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CESARE ANGELINI

UNIVERSALITÀ DEI CANTI

In C. Angelini, Nostro Ottocento,
Bologna, Boni Editore, 1970, pp. 191-195.

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Autografo de L’Infinito

Biblioteca Nazionale, Napoli


Non era cosa in Recanati che non avesse voce per lui: nil sine voce poëtae: Silvia o Nerina, l’ermo colle e il fiume chiaro nella valle, il passero solitario, il suon dell’ora della torre del borgo, la luna sovra i tetti e in mezzo agli orti; la donzelletta, il zappatore, l’erbaiolo, la piazzola coi fanciulli che fanno lieto rumore; i viali odorati e le tranquille opere dei servi; la lucciola alla siepe, la rana rimota alla campagna, e la gallina sulla via che ripete il suo verso. Il suo paese è, insomma, il suo paesaggio, unicamente amato, reso con una limpidezza ch’era frutto di attenzione umanissima e pia.


...Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Ma ogni volta che leggiamo i Canti, ci accorgiamo che a qualunque paese si appartenga, in qualunque ora e momento si leggano, ogni cosa ha una voce anche per noi: nil sine voce nobis. E dire Recanati, risponde dentro un’eco profonda, qualcosa che è cresciuta con noi, con la nostra anima vera. Recanati, dopo il canto del Leopardi, non è più solo un paese delle Marche, ma una capitale della poesia, un paese dell’anima. Quelle cose, trasferite nei Canti, sono mirabilmente comunicate a tutti, e la sua poesia diventa una grande comunione. Partiti da un paese rimoto, i Canti sono diventati universali. Guardate Silvia. Nell’anagrafe del municipio e nel registro parrocchiale, ci sta col suo nome e cognome e anno d nascita. La biografia aggiunge che era la figlia del cocchiere di casa Leopardi, e il contino la teneva d’occhio; forse se n’era anche innamorato. E Silvia lo meritava, con occhi ridenti e fuggitivi, con quelle negre chiome, e quella voce che nel maggio odoroso dorava le vie e gli orti. Una realtà di Recanati, che veramente videro gli occhi del poeta, «cara compagna dell’età sua nova». Ma Silvia, la conosciamo anche noi: è creatura che ci appartiene per sempre. Ciascuno di noi sente questo «particolare» come l’ha vissuto il poeta, e in ogni fanciulla, non soltanto di Recanati, vede rivivere Silvia, diventa simbolo, mito.
Dite lo stesso della torre del borgo e il suon dell’ora recata dal vento, o certi chiari di luna, o il sabato del villaggio o il ritorno della quiete dopo la tempesta. Sentiamo che sono «particolari» di Recanati, e sono anche nostri. Allora hanno parlato al poeta, al suo paese; attraverso i Canti continuano a parlare a noi, a quelli che verranno dopo di noi, fin che ci sia uno capace di leggerli o di cantarseli, in qualunque punto della terra li legga o li canti. Suono di ore, lume di luna, voce di vento, lento canto di artigiano nella notte festiva, sono anche le nostre esperienze, le nostre sensazioni alle quali il poeta ha dato la sua musica, per sempre.
Si dice: è il miracolo dell’universalità. Quel «particolare» — cosa privata, transitoria e vista dagli occhi d’un uomo pur destinato a morire — è diventato universale. Quelle piccole realtà si sono spogliate dal loro contingente e hanno acquistato un valore eterno; così appartengono a noi per quella felice contemporaneità che è privilegio e dono della grande poesia. La quale sfugge dal tempo, e ci accompagna nei secoli ed è sempre con noi.
E torniamo a domandarci: «Com’è avvenuto?» Se riuscissimo a dire che cos’è la universalità di un poeta, avremmo trovata la chiave della poesia, e avremmo risolto le quistioni e le estetiche che ci divertono — o affaticano — da Platone a Kant a De Sanctis a Benedetto Croce: tutto un mirabile sforzo di penetrare entro il mistero della poesia.
Qualcuno ha parlato di contrasto tra realtà e spirito, tra razionalità e affettività, aggiungendo che dall’attrito di queste due realtà ne sprigiona la scintilla che ci dà la poesia. L’affermazione è pericolosa; porterebbe a una poesia che non è la materia e non è lo spirito, ma è una terza cosa: il risultato di questo contrasto. Mentre i valori veri sono due: il contenuto della vita del poeta e il contenuto della sua poesia. Il cuore del poeta filtra il primo e nasce il secondo. Insistendoci un poco, vorremmo domandare come di un contenuto di vita così negativo come fu quello del poeta, nasce questo valore positivo che è la sua poesia. Quel che si può dire è che il mondo individuale filtrato traverso il cuore del poeta, si è come transustanziato. Dunque, non di contrasto si deve parlare, ma, ripetiamo, di filtro, attraverso il quale passa la realtà (la materia, insomma) e diventa la sua parola, il suo canto; questo mistero di cui si cerca di dire poi cosa sia ma non ci è dato sapere. Sappiamo che c’è, perché c’è il suo miracolo, cioè la virtù di dare vita eterna alle cose fuggitive. Del resto, poesia è un momento di creazione, e, come in ogni creazione, il suo proprio trascende ogni nostra estetica e ricerca. Quello che è vero è questo: il mondo particolaristico — il particolare: il suon dell’ora, il canto del passero — filtrato attraverso il cuore del poeta, diventa di tutti, universale; esiste per sempre, cioè si fa eterno. Filtro anche nel senso magico di incantesimo, se arriva a una vera trasfigurazione, a una transustanziazione. Lo stesso uomo Leopardi viene trasfigurato nella sua poesia. Leggendo i Canti, nessuno di noi pensa la figura del poeta come ce la dà la biografia: quella figura malforme, quel ritratto insufficiente. Alla trasfigurazione della materia, la poesia fa seguire la trasfigurazione del poeta.
E non per nulla nella sua vita c’è l’incontro col Tabor, il colle dell’infinito; un nome destinato.
Ora ci siamo accorti d’una cosa molto bella: che, nel parlare della poesia di Leopardi, abbiamo improvvisamente abolito i limiti in cui gli schemi della critica scolastica la tenevano un poco prigioniera; il pessimismo, e il romanticismo e il classicismo, che erano ancora valori individuali; ma, leggendo un Canto — qualunque — ci accorgiamo che esso annulla l’elemento individuale, suo, e sentiamo che ci appartiene. Non ci sentiamo più soltanto l’esperienza del poeta, ma la nostra e i nostri sentimenti e sensazioni e visioni paesistiche; nostre e di tutti.
E l’aver trovata questa universalità del Leopardi, vuol dire esserci, forse, umilmente avvicinati all’essenza della sua poesia.


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