CESARE ANGELINI IL COMMENTO DELL’ESULE
In C. Angelini,Il commento dell’esule (noterelle dantesche),Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,1967, pp. 9-19.
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Frontespizio della Divina Commedia commentata da Ugo Foscolo. Nelle righe in caratteri piccoli: «Meruit deus esse videri / Carmine complexus terras mare sidera manes». |
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Mi contava un amico di padre Luigi Pietrobono, lo scolopio che sapeva tutto di Dante e dei dantisti e dei dantòlogi — «il diluvio di commenti e note e lezioni e lecturae e dissertazioni e logògrafi tenebrosi accumulato per sei secoli dai frati, abbati, accademici, arcadi, monsignori, universitari, spiluccatori di sillabe, e ghibellini e guelfi»; d’altra parte chi potrà negare il pericoloso diritto alla collaborazione? — che, interrogato nel suo novantaduesimo e ultimo anno di vita cosa pensasse del commento del Foscolo alla Divina Commedia, rispose che nemmeno sapeva che tale commento esistesse.
In tutta l’opera critica di uno dei nostri più acuti e provveduti studiosi del Foscolo, Giuseppe De Robertis, per tanti anni professore all’Università di Firenze e scomparso da poco, non si fa cenno di questo commento. Un cenno, velatissimo e relegato in una nota («un primo volume dantesco, preceduto dal saggio sul testo della Divina Commedia...») si trova in quella particolare storia della letteratura italiana messa insieme dal Flora per Mondadori. Ne parla il più attento e rigoroso foscolista vivente, il Fubini, ma in poche righe e come cosa di poco conto. Qualche pagina, gliela dedica con molta cautela, Nicoletta Festa nel suo Foscolo critico, di edizione Le Monnier.
Non saremo dunque noi a farne un’imprudente esaltazione; non ne abbiamo l’autorità. Vorremmo solo rilevare qualche circostanza suggestiva e in sé stessa poetica che accompagna il commento dell’esule al poema dell’esule.
Ogni ragazzo di liceo sa raccontare che nel 1302 un decreto del Comune di Firenze cacciò Dante in esilio, e il quotidiano dolore della iniqua cacciata alimentò e maturò nell’animo del magnanimo randagio l’idea e il disegno del divino poema. Anche racconterà che non avremmo avuto il poema, se non ci fosse stato l’esilio; e dirà cosa più vera che nuova, ora che la critica ha definitivamente provato che il poema fu iniziato non in Firenze ma al tempo e nei luoghi dell’esilio.
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Al Foscolo, l’italiano più dantesco d’ogni secolo, che in Dante aveva particolarmente sentito l’uomo e l’esule, accadde di scrivere il suo commento negli anni 1824-26 quando, esule a Londra, si sentì l’animo amaramente percosso dal medesimo dolore del suo poeta; e confessò che, scriverlo, era per lui un modo di sdebitarsi verso Dante, maestro non solo di lingua e di poesia ma d’amore di patria e di forza nell’esilio perpetuo. Un buon modo, insomma, di dire lietamente addio all’Italia. E, in data 26 settembre 1826, scriveva da Londra a Gino Capponi: «Speravo di lasciarti sapere che io vivo, mandandoti la Divina Commedia illustrata da me; e, se il libraio non si fosse dato al tristo, l’intero poema oggimai sarebbe stampato e pubblicato e arrivato in Italia».
In verità, preparato il commento dell’Inferno preceduto dal