CESARE ANGELINI UNA LEZIONE PERPETUA DI UGO FOSCOLO
In C. Angelini, L’osteria della luna piena,Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1962, pp. 15-21.
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Università di Pavia, aula foscoliana |
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In data 7 giugno 1809, Il Foscolo informava il conte Giambattista Giovio in Como dell’ultima lezione «pronunziata» il giorno prima all’Università di Pavia; la quinta del corso d’Eloquenza che vi aveva tenuto quell’anno accademico. Quasi con le stesse parole, e con qualche particolare in più, ne informava pure l’amicissimo Ugo Brunetti in Milano; e l’autografo della lettera fu acquistato nel 1953 presso un libraio antiquario di Milano dal professor Plinio Fraccaro che, per oltre dodici anni resse le magnifiche sorti dello Studio pavese. Qualcuno ricorda la tenerezza con cui il Fraccaro, studioso di storia antica, soppesava e palpava il foglio prezioso, ne ammirava i caratteri stretti e geroglifici, gl’inchiostri nerissimi, sui quali quasi riusciva a scoprire le pagliuzze d’oro della sabbia del Ticino con cui il poeta, si sa, asciugava le sue scritture fortemente umide. L’acquisto è ora nel Museo per la storia dell’Università.
Diceva il Foscolo al Brunetti:
«Lunedì non ti scrissi, perch’io dovevo preparare la lezione d’ieri, ed era l’ultima; ci ho messo dunque più tempo e più amore che nelle altre; e, quantunque non fosse diretta che ad ammaestrare, io non so se pel suo argomento, o pel suo modo di recitarla, o perché i scolari sapeano che era l’ultima e che non mi avrebbero più veduto, l’udienza tutta cominciò alla metà ad essere commossa, e la sala e le finestre erano affollate di volti che ascoltavano con una mesta attenzione, e spesso gli occhi miei incontravano occhi pregni di lacrime.
La recita durò più di un’ora, e io non ho potuto pronunziare l’ultime pagine senza essere impedito sovente da una commozione comunicatami dagli ascoltatori, e ch’io non potevo reprimere. E il giorno d’ieri mi fè quasi dimenticare quello della prolusione». (Anche al Giovio: «Se il dì della prolusione fu più lieto, questo m’è stato certamente più dolce».).
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L’argomento della lezione era Della letteratura rivolta all’esercizio delle facoltà intellettuali e delle passioni. Completava e ampliava quella del giorno prima, 5 giugno, Sulla letteratura rivolta unicamente alla gloria, e la terz’ultima, del 18 maggio, Sulla letteratura rivolta unicamente al lucro. Temi di severità pariniana, che la forte convinzione liberava dal peso di residui logici e discorsivi e tramutava in immagini di poesia, commovendo gli animi. («L’udienza tutta cominciò ad essere commossa...»).
La lezione era meditata e intensa, penetrata da quel principio d’alta moralità letteraria che aveva veementemente governata la prolusione: la pindarica orazione di Pavia, come la chiama il Flora.
Diceva, un poco riassumendo, che chi professa la letteratura, mira all’acquisto di questi tre beni: la ricchezza, o la gloria, o la soddisfazione dell’animo. Ma la ricchezza e la gloria che tanta seduzione esercitano sull’uomo, sono beni accessori, non inerenti né pertinenti alla natura di nessun’arte; perciò non giovano alla felicità delle lettere né a quella dei letterati; anzi, ne procurano spesso la infelicità, essendo esse in balìa dei capricci degli uomini o della malignità della sorte. Specialmente il desiderio di gloria, se smodato e deluso, genera il disinganno che porta al freddo silenzio delle passioni, gli agenti perpetui dell’uomo, i pronti affetti che abbelliscono la vita.
Colui che ha invece per unico fine l’amore disinteressato delle lettere, consegue la soddisfazione dell’animo, perché rivolge le lettere all’ufficio a cui la natura le ha unicamente destinate: dilettare e giovare ai proprii concittadini, eccitando in essi la cognizione del vero, l’amore del giusto e i dolcissimi sentimenti della pietà e della virtù. Ricondurre le lettere a questa moralità, è il confortevole impegno degli scrittori; ed è il diletto, puro e inviolabile, che le lettere dànno ai giovani.
