzione; varia come i paesi e le terre e le donne che l’hanno ispirata; poeta senza piccola patria, senza dimora, senza amore fisso. Ma i canti di Leopardi sono nati tutti lì: canti autòctoni; quadri fatti con colori macinati lì; monumenti costruiti con le pietre cavate da lì. Parlo naturalmente dei primi e grandi idilli: i veri canti di Recanati.
Cecchi ricorda che in vista del Garda, Goethe rammentò il verso:


Fluctibus et fremitu adsurgens, Benace, marino...

commentò: «Era il primo verso latino, del quale vedevo davanti a me l’oggetto vivente».
Entrando in Recanati, ci incontriamo con gli oggetti viventi dei Canti. Si può chiudere il libro, restano le illustrazioni: la torre del passero, il colle dell’infinito, il fiume nella valle con l’errante armonia, e il paterno ostello; e poi l’artigiano e la siepe e la donzelletta, e poi quel mare lontano, e quei monti azzurri, e il libero cielo.
Si direbbe dunque che il Leopardi debba aver amato il suo paese fino all’innamoramento, se questo lo urgeva con tutte le sue voci e i suoi aspetti diversi, e gli donava pensieri immensi, dolci sogni. Sappiamo invece che cosa ne pensava. E ci par cosa di cattivo gusto, ripetere ora quel luogo delle Ricordanze fin troppo noto, com’è fin troppo aspro:


Né mi dicevi il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumar in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil...

Ma più aspre certe lettere al Giordani; quella del marzo ’17: «Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’odio alla patria, per la quale se Codro non fu timidus mori , io sarei timidissimus vivere». O l’altra del 30 aprile: «Oh chi avrebbe mai pensato che il Giordani dovesse pigliar le difese di Recanati? Carissimo Giordani mio, la causa è tanto disperata che non basta il buon avvocato, né le basterebbero cento. È un bel dire: — Plutarco, l’Alfieri, amavano Cheronèa e Asti. Le amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarà lontano; ora dico di odiarla perché vi son dentro; ché finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori». La patria dell’anagrafe non era la patria dell’anima.
Ne nasce una situazione paradossale, tragica: d’un paese così vivo nel canto e così odiato nel cuore. La natura, che gli era rimasta così avversa da negargli tutte le cose — «senz’amor, senza vita...» — lo ha messo nella condizione più felice di sentire la voce del suo paese, facendolo il più ricco e dovizioso. Tanto che se il poeta lirico è il poeta di sé stesso e dei suoi personali sentimenti, nel caso del Leopardi quel sé stesso è così compenetrato degli elementi del suo paese, da essere poeta lirico proprio in quanto è il poeta del suo paese.
Che il Leopardi dice di odiare; e proprio da esso riceve tanta ricchezza che è la condizione della sua poesia, della sua felicità di canto. Dante, nel fatto di dover vivere in esilio, trova la condizione dei canti della Commedia; Leopardi, dal fatto di dover vivere in Recanati, trova la poesia dei suoi canti, che nasce proprio dal fatto di vivere in patria.
E ci pare di potere spiegare questa contraddizione, isolando un errore di passione. Le parole ingiuriose contro il paese sono ancora dell’uomo irritato da inevitabili circostanze amare: sono dunque un documento di puro valore psicologico e polemico, che una intelligente biografia dovrebbe finalmente lasciar cadere. Lì, la poesia non c’entra. Sappiamo dove sono le sue parole più alte. L’uomo Leopardi può scrivere: «Odio Recanati, questo natio borgo selvaggio». Ma la poesia lo prende e, quasi a sua insaputa, lo obbliga a scrivere:


Sempre caro mi fu quest’ermo colle...

L’uomo può lamentarsi con versi opachi: «questo soggiorno disumano...». La poesia, a sua insaputa, lo obbliga a cantare con luminosa commozione:


«Qui non è cosa
ch’io vegga o senta onde un’immagin dentro
non torni e un dolce rimembrar non sorga».

Nella sua passione d’uomo irritato, può ancora sfogarsi contro


...una gente
zotica, vil

tra la quale consuma la sua giovinezza. La poesia che gi riempie l’anima di luce, lo invita a scrivere con bellissimo senso paesano:


La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di vïole...
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
domani, al dì di festa, il petto e il crine.

Lo invita a scrivere:


Tutta vestita a festa
la gioventú del loco
lascia le case e per le vie si spande;
e mira ed è mirata e in cuor s’allegra.

che è una comunione col suo paese, con tutta la gente del suo paese; e il poeta ritrova il suo sorriso ineffabile, celeste.
Il natio borgo selvaggio non c’è più. Anche noi, salendo la collina di Recanati da pellegrino e da innamorato, abbiamo trovato il borgo dentro l’aureola di luce che gli ha messo sul capo e forma per sempre la sua alta e gentilissima civiltà. E salendo il colle dell’infinito, e camminando per il viale del passero solitario, e sostando su la piazzola del villaggio che guarda la casa di Silvia, ci pareva d’esser dentro il libro d’ore della nostra più pura religione letteraria. E un’altra cosa dirò. Quando il Leopardi nel far poesia si stacca dall’idillio — l’idillio è di marca recanatese — la sua poesia perde quella limpidezza, che è la sua essenza; si indebolisce; va verso motivi filosofici, storici, si mortifica nell’erudizione o nel ragionamento. Vedetelo, per esempio, nella Ginestra, che è degli anni di Napoli. Non vogliamo diminuire la grandezza e solidità di quel canto; e nemmeno quello d’Aspasia, pure composto alle falde del Vesuvio; diciamo che è un altro poetare. E si potrebbe parlare di un contrasto tra la poesia di ispirazione recanatese e l’altra.
E il Canto di un pastore per i deserti dell’Asia? Per quanto trasferito nel deserto, il canto è nato nel «natio borgo». Viene anch’esso, come da precedente inevitabile, da quella nota e da quello stato d’animo fissato nello Zibaldone sui canti notturni; e va verso i valori universali che segnano l’orizzonte sconfinato degli idilli. Verso i quali — non è senza significato — andava pure la sua simpatia; se una volta, scrivendo alla sorella Paolina, apertamente le dice: «Dopo due anni ho fatto dei versi con quel mio cuore d’una volta». Era l’aprile del ’28, data dell’idillio a Silvia.
Ora noi che andiamo raggiungendo i Canti attraverso queste esperienze, in partenza e per nostra comodità li abbiamo intitolati Canti di Recanati, tanto li sentivamo e sentiamo voce di questo paese. Il Leopardi non li intitolò così (come il Pascoli intitolerà Canti di Castelvecchio e lo Zanella Sonetti dell’Astichello) ma semplicemente Canti. Può darsi che il poeta non fosse del tutto consapevole dell’ambiente che aveva creato i motivi ispiratori del suo canto; se un certo momento lo chiamò «natio borgo selvaggio». Certo era consapevole del valore dei suoi Canti; e, in modo umile — come conveniva alla sua grandezza — nella semplicità nuda del titolo affermò il loro valore universale ed eterno: di canti che valicano i limiti del tempo e d’un paese.


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  Vedi anche altri studi di C. Angelini su Giacomo Leopardi