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CESARE ANGELINI

POETA RUSSO A PAVIA

In C. Angelini, Il piacere della memoria,
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1977, pp. 19-27.

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Venceslao Ivanov all’Almo Collegio Borromeo di Pavia, dove fu ospite dal 1925 al 1936, con il rettore Leopoldo Riboldi. Venceslao Ivanov insegnava agli alunni del collegio, tedesco, inglese e russo.


Ignorantissimo di russo, Dio mi guardi dal parlare della poesia di Venceslao Ivanov, o anche solo da fare il censimento delle opere che gli hanno data una così splendida grandezza e meritato il titolo di «Venceslao il Magnifico».
Di lui posso ricordare solo alcuni incontri e ricordi di quand’era in Pavia, ospite del Collegio Borromeo, nel decennio 1925-1936.
Il rettore d’allora, don Leopoldo Riboldi, gran mecenate e signore, ne fissò l’impressione dell’arrivo in una nota esemplare, degna di comparire nei manuali di storia letteraria. «Era sui sessanta, quando varcò la soglia del Borromeo il 17 marzo 1925, giorno di San Venceslao, il suo onomastico. Stanco del viaggio, l’esultante padiglione del Pellegrini lo rianimò in una allegrezza di stupore, lo trasfigurò nell’Ivanov che ammirammo poi sempre: florido vecchio inalterabilmente modellato nella saggezza di quella età culminante. Erudito quanto Erasmo, ma senza ombra di scetticismo nello sguardo acuminato. Poeta alessandrino, assaporava la bellezza con candida voluttà; ma, soprattutto, cristiano di antica liturgia. Dioniso in dalmatica bizantina, diffondeva la serenità pensosa e festiva di Basilio, il monaco della mondanità illibata».
In quei giorni, lo vedemmo anche noi e, in seguito, più a lungo. Nella chioma candidissima e nell’oro dei grandi occhiali cerchiati sul volto roseo e pienotto, pareva si fosse portato dietro l’aureola delle sue icone; e se, d’inverno, al cappello a larga tesa sostituiva il caratteristico berretto a pelo, aveva l’aria di un pope a passeggio per le vie della città.
Parlava della Russia con nobiltà, col pio distacco dell’esule; ma egli, che pur veniva tra noi dopo gli anni tragici e sofferti della rivoluzione, non era un esule politico, non aveva parole amare per nessuno. Diceva, se mai, che «bastano i fatti ad accusare le dottrine; le parole che noi potremmo aggiungere, calunnierebbero forse le persone e le intenzioni». La Russia, continuava ad amarla con chiuso ardore d’anima; l’aveva lasciata per uscire dal clima leninista che, avendo ucciso il sacro, offendeva la «santa Russia», così cara al cuore del suo maestro Soloviev.
Rispettoso della Ortodossia, non poteva più tuttavia respirarne lo spirito scismatico, convinto com’era della unità e della cattolicità. E il 17 marzo del 1926, giorno del suo onomastico, se ne distaccò piamente ma risolutamente, anche a costo di dare qualche dispiacere al suo amico Merezkovskij, e non a lui solo.
Al Borromeo, come grazioso ricambio della ospitalità che riceveva, insegnava agli alunni il russo, il tedesco e l’inglese; e sono ancora ben vivi quelli che lasciavano il Ticino e la barca per ascoltare le sue lezioni.
Le quali continuavano poi in conversazioni di tono più alto con gli amici che s’era fatto nell’ambiente universitario della città. Lettore onnivoro, parlava di induismo con l’indianista professor Luigi Suali che in quegli anni aveva pubblicato l’illuminato e la Dottrina di Budda. Discorreva di cose orientali con un biblista d’eccezione qual’era Nascimbene. Con la connazionale signora Jenny Kretschmann-Griziotti che, per ragioni di studio aveva lasciata la Russia prima di lui e poi s’era sposata a Pavia, rammemorava la patria, lamentandone gli sconvolgimenti storici e ideologici. E sfavillanti dispute su Spengler e su altri profeti della parusia aveva col giovanissimo Beonio-Brocchieri, docente di dottrine politiche e già d’allora magnifico sperperatore d’ingegno. Si creava così una specie di laboratorio spirituale nel quale ciascuno poteva portare i suoi problemi e interessi; e al mistico Ivanov pareva di «chiamare la Sapienza increata a trovare le sue delizie coi figli degli uomini». Ivanov incarnava in sé la missione della genuina anima russa, che era quella di diffondere il misticismo nel mondo. Lo stesso esercizio della poesia era per lui un ufficio religioso attraverso il quale restituiva a Dio le cose del suo creato.
Rissavano in lui, per così dire, tre anime: quella del filologo che a Berlino s’era meritata la lode del grandissimo Mommsen con una tesi in latino sulle imposte dell’antica Roma; quella del filosofo che s’era impossessato dei greci e dei loro miti, specialmente dei misteri di Dioniso, il dio sofferente e risorgente, precorritore e simbolo del Cristo che egli amava di profondo amore; e, quella, preminente, del poeta, sacrificata spesso dalla prepotente presenza dell’altre due; sicché, anche attraverso le traduzioni, la sua poesia carica di simbolismo religioso raccolta in Astri piloti, Eros e Cor ardens, ci appare troppo spesso teologica o metafisica, e sempre sentenziosa e dotta; quasi nata più da scienza e da sapienza che non da una lirica sensibilità. Un poeta filologo; un poeta filosofo.
Il mago di così alto sapere in continua germinazione aveva bisogno di comunicarlo, di riversarlo in altri; aiuta a capire come il conversare fosse un suo piacere necessario. E forse gli pareva di continuare in qualche modo quei mercoledì letterari che tra il 1905 e il 1914 egli aveva istituiti in Pietroburgo, nel piano alto della sua casa detta la torre, e in cui riuniva il fiore della città in conversazioni mistiche e letterarie che duravano dalle nove di sera fino all’alba del giorno dopo. Una specie di Convivio platonico nel quale, se egli appariva come «il re senza corona dei poeti di Pietroburgo», la nuova Diotima era sua moglie, la poetessa Lydia Zinovieva, conosciuta a Roma in un viaggio del 1894.
Ma Ivanov aveva l’umiltà di adattarsi alla misura dell’interlocutore anche più modesto. Ricordiamo l’affabilità con cui ci parlava o ci ascoltava parlare di qualche nostro poeta contemporaneo. Del Carducci, per esempio, che stimava come una grande coscienza letteraria ma, espertissimo delle finezze della prosodia, non ne accettava la metrica delle odi barbare, dove la quantità dei classici gli appariva tradita dalla innaturale versificazione accentuativa. O del Pascoli, del quale preferiva i Poemi conviviali su tutto il resto, sentendovi dentro echi del mondo dei suoi greci. E una volta che si parlava del Manzoni, disse che fu ventura per la morale cattolica aver incontrato tale poeta che, dandole le ali della poesia, l’aveva fatta più amabile e imitabile.