La meditazione era alta: si sentiva l’uomo che, anche in arte, aveva articoli di fede da rispettare; l’uomo che credeva nella virtù e nel bene, nella poesia e nella vita, intendendo la poesia proprio come un suscitamento di vita.
Ad alleggerire le menti dei suoi uditori dalla costante tensione a cui le obbligava il discorso affollato di idee e certa gravità dello stile, calava opportunamente qualche passo vibrante e poetico: «Cantiamo, dunque con Pindaro: Fu già un tempo che niun vile interesse contaminava la poesia...». O una citazione patetica: «L’infelice Torquato credeva che il favore del Principe o dei suoi cortigiani potesse accrescergli i mezzi necessari alla vita; credeva che il plauso o il biasimo dei letterati invidiosi potesse influire nella sua gloria». O, a confortare l’esposizione dei suoi principî morali, chiamava per nome e vicino il suo Parini: «Al nome del Parini, la memoria mi riconduce nei miei anni fuggiti; che pur non sono mai stati tutti fuggiti né perduti, quando sentiamo come tesoro alcuna cosa utile di quelle che abbiamo imparato a quel tempo...».
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Nomi, citazioni, evocazioni che facevano vibrare l’aria, commovevano i cuori. La commozione traboccò verso la chiusa, all’accenno dell’ultima lezione. «Ed ecco ormai col termine di questo discorso, terminata anche l’occasione e il tempo di vivere in mezzo a voi, o giovani...». Par di sentirvi un gemito, un singhiozzo. Quella era davvero l’ultima lezione, non soltanto perché chiudeva l’anno accademico, ma perché un decreto napoleonico aveva già soppressa la cattedra di Eloquenza a Pavia.
L’aula, che sarà detta per sempre l’aula foscoliana, era gremitissima («le sale e le finestre erano affollate di volti che ascoltavano con mesta attenzione»). C’erano cittadini d’ogni rango e sesso, accorsi per rivedere la portentosa persona. Ma il Foscolo si rivolgeva soprattutto ai giovani, agli ingegni sorgenti. S’era chiesto, prima di venire a Pavia: «Che potrò insegnare io? Prevedo che nell’Atene lombarda mal potrò affratellarmi coi maestri e, peggio, coi discepoli». Viceversa, a Pavia, città della sua pace, («sospirerò sempre la pace di Pavia...») sentì nascersi dentro il desiderio d’esser maestro e educatore di giovani, ai quali voleva esser caro più per l’animo che per l’ingegno. Sentì che la bella lezione non era soltanto un’affermazione della propria maestria, una comunicazione dei proprii lumi, ma soprattutto un dovere compiuto in vantaggio dei giovani. E per lui, nato con la vocazione della bellezza, nessun compito era più genialmente gradito di quello di svilupparne in essi il sentimento e la passione.
E ai giovani era commossamente rivolto il saluto finale, tenerissimo. «Or dunque vivete lieti e memori talvolta di me, come io non potrò mai dimenticarmi di voi, seppure non mi dimentico delle lettere e della patria, alle quali sono pur debitore se l’anima mia, benché spesse volte agitata, non è inondata da sciagurate passioni. Amiamo le lettere per questo frutto che ci somministrano. Acquistiamo la ricchezza dell’animo; e con essa o sapremo usare le ricchezze se l’arte nostra ce le potrà procacciare con onestà, o sapremo far senza di esse e tollerare nobilmente la loro perdita. La nostra gloria forse non sarà splendida, ma la nostra memoria sarà sacra».
Ancora maraviglia tutta questa sapienza in un giovane di trent’anni, e il piacere che mostra di poter essere utile, comunicandola altrui.
L’ultima lezione. Ma, per l’altezza del suo insegnamento universalmente umano, una lezione perpetua.
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