CESARE ANGELINI TOMMASO GALLARATI SCOTTI
In C. Angelini, Lettera al Papa (con altri scritti),Bologna, Boni, 1977, pp. 133-161.
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Ci siamo incontrati la prima volta nel maggio del 1918, al fronte, tra lo Stelvio e il passo del Gavia. Incontro in grigioverde; lui, del battaglione Ortler e io dell’Intra. Accadeva spesso che battaglioni alpini si trovassero gomito a gomito come le montagne, per difendere i confini.
Dopo Caporetto e l’andata del general Cadorna, il Gallarati Scotti aveva lasciato il comando supremo ed era venuto a mescolarsi allegramente coi combattenti di prima linea, meritandosi una medaglia d’argento.
Il fronte piuttosto tranquillo (ne parla lui stesso in Interpretazioni e memorie) concedeva di incontrarci ai margini dei ghiacciai o tra le alte abetaie. Modesto consumatore di letteratura, io non avevo certo dimenticato che quell’alto e sottile tenente degli alpini era stato grande amico del Fogazzaro e, al tempo del modernismo, aveva fondato e diretto «Il Rinnovamento» con Alessandro Casati che in quei giorni combatteva sul Kobilek come maggiore di fanteria, insieme col tenente Ardengo Soffici. Ma di quel movimento, di quella «rissa cristiana» il Gallarati non amava parlare, quasi si toccasse una ferita non chiusa. Più volentieri si parlava degli uomini della «Voce», la rivista fiorentina che tra il 1908-15 aveva lavorato per il rinnovamento delle nostre lettere. Dunque di Prezzolini, o di Serra, ma specialmente di Giovanni Papini, che proprio in quei giorni mi confidava per lettera la sua crisi spirituale, custodita nel cuore prima di comunicarsi in confessioni pubbliche.
Quelle lettere, le leggevamo insieme con curiosità e stupore, ripensando al satanico direttore di «Lacerba», dove non si salvavano né gli uomini né Dio. Lo colpì la lettera del 20 maggio 1918 in cui Papini scriveva: «Sto facendo tra me e me, la teoria dell’amore come fu comandato da Gesù. E a Gesù mi sono avvicinato con spirito nuovo, e ho scoperto che egli è sempre solo, come lo è stato sempre fin dal principio; e che pure non c’è salvezza all’infuori di Lui». Davvero parole nuove per Papini. Della lettera, l’aveva colpito l’accenno alla “solitudine” di Gesù; gli pareva che quelle parole tornassero, per echi, da lontano. E mi confidò che nel 1913 — cinque anni prima — avendo Papini pubblicato su «Lacerba» un imprudentissimo articolo sui rapporti tra Gesù e Giovanni il discepolo, gli aveva scritto dichiarandogli di voler interrompere l’amicizia con chi aveva empiamente insultato «Colui che è sempre solo», «il Divino che tace». E concludeva: «Lascia che io confidi per te in Colui al quale hai gettato il fango e nel quale io credo con tutto l’ardore della mia fede rinata [...]. Egli, il divino solitario, rimane silenzioso giudice della tua vita, e ti attende al varco, per risponderti».
Il Gallarati rinarrò l’episodio in Interpretazioni e memorie, aggiungendo che il 30 marzo del 1921 ricevette una delle prime copie della Storia di Cristo con la dedica: «A Tommaso Gallarati Scotti, questa risposta forse troppo tardiva alla sua lettera del 1913, offre Giovanni Papini».
Tornati dalla guerra, i nostri incontri continuarono; e fu quando nel 1921 la rivista letteraria del «Convegno» ebbe sede, per così dire, in casa sua, in quella parte del suo palazzo milanese che dà su via Borgospesso, dove per anni si incontrò il meglio della Milano culturale d’allora: Enzo Ferrieri (il direttore), Carlo Linati, Ugo Bernasconi, Eugenio Levi, Alessandro Pellegrini, Balsamo-Crivelli, Fracchia, Tittarosa, G. A. Borgese, Clemente Rebora; e vi si aggiungeva Alessandro Casati con quella sua figura di saggio antico, e la barba e il bastone e la partecipe compagnia che in lui sostituiva la pigrizia dello scrivere col piacere della ricca conversazione e del generoso suggerimento, il più e il meglio della sua personalità.
Altri incontri abbiamo avuto, più tardi, a Pavia, al collegio Borromeo, dove l’attirava il cinquecentesco cortile del Pellegrini col cantico delle sue cento colonne; o in San Pietro in Cieldoro, attorno alla tomba di Agostino, alle cui ossa egli chiedeva una risposta alle sue inquietudini d’uomo che cercava gemendo.
Sulla persona maestosa, si rifletteva la gloria del casato, uno dei più nobili di Lombardia in cui confluiva il sangue dei Gallarati — antica famiglia milanese — e degli Scotti-Spinola, principi di Molfetta. Nobiltà che non ostentava ma nemmeno nascondeva, trovando in essa il filo che lo attaccava a una eredità di valori storici e morali da mantener vivi con una domestica pietas. E se qui ora si ricorda brevemente, è solo per dire quanto favorevole spazio essa gli creava intorno, quali mondi gli apriva, e gli incontri e le umane fortune. E anche perché, alla nobiltà familiare, pura questione di eredità, egli aggiungeva quella acquisita come individuale e dava lume all’altra: la passione per i valori dello spirito e la professione delle lettere, che era la sua vocazione più vera.
