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CESARE ANGELINI

CIVETTERIA DI GUIDO

In C. Angelini, Carta, penna e calamaio,
Milano, Garzanti, 1944, pp. 290-292.

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Guido Gozzano


Serra scrisse di lui «il nostro bel Guido». E si compiaceva d’aver sentito da amici torinesi d’una certa somiglianza fisica ch’egli aveva con lui. Ma e la somiglianza d’anima? Perciò ne parlò con un fervore che poche volte è più schietto, e lo colpì con mira giusta, così che agli altri non restò più nulla da dire. «Il nostro bel Guido»; e la definizione breve pareva richiamare non soltanto il ακλὀζ aggettivo-premio dei greci, ma tutte le virtù e i virtuosismi del poeta canavese; civetteria, ironia, intimità, piccola magia, e fantasia e gioco, e anche certa ingenuità un po’ devastata da un estetismo equivoco, in un antidannunziano come lui per motivo polemico. A ogni modo, Serra lo nominava con voce leggera, come andava nominato un poeta fra tanti noiosi verseggiatori dell’epoca.
Guido era l’ultima «voce» della nostra poesia rimasta fedele alla grande tradizione dei versi dei metri delle rime delle forme chiuse o regolari che costituiscono la gloria del disteso paesaggio. Fedele però in una sua maniera difficile, «critica»; in realtà, con quel suo tono sfiduciato, scanzonato, aiutava a farli apparire arnesi esauriti. La sfiducia era nei «temi», nelle «cose», ma non mancò di comunicarsi allo strumento, e scolorarlo, stancarlo.
Ritrovati d’istinto un suo «mondo» e un suo «modo», Gozzano determinò subito la sua fisionomia, la sua originalità, discreta e ferma. Le sue «cose», le famose «buone cose di pessimo gusto», e il suo «tono» (cantilenante, trasognato, un po’ femmineo e ambiguamente ironico) sono riconducibili alla recita di due versi soli.


(Odore d’ombra, odore di passato,
Odore d’abbandono sconsolato).


Trascurati, troppo facili...; e son spesso di fattura sapiente. Prosa, paiono; anche per quella civetteria d’introdurvi vocaboli ritenuti prosaici (ciclista, bicilcletta, tè, solino, signorina, cocotte, ipecacuana), ma hanno la temperatura della poesia; sentimento, invenzione, nostalgia, capriccio e cadenza.
Ma il tono di Gozzano, forse il più vero e suggestivo, è nel settenario c’egli usò con novità, con tecnica semplice e felice; cioè lo accoppiò, ne allungò improvvisamente la durata, lo arricchì di sorprese (la rima al mezzo) e di libertà.


(Signora, arrivederla! gridò da lungi ai venti.
Da lungi ebbero i denti un balenio di perla).


Guidò affidò la sua immagine «sempre ventenne», ai Colloqui, intimi come un diario, come un epistolario (dietro a ogni verso c’è lui); e partì con le rondini per la terra di Levante, il paese dei datteri e delle essenze. Parve questa l’ultima espressione del suo sentimento poetico. In cerca di salute. Ne tornò più malato, e morì a 33 anni; un anno dopo Serra.
Domani faremo l’elogio dell’altra poesia, quella dei «lirici nuovi»: più immediata e più nuda, evocativa, scavata, pausata, con «figura nascente dal suono». Oggi ci piace indugiarci a gustare quella di Guido, nei luoghi più suoi, più nostri, e un po’ sempre nuovi: nelle Due vie («la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose»); nell’Amica di nonna Speranza («Capenna..., Capenna..., Capenna... Sicuro, sicuro, sicuro»); nella Signorina Felicità, l’ultima donna creata dalla nostra poesia, poiché Dora Markus è ancora nelle brume del limbo, almeno per i più. Lasciateci anzi dire che la nostra poesia la riconosciamo ancora distesa — il nome è destinato — fra l’uno e l’altro Guido: quello dei Cavalcanti a cui Dante mandava il suo sonetto più estatico; e quest’altro di Agliè, che aveva caro ripeterselo: «Guido, vorrei che tu... »