Al Borromeo conobbe Voronoff, che era in giro per ringiovanire l’umanità; e, dopo averlo sentito esporre la sua teoria, gli disse con fine malizia: «Maestro, a ringiovanire sono tutti bravi, e anche le illusioni danno una mano; ma apprendere a invecchiare, quella è arte difficile».
Qui vennero a trovarlo i suoi amici: Zielinski, Ottokar, Martin Buber...; e in quei giorni il Borromeo era davvero «la Sapienza», secondo la bella parola del Vasari.
Ma una visita vuol essere ricordata sopra le altre: quella di Benedetto Croce, nell’aprile del 1931. Veniva da Milano accompagnato dagli amici Alessandro Casati, Tommaso Gallarati-Scotti, Stefano Iacini, Francesco Flora, Piero Treves, Riccardo Balsamo-Crivelli, il meglio della cultura lombarda di quei giorni. Il Croce aveva desiderato di conoscere Ivanov che, da parte sua, conosceva tutta l’opera del filosofo.
Con buon umore, Iacini li scoperse della stessa leva, tutt’e due del febbraio 1866. L’allegra battuta parve aprirli meglio alla confidenza del colloquio, che il Croce per primo avviò sul concetto della cultura, ricordando — disse — un punto della Corrispondenza da un angolo all’altro, un dialogo epistolare svoltosi tra I. e G. che Ivanov aveva scritto nel ’24 raccogliendo dodici conversazioni avute col poeta Gherscenson mentre erano ospiti della medesima camera in una casa di riposo per artisti nei pressi di Mosca.
Il colloquio, non tardò a toccare momenti appassionanti, quasi drammatici, perché cultura significava orientamento di pensiero e di vita. Ognuno difendeva le proprie posizioni, la propria certezza conquistata, sofferta, che per il nipote di Spaventa era l’idealismo assoluto o il pensiero creatore per cui non esiste che il pensato; per Ivanov era la pienezza della spiritualità a cui era giunto dopo esperienze di ateismo e ribellione. Si toccavano le radici di due fedi inconciliabili: trascendenza e immanenza.
Un vento di foresta soffiava sulle loro parole diversamente religiose. L’appassionato dialogo fu più tardi ricordato dal Gallarati-Scotti in Disputa al Borromeo, raccolta in Interpretazioni e memorie [Mondadori, 1960, ndr].
Di Ivanov scrissero, in quegli anni, i nostri giornali e le riviste letterarie. Il Convegno, fondato nel ’20 in Milano da Enzo Ferrieri (una rivista a suo tempo onorata quant’è oggi dimenticata) gli dedicò un numero speciale di 200 pagine. Collaboratori come Zielinski, Curtius, Ottokar, Steine, G. Marcel, Alessandro Pellegrini illustrarono i temi della sua poesia e della sua copiosa attività; ed è ancora il meglio e il più organico che sia stato scritto su di lui.
Nel 1936 Ivanov lasciò Pavia e andò a Roma a vivere con suoi due figli, esuli anch’essi. E a Roma morì nel 1949 a 83 anni.
Più tardi, mi contò suo figlio Demetri che negli ultimi momenti le sue parole parvero un poco esaltarsi. Somigliavano ai racconti dei venti nelle steppe della sua «Santa Russia». Erano le antifone commoventi della sua antica liturgia.

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Venceslao Ivanov nel cortile dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, quarto da sinistra, con il rettore Rinaldo Nascimbene, terzo da sinistra, e un gruppo di alunni.

Foto Studio Chiolini e Turconi, Pavia