Nella vita letteraria, il Gallarati Scotti era entrato all’insegna del Fogazzaro. Contava d’essergli stato presentato poco più che ventenne nell’autunno del 1900 dal vescovo monsignor Bonomelli, amico dei poeti (dal Pascoli, per esempio, che ne cantò La Messa d’oro) e amico delle idee larghe, ecumeniche, un giorno che si trovavano in Como per l’esecuzione di un oratorio del Perosi.
Il Fogazzaro, che era già una celebrità europea (Piccolo mondo antico era in giro da quattro anni) gli sorrise, e come “intuendolo”, lo invitò in Valsolda, nella sua villa, che solo il lago del Manzoni separava da Villa Melzi in Bellagio, residenza estiva dei Gallarati Scotti. Così nacque un’amicizia che doveva restare tra le più singolari e feconde del secolo. Le frequenti conversazioni col poeta e la lunga consuetudine epistolare (il carteggio fu, di recente, donato all’Ambrosiana) aiutarono il giovane Gallarati a scoprire le qualità del proprio temperamento, teso a esplorare «ciò che c’è nell’uomo»; e, più tardi, fecero concludere che il Fogazzaro gli era stato maestro e lui scolaro in quel momento che prese il nome di modernismo. Ora, il Fogazzaro ebbe certo grande influenza su di lui, nello spirito e nella tradizione liberale cattolica che si ricollegava ai nomi di Gioberti, di Rosmini e di Manzoni; ma il Gallarati era stato portato a lui da una giovanile ammirazione letteraria e dal fascino che in quegli anni il poeta vicentino esercitava su larga parte della vita e del pensiero nazionale. Altri incontri avevano preparata la sua simpatia per quel fervore di studi religiosi che anche in Italia cercavano di rispondere alle esigenze di una generazione in fermento di rinnovamento. Per esempio, le conversazioni col barnabita L. Pietro Gazzola, parroco di Sant’Alessandro in Milano, che coltivava un cenacolo di giovani intellettuali milanesi interessati al problema dei rapporti tra cristianesimo e cultura moderna; orientandoli verso una larga interpretazione del dogma e aiutandoli a superare il conflitto tra filosofia idealista e religione, suscitato in quegli anni dalla «Critica» del Croce. O le conversazioni con don Brizio Casciola, sacerdote di alta pietà, ispiratore di ardimenti culturali in materia religiosa.
Ma sull’orientamento “moderno” del giovane Gallarati molto influì la sua permanenza a Genova, tra il 1898 e il 1901, quando, iscritto alla facoltà giuridica di quell’università, frequentava il convento di San Bartolomeo degli Armeni dove padre Semeria, mandatovi in “osservazione” dai superiori, tratteneva studenti e studiosi sulle origini del cristianesimo e della Chiesa.
Nel cenacolo genovese, e poi nella sua casa di Milano, il Gallarati conobbe il barone von Hügel, un inglese dal nome tedesco, serio pensatore religioso, promotore di quelle idee larghe, amico del gesuita Tyrrel, del’abate Loisy, di monsignor Duchesne, di padre Lagrange, e dei nostri don Ernesto Buonaiuti, padre Minocchi, padre Genocchi, don Romolo Murri; cioè quella famiglia di spiriti che lavoravano al rinnovamento della coltura religiosa nel campo biblico, teologico, storico, sociale.
(Prima che le cose un poco s’imbroglino, vorremmo dire che rade volte il sentimento religioso tra noi era salito a così alte temperie).
Fu particolarmente l’Hügel che gli comunicò, o accrebbe, il travaglio interiore della ricerca e, per mezzo dell’Hügel che Gallarati chiamerà «amico-maestro», venne il contatto con gli elementi più interessanti di quella tormentosa vigilia, entrando in pieno e già con autorità nel rinnovamento.
Del quale non faremo noi ora la storia. È già stata fatta; e, per non parlare dei contributi che vi hanno portato il Garin con le Cronache di filosofia italiana 1900-1943, il Ranchetti in Coltura e riforma religiosa nella storia del modernismo, il Levi della Vida, lo Spadolini, Arturo Jemolo e il Bedeschi, ricorderemo l’opera del più documentato storico e del più sereno interprete del movimento: Pietro Scoppola, con la Crisi modernista e il rinnovamento cattolico in Italia, libro che abbiamo tenuto d’occhio nel preparare questa nostra conversazione.
Se il movimento era venuto da fuori — dalla Francia col Duchesne e col Loisy, dall’Inghilterra col Tyrrel e con l’Hügel — in Italia potè subito configurarsi in visione sua propria di modernismo italiano coi nomi, appunto, del Buonaiuti, del Murri, del Minocchi, del Genocchi, del Fracassini, del Magri, e dello stesso Semeria; tutti ecclesiastici, desiderosi di ridestare tra noi l’interesse per i problemi genuini dello spirito attraverso studi seri di biblica e di storia. Dimostrare insomma la conciliabilità della religione con le colture e col pensiero moderno; fare più ampia e più sincera la coltura ecclesiastica che, specialmente in Italia, era arretrata e ferma a una sterile e irosa apologetica da quaresimali.
A questo modernismo sano, necessario, e tutto in veste nera, ai primi del 1907 partecipò coraggiosamente un gruppo di laici milanesi, fondando «Il Rinnovamento». Col quale (e questa era la loro novità) intendevano riallacciarsi al cattolicesimo liberale del Risorgimento, cioè al movimento che aveva cercato di inserire nel cattolicesimo quanto di buono e valido era stato prodotto nella coltura del tempo che si ornava dei nomi di Rosmini, Gioberti e Manzoni.
I direttori della rivista erano Aiace Antonio Alfieri, Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti; alle loro spalle si moveva il giovanissimo Stefano Jacini, già ricco d’una vissuta esperienza di ricerca interiore. Tre di essi appartenevano a famiglie patrizie lombarde; e il patrizio lombardo, scrisse in quegli anni G. A. Borgese, discende spiritualmente più da Carlo Borromeo che da don Rodrigo. Dunque, menti educate a una magnanima tolleranza, a una dignitosa umiltà, e, anche di fronte all’autorità civile o ecclesiastica, né ribelli né schiavi. E il tipo del patrizio cattolico lombardo ha un nome: Alessandro Manzoni; che, ai suoi tempi, si sarebbe potuto dire modernista, data la grande amicizia col «pericoloso» Rosmini e la persuasione che Gesù, fondando la sua Chiesa, non le ha dato le grucce di un potere temporale, ma le ali per tener dietro allo Spirito Santo, volando.
Nata, pare, per ispirazione di padre Gazzola — che, da Livorno dov’era stato mandato “in osservazione” seguiva il gruppo dei suoi giovani milanesi — la rivista respirava in clima naturalmente fogazzariano. Nell’Introduzione, i direttori dicevano: «La parola rinnovamento indica solo un desiderio di rinnovare noi stessi e quelli che ci sono vicini nella ricerca della verità [...]. Pensiamo di essere dei silenziosi riformatori, senza legarci a nessun dogmatismo di parte, a nessuna preoccupazione teologica o filosofia ufficiale. Ma nessuno pensi che questo nostro amore della verità nella libertà indichi un nostro distacco dalla tradizione cattolica [...]». Senza dubbio si trattava di anime coraggiosamente religiose, con la sincera intenzione di risvegliare uno schietto cristianesimo contro una nefasta pigrizia e un dominante formalismo cattolico, estraneo alla preoccupazione dei fatti autentici dello spirito. (È di questo tempo una famosa pastorale di monsignor Bonomelli, Il formalismo in religione, ricca di stimoli e di sollecitazioni).
Non si fa fatica a indovinare che l’estensore dell’Introduzione poteva essere il Gallarati, legato al Fogazzaro del Santo, il romanzo uscito due anni prima, nel 1905. E il Fogazzaro era presente nel primo numero con un articolo intitolato Per la verità, in cui proponeva di gettare un ponte tra credenti e non credenti in una comune ricerca della verità.
Molti poi furono gli scritti ospitati nella rivista e firmati da più bei nomi della coltura europea; e molti i temi che investivano tutti i campi degli studi religiosi: dalla filosofia alla mistica, dalla storia delle origini del cristianesimo a quelle della Chiesa, alla critica biblica, alla libertà religiosa, all’interessamento per le chiese separate, per le religioni non cristiane, per la valutazione del laicato di fronte al sacerdozio, e la sua partecipazione alla vita della Chiesa...
Uno si domanda se stiamo elencando i temi trattati dal «Rinnovamento» o i temi del Concilio Vaticano secondo. Ma, forse, non è questione di temi; piuttosto del tono e della misura e della competenza portata a trattarli. I collaboratori del «Rinnovamento» erano, senza dubbio, uomini di coltura e di buona volontà, ma d’una preparazione la più disparata e che al movimento riformatore arrivavano da ogni parte: Romolo Murri, il Sabatier, il Tilgher, il barone von Hügel, il Tyrrel, il Loisy, il Minocchi, il Papini della prima maniera. Per programma, la rivista non voleva concludere ma solo aprire agli spiriti nuove prospettive, nuovi orizzonti. Ma proprio questo, che pareva la sua forza, diventava la sua debolezza. Mancando d’un preciso orientamento, finiva per offrire — come scrisse il Garin — «un campionario di tutte le posizioni della mistica e della filosofia moderna», non esclusa quella di un confuso immanentismo.
Naturale che a Roma aguzzassero le orecchie; e da Roma venne, prima l’ammonizione, poi la proibizione, specialmente al clero, di leggere «Il Rinnovamento». (Ci par di rifare la storia che, indirettamente, un poco ci appartiene, se ancora nel nostro animo d’oggi ritroviamo vivo il ricordo di quanto c’era di patetico nelle forme acri e faziose che assunse quel conflitto, di cui arrivavano echi anche tra le mura ben custodite del seminario di provincia in cui finivamo i nostri studi di teologia. E ci fu un momento in cui il «dàlli al modernista» — malintenzionati? pettegoli? — era diventato così ossessivo da far pensare al «dàlli all’untore» dei giorni di Renzo in Milano).
Ma ci fu anche un momento in cui parve che la “buona crisi” modernista del «Rinnovamento», nato come espressione di una esigenza spirituale sincera e severa, scivolasse verso l’ “eresia modernista”. Monsignor Bonomelli che seguiva con simpatia lo svolgersi delle cose, ammonì paternamente: «La rivista rischia di andar fuori strada». Fu quando, per l’intervento di taluni elementi eccessivi, si giunse ad affermazioni dissennate ed estreme, e i collaboratori avevano presa la mano ai direttori.
Scrisse la «Civiltà cattolica» del 15 dicembre 1962: «Noi siamo dell’opinione che gli uomini della rivista milanese avrebbero potuto fare opera di vero rinnovamento, se non avessero chiamato a collaborarvi sacerdoti già in crisi e di un’audacia che essi stessi (i direttori) non condividevano». Vale per il Tyrrel, che vi pubblicò l’articolo insidioso Le chiese sono proprio necessarie?, e per il Buonaiuti, che vi pubblicò il suo saggio più rivoluzionario e meno cristiano La religiosità secondo il pragmatismo.
La Congregazione del Santo Ufficio ne ordinò la sospensione; ma poiché i direttori non accolsero l’invito, il cardinal Ferrari, arcivescovo di Milano, a nome di Roma, eseguì l’ammonizione, che annunciava vicina la pubblicazione dell’enciclica Pascendi, la solenne condanna delle dottrine moderniste.
Dotato d’un nativo senso di misura e d’un alto senso di responsabilità cattolica, il Gallarati intese la condanna non come una persecuzione di persone o un soffocamento di libertà, ma come “una raccomandazione” della Chiesa ispirata a grande prudenza. L’accettò; e mandò una lettera agli amici direttori del «Rinnovamento» nella quale indicava la sua volontà di ritirarsi dall’impegno. Aggiungeva: «Poiché, come cattolici, dobbiamo dare agli atti dell’autorità religiosa quel valore che per ciascuno è conciliabile con la più perfetta e virile sincerità, mentre apprezzo la resistenza in difesa dei diritti di libertà di studio nel cattolicesimo, in quanto è in voi obbedienza leale e generosa alla coscienza; io non saprei, per le stesse ragioni e con la stessa certezza, affrontare oggi la scomunica del “Rinnovamento” e sentirmi ancora in armonia con me stesso». La lettera fu lealmente pubblicata sulla rivista. Il Buonaiuti lo rimproverò di superficialità per la troppo facile arresa; ma il Lagrange, da Gerusalemme, gli disse che aveva fatto bene.
A sessant’anni di distanza, Pietro Scoppola, sereno interprete di questi fatti, commenta: «In questa pagina del “Rinnovamento”, il movimento riformatore italiano tocca, a nostro avviso, il suo punto più alto per sentimento religioso e più aderente alla tradizione del cattolicesimo liberale del Risorgimento».
Amareggiato per le denunzie e censure e condanne e defezioni, il Fogazzaro lamentava in una poesia:
Per zelo d’una verità divina,
tradita è la divina verità.
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Lamento a doppio taglio. Perché, qual era la verità divina? e chi tradiva la divina verità? Tradire, tradimento... Oltre che per le persone, noi vorremmo avere pietà anche per le parole; e, invece di parlare di tradimenti, vorremmo più cristianamente pensare al sacro deposito di sofferenze che c’era, in quei giorni, da una parte e dall’altra; da parte di chi difendeva il mistero cristiano di cui avevano vissuto le generazioni da Paolo ad Agostino, a Dante, al Manzoni, e da parte di chi sentiva il bisogno di non confondere anche nelle cose religiose la immutabilità con la immobilità.
Da questo momento il Gallarati non ebbe più nulla in comune con la rivista, che continuò a uscire fino al 1909, tra denuncie, condanne, defezioni, apostasie, distacchi dalla Chiesa; che potevano anche rivelare la poca consistenza cattolica di certi zelanti difensori del moderno. E nell’estate del 1908, il Gallarati andò in Terrasanta, al paese di Gesù e del Vangelo; che era un aprirsi verso più libere e più autentiche suggestioni. Il 2 giugno, da Cafarnao, scriveva una lettera ad Antonio Fogazzaro, ancora inedita e ora deposta all’Ambrosiana.
«Cafarnao, 2 giugno 1908
Caro Amico,
quando l’altra mattina alle quattro ½, solo, attraversai il lago di Generazet da Tiberiade a Cafarnao sopra la navicella a vela che il vento sospingeva lentamente, lei mi era presente. Mi pareva di navigare verso un paese di vita eterna, e, leggendo il Vangelo, mi pareva di non averlo mai penetrato prima, fino in fondo, nella sua semplicità divina. Una immensa pace era nella natura e nell’anima e sentivo la gioia di poter fare un atto di fede piena, umile, calda in Cristo. Tutto il mio cuore si apriva verso di Lui che è risurrezione e vita; e, socchiudendo le palpebre, immaginavo che le rive deserte si popolassero di turbe infinite di credenti, avide di quella verità che solo Gesù conosceva [...]. Nessun paese al mondo è santo come questo. Qui, il paesaggio è una preghiera. Solo l’anima è triste per il desiderio di incontrare il Maestro, al quale vorrebbe dire molte cose della sua infermità.
Grazie all’Associazione nazionale per i missionari cattolici, noi possiamo passare otto giorni in queste campagne che costeggiano il lago tra Cafarnao e Betsaida, che è il vero teatro della predicazione di Cristo [...]. Credo saranno per me giorni di rinnovamento spirituale. Nelle ore fresche scendo al lago e leggo il Vangelo. O salgo a meditare il discorso delle beatitudini sopra uno di questi colli dove certo fu pronunciato [...].
Io non posso pensare, qui, alla critica del Loisy senza sentire come essa sarà superata da una critica che senta più vivamente la figura del Cristo e che la penetri con una più calda e umile devozione. L’ultima parola sui Vangeli non potrà essere quella della critica scientifica, ma della fede. Non sarà stata inutile l’analisi fredda e spietata, ma essa e di per sé sterile. La mente umana non ci si può arrestare che come a mezzo, per poco tempo; e l’anatomia dei libri omerici non è riuscita a distruggere la meravigliosa unità. Il vero interprete dei poemi rimane il poeta, colui che li legge per amore di bellezza. Il vero interprete dei libri santi sarà sempre il credente, colui che li legge con spirito religioso.
Credo che a molte anime impegnate nella lotta religiosa farebbe bene di venire a meditare sulle rive di questo lago che vide nascere la Chiesa. Ma farebbe bene soprattutto al Pontefice. Chi sa che un giorno le condizioni del cattolicesimo non siano tali da permettere a un successore di Pietro di venire a meditare il Vangelo su queste spiaggie!».
Un augurio. Che non cessa di avere un suo accento quasi profetico anche se, per la verità, era l’eco del desiderio di Piero Maironi, l’eroe del Santo, il romanzo del Fogazzaro uscito tre anni prima, nel 1905. L’eco, dunque, della voce del romanziere che, per bocca d’un suo personaggio, si liberava d’una verità che lo soffocava. Sapete che, rivolgendosi a un papa immaginario, il Maironi gli fa questa invocazione: «Io scongiuro Vostra Santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, la prima almeno, uscite per un’opera del vostro ministero. Lazzaro soffre e muore ogni giorno; andate a veder Lazzaro [...]».
E l’uscita di Paolo VI dal Vaticano come pellegrino verso Terrasanta, verso la terra di Gesù e di Lazzaro ci ha dato, nello stupore dell’avvenimento, l’epilogo e la misura di ciò che in sessant’anni, attraverso lunghi ripensamenti, si è andato svolgendo nel seno stesso della Chiesa; la invocata riforma maturata tra i dolori degli uomini di buona volontà nella invisibile profondità della vita della Chiesa.
Un poco più su, ci siamo chiesti se stavamo facendo l’elenco dei temi trattati dal «Rinnovamento» o dei temi trattati dal Concilio Vaticano secondo. Là non abbiamo risposto, perché già miravamo a questo punto. Accettate o respinte certe posizioni del «Rinnovamento», non si può negare alla rivista il merito d’aver messo a fuoco problemi vivi della coscienza cattolica contemporanea; e i problemi non si risolvono se prima non si propongono, anche se il proporli importa inevitabili rischi e, per la loro soluzione, l’attesa di cinquanta o sessant’anni. Nelle lotte dello spirito (qualcuno deve averlo detto) non ci sono sconfitte; ci sono delle soste per i chiarimenti. Poiché è una delle più belle astuzie della storia servirsi del doloroso travaglio di uomini di buona volontà, spesso ribelli per amore, per preparare e maturare riforme che possono cambiare la faccia del mondo.
Ma, lasciando ai cronisti della filosofia e agli storici dei movimenti il discorso sul modernismo del Gallarati Scotti e il suo partecipe appassionamento al moto riformista che oggi ha trovato una sua pacificazione nella più vasta aerea del Concilio Vaticano secondo, preferiamo parlare — sia pure in modo descrittivo e non critico — di quello che è il suo aspetto più vero, la sua vocazione; la quale ora sappiamo in che mondo di idee e attraverso quali esperienze si è formata.
Il Gallarati fu, prima di ogni altra cosa, uomo di lettere, squisito artista, scrittore. Non credetegli troppo quando dice: «Con la letteratura, poco o nulla ho a che fare». Poco dopo verrà la confessione più schietta: «Quando scrivo, mi sento in armonia con la mia vocazione».
Lasciata la rivista e la polemica, si rifugiò nell’arte pura, rivendicando la sua libertà d’artista e di scrittore. E vennero, nel 1911, Le storie dell’amor sacro e dell’amor profano; titolo che ha un ambiguo profumo fogazzariano. In realtà, si tratta d’un volume di novelle dove si alternano storie e leggende della santità e del peccato, con chiaro sapore di parabola, in una scrittura non bene unita, e dove il colore rischia di soffocare l’osservazione psicologica. La critica non prestò molta attenzione al libro quando uscì, suscitando piuttosto qualche polemica d’indole tutt’altro che artistica.
Nel dovizioso epistolario che il Gallarati prima di morire consegnò all’Ambrosiana, abbiamo trovato il biglietto che padre Gazzola, illuminato elaboratore di spiritualità modernista, gli mandò da Livorno il 7 giugno di quell’anno. Le parole dell’amico riconducono il libro al suo giusto significato e paiono una profezia del suo destino di solitario delle lettere. «Il tuo libro è una buona opera, una battaglia per l’ideale morale e religioso. È quasi un bene che i giornali non gli abbiano fatto rumore intorno; la luce si diffonderà da sé. Devi abituarti a essere un solitario, con tutti i vantaggi e le pene che sono inseparabili da una tale condizione di vita, direi da tale vocazione. Quando ci rivedremo, avremo agio di discutere qualche punto delle tue novelle [...]».
Non sappiamo se l’incontro sia avvenuto, e quale punto i due amici abbiano discusso.
Sappiamo il punto discusso da Giovanni Boine che in quegli anni (che erano quelli di Serra, di Cecchi e di Borgese) in campo critico distribuiva plausi e botte, un po’ sul serio e un po’ per divertirsi, come voleva il suo temperamento umoroso. Su tre larghe pagine della «Voce» fiorentina del 17 agosto 1911, accusava Gallarati di esaltare il cristianesimo per la sua bellezza, alla maniera morbida di Chateaubriand; quasi un giocare con la religione, trattandola come un concetto estetico. Più che colpire il libro, Boine mirava a colpire l’uomo, a cui non sapeva perdonare d’essersi staccato dal «Rinnovamento».
Delle Storie si occupò anche l’Indice, condannandole per postumi di modernismo. L’autore accettò la condanna con amarezza ma con disciplina di gentiluomo e di cattolico. Oggi il libro ci pare meno eterodosso; ma più lontano dal nostro gusto, non potendo sottrarlo al confronto col racconto moderno.
La vena narrativa del Gallarati parve effondersi più copiosa in Miraluna (1927) e in Passo nella notte ossia La confessione di Flavio Dossi (1942), due romanzi in cui l’autore trasferisce i suoi problemi di uomo, la sua ansia di mistero. Quando uscirono, letterati e lettori li accostarono con un rispetto che era piuttosto scarso interesse, trattandosi di pagine in cui il romanziere, attraverso la sapienza e la rarità dello stile, par cedere il posto all’apostolo, creando quel contrasto che la critica specialmente crociana non perdonò mai al Fogazzaro. Tutta la narrativa dello Scotti, comprese le altre novelle, Storie di noi mortali (1931) dove il Gallarati è più artista, è attraversata da questa ansia di ricerca interiore che va al di là della speculazione letteraria. E accade che casi di coscienza calati in ambienti mondani, creino «un doppio registro, un dualismo, quel misto di mondano e di mistico» che irritava Pietro Pancrazi quando nel 1932 ne parlò in «Pegaso», essendo compromessa l’unità del risultato artistico.
Romanzi e novelle che non sono mai stati famosi e oggi pochi cavano giù dal palchetto (al narratore è mancato il capolavoro), ma dai quali è sempre possibile riportare belle pagine rappresentative, scene, ritratti persuasivi e umani, da figurar bene nel confronto con molta prosa corrente, e da uscirne avvantaggiati.
S’è già detto che il Gallarati fu interprete di drammi religiosi. Si pensa al Così sia, scritto nel 1921 per la Duse, e che, dato al Costanzi, cadde, nonostante l’arte del’attrice ancora bravissima. Dicono che la caduta sia stata solo un cattivo esito mondano. Ripreso a Bologna, a Milano, a Torino, davanti a un pubblico non prevenuto, riscosse ammirazione e applausi. Così sia fu ristampato di recente insieme con la Moglie di Pilato, l’altro dramma dove anche meglio rivive l’attrazione del Gallarati per la figura del Cristo. Rappresentato nella piazza di Bergamo alta l’estate del ’61, in quella sua immediatezza di comunicazione col popolo e nel grato splendore dei monti circostanti, ci fece pensare a quando i poeti parlavano alla città.
Nell’Introduzione, l’autore dice che la protagonista rappresenta molti di noi che ancora seguono, da lontano e in ombra, il dramma della Passione. Ma è soprattutto nella figura dello schiavo barbaro — il discepolo occulto — che l’autore si interpreta e confessa. Nei giorni delle sue peregrinazioni, ha seguìto il Maestro con ansioso amore; e una volta, nascosto tra le spighe, udì dalla sua bocca l’inno dei beati: «Beati i poveri [...] beati i miti [...] beati i mesti e i piangenti [...] beati i puri di cuore [...]», e n’era rimasto preso, rapito.
Questo, del «discepolo occulto» è un motivo che torna spesso nelle pagine del Gallarati, e non va confuso con la “poesia nazzarena” che ebbe facile fioritura nei primi decenni del secolo, facile e caduca. Nelle Poesie, pubblicate nel 1936, il poeta ama presentarsi sotto questa veste; una ne porta il titolo. È il discepolo che non si mescola coi dodici per chieder al Maestro quale posto gli spetta nel Regno, ma lo segue umilmente, in ombra, arso d’amore e tormentato dal dubbio; e se un poco gli si avvicina, è per chiedergli un colloquio, con ritegno:
un colloquio ti chiedo
per sapere chi sei, che mi tormenti.
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Egli non è del numero degli eletti, anzi è
l’eterno figliuol prodigo, randagio,
l’infedele a cui Giuda disse: — Va!
che non sei degno di restar confuso
con gli eredi del Regno.
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È un samaritano, uno scacciato dal Tempio. Ma ha molto amato, molto sofferto. La notte della Passione, non sedeva coi dodici, alla Cena; ma, da fuori, spiando attraverso l’unico uscio semiaperto del Cenacolo, nello spirito si sentiva partecipe di quella comunione; e, forse, più degli altri, intenti a mangiare, ha capito il mistero del pane e del vino, il mistero dell’amore. E vede Gesù che, terminato il banchetto, silenziosamente si allontana in se stesso, nella sua solitudine, che durerà nei secoli.
Il «discepolo occulto» è una delle figure più appassionanti della poesia del Gallarati; forse è la storia delle lagrime che è costata una obbedienza, il diritto che il poeta si è riservato sul gentiluomo. In verità, nel mondo della coltura e del pensiero, il Gallarati ha sempre cercato di interpretare il Cristo presso chi gli era lontano ma del quale sentiva l’ansia e l’angoscia che segretamente l’invocano. E poiché le sue pagine vanno sempre oltre l’arte, nel brivido della divina verità, verrebbe fatto di dire che la cosa più importante è lui, l’autore, e non le date dei suoi libri o i suoi libri che quasi non conta discorrere per elenco. Ma poi si vede che bisogna invece parlarne, perché son proprio loro, i libri, che contano.
E molto conta la sua opera di biografo e di memorialista, dove le confessioni, dico la parte intima e vivente, sono maggiori che nelle pagine del narratore. Il fatto ch’egli abbia responsabilmente accettata l’eredità del Fogazzaro, pare talvolta impedirci di pensarlo svincolato da lui; ma egli è stato anche un legittimo interprete di Dante e un fedele lettore del Manzoni, dei quali scrisse la biografia. Ma l’una e l’altra e la terza, più che biografie attente all’esame dei fatti esteriori, sono interpretazioni, ritratti spirituali dei suoi autori; più che alle notizie, il Gallarati è attento a quei momenti in cui si ritrovano le radici o le fonti della loro poesia. La comprensione dell’uomo gli prepara l’intelligenza del poeta; scoprire la storia segreta delle passioni, delle fedi, e gli amori e gli odi, le amicizie e le influenze che hanno trovato quei nobili spiriti e hanno generato i loro capolavori.
Nel 1921, ricorrendo il sesto centenario della morte di Dante, nella suggestione di quella gran luce che non tace mai, scrisse una Vita del poeta, per il popolo. E poiché il Gallarati è persuaso che la chiave del segreto di Dante va ricercata in noi, nella nostra stessa esperienza d’uomini e nella nostra partecipazione alla vita del poeta, la biografia di Dante, oltre a darci Dante vivo e vicino, finisce per essere la sua autobiografia o il dramma della sua anima in cerca di Dio.
Anche quella del Fogazzaro, quanto tempo gli prese e quanta anima, e amarezze e tormenti. Incominciata nel 1911, che il poeta era appena morto, e pubblicata nel 1920, fu messa all’Indice; risentiva del vecchio peccato, dell’ispirazione del periodo modernista e suscitava problemi condannati nella enciclica Pascendi. Anche stavolta il Gallarati accettò la condanna, e tornò a rivedere le sue pagine e il suo pensiero, preparando una seconda edizione. Che uscì nel 1934 con correzioni e pentimenti e la revisione ecclesiastica. La terza, ampliata, uscì nel 1963, e porta la serenità che nasce dalla lunga meditazione dei massimi problemi e della coscienza di quanto di effimero è nelle nostre umane vicende e polemiche e risse; ma anche quanto c’è di nobile e alto nel soffrire per la verità.
A scriverla, era il più indicato. Gliel’aveva detto lo stesso poeta: «Tu sei il più adatto a scrivere di me, ma dopo la mia morte». La lunga consuetudine avuta con lui e col mondo che era suo, la conoscenza dei luoghi, della famiglia, degli stessi personaggi dei suoi romanzi, gli davano quella profonda intimità col suo tema, che è il segreto del vivo di questa Vita. E poi, tutti i materiali possibili avuti dalle figlie del poeta, dagli amici, dalle amiche. Lasciando intatta la verità del suo autore, il Gallarati lo libera da quelle suggestioni di misticismo un poco ambiguo che erano dispiaciute all’Indice e a Benedetto Croce, quando gli dedicò uno dei suoi medaglioni meno generosi e meno felici. L’amicizia tra i due poeti, nata in Como nell’autunno del 1900 sotto gli auspici di un vescovo amico dei poeti, aveva dato definitivamente il suo frutto, la biografia esemplare di un uomo e di un’epoca.
Terza, la Vita spirituale del Manzoni, rimasta incompiuta. Nella prefazione a Interpretazioni e memorie, il Gallarati scriveva nel 1961: «Vi sono libri che un autore ha avuto la precisa volontà di scrivere; ma, per ragioni complesse di avvenimenti che hanno interrotto lo studio, o di giuste esitazioni davanti alla maestà del soggetto, non è mai riuscito a condurre a termine. Tale per me quella Vita spirituale del Manzoni — nel suo intimo dramma religioso e nella sua creazione lirica — a cui attendo da molti anni, e che ora mi prende e mi seduce, ora metto da parte insoddisfatto, sfuggendo agli inviti degli editori e alle promesse fatte a me stesso».
Parole che la morte ora rende più commosse e irreparabili e sveglia in noi più acuto il desiderio delle pagine che non leggeremo più: la Vita a cui il lettore manzoniano pensava di affidare la conclusione di sé. S’è detto il lettore manzoniano, quasi una particolare qualifica, sapendo quanto si nutrisse del suo autore e lo vivesse. Non ha scritto egli una volta che c’è un Manzoni che fa parte di un patrimonio segreto e affiora inconsapevolmente in certi momenti dell’anima quanto le più elementari parole acquistano un’ampiezza di eternità e di profezia? «Le vie di Dio son molte — più assai di quelle del mortal [...]». E mi parve giusto e degno quello che scrisse Carlo Bo il giorno della sua morte, che fu in Bellagio il I giugno del 1966. Disse che se il Fogazzaro ha rappresentato per il giovane Gallarati Scotti la voce delle prime e inquiete apparizioni della sua anima, il Manzoni doveva essergli apparso, nella pacificazione seguita alla crisi, come un modello di equilibrio spirituale e il termine più alto dell’invenzione cristiana.
E per lui, l’aver trovato nel suo poeta una ragione spirituale e una protezione, è un compenso che va al di là di ogni pagina scritta o da scrivere. Ma noi aspettavamo la Vita in cui ci narrasse compiutamente la genesi del genio del poeta e della sua poesia, trovandola nella sua fede religiosa più profondamente vissuta: che era uno scoprire le radici della sua ispirazione e il suo nascosto Iddio. Perché, a parte i doni di penetrazione geniale e la particolare preparazione sul tema che nel ducato di Milano e fuori lo rendevano forse il più degno di affrontare la figura dell’altissimo poeta; tra il Gallarati e il Manzoni ci sono affinità che hanno le loro radici nel sangue, nel pensiero e nella tradizione lombarda dell’Ottocento, di cui il Manzoni fu l’iniziatore e il Gallarati l’ultimo autentico rappresentante. E, forse, proprio in questa affinità è da cercare la ragione di quelle «esitazioni» a condurre a termine il tema; per quel pudore che c’è sempre a scoprire qualcosa, o troppo, di sé¹.
Qua e là, ci è accaduto di nominare Interpretazione e memorie, il libro uscito nel 1961: il libro «scritto senza una precisa intenzione» e che un giorno si è trovato tra le mani, quasi di sorpresa. Gli articoli, insomma, mandati via via al giornale per un bisogno di rammemorare, evocare, confessarsi, e ritrovare luoghi e persone che spiritualmente e poeticamente hanno avuto un influsso sulla sua segreta formazione d’uomo e di scrittore.
Chi ha detto che è il suo libro migliore? Certo è il libro che, per la sua indole autobiografica, metterà in giusta luce la sua figura presso le generazioni che verranno; ma fin d’ora ci permette di dire di quanto il memorialista sia superiore al narratore.
Scritto sulla sera della vita, quando più non rimane che lume di tramonti, e le grandi figure incontrate ritornano come patetiche ombre e fantasmi ricreati dalla memoria, passano nelle pagine gli illustri antenati, regine ospitate in ville patrizie, poeti, filosofi, uomini di Stato, attrici famose, e papi e cardinali e santi: la gloria mundi. Per la sua forza evocativa e ritegno e evidenza di dettato, il libro meritava la lode di Eugenio Montale: «Non c’è oggi, tra noi, scrittore memorialista che sappia come lui farci incontrare quasi fisicamente con personaggi che vissero nel tempo del grande volo di Napoleone o dei primi moti della nostra indipendenza».
Chi ha detto che è il suo libro migliore? Lui stesso ne ha avuto il sentimento, espresso nella Introduzione: «Quando scrivo, mi sento in armonia con la mia vocazione e ho un senso fresco di vita che risale da radici profonde e lontane; come la linfa che per le fibre di un vecchissimo tronco nutre sul più alto ramo, già quasi dissecato, le estreme foglie verdi che cercano il sole». L’immagine, bella come un tenero germoglio di Saffo, ci porta a dire che la maturità della vita ha dato la suprema stagionatura anche al suo stile, più nudo, alla sua scrittura che ha raggiunto il suo riposo più alto.
Scrisse Mario Missiroli che se il Gallarati Scotti fosse nato in Francia, sarebbe stato ben presto accademico di tutte le accademie, circondato di molti onori. In Italia, queste cose non avvengono. E aggiungeva: «Egli è, in ogni senso, uno degli spiriti più alti che siano oggi in Europa». Forse, eravamo in molti a pensarla così. Poeta, romanziere, drammaturgo, biografo, memorialista; appassionato cultore dei valori spirituali e religiosi.
Ora ci domandiamo che posto occupa il Gallarati Scotti nella storia delle lettere. Il Gallarati non è mai stato uno scrittore alla moda, popolare; ogni suo libro è nato nell’ombra e nel silenzio, diremo con un malcelato disdegno di chiasso mondano. Nelle sue pagine di moralista e di narratore c’è sempre l’eco di un suo diuturno colloquio con le cose supreme («quelle che ancora non mi lasciano prender sonno...») a cui il pubblico è meno abituato. Sicché nelle lettere egli è un solitario, coi segni d’una derivazione manzoniana. Che è il suo modo alto di essere italiano e cattolico.
[1972]
1. La Vita, incompiuta, è uscita col titolo: La giovinezza del Manzoni, Milano, 1969.
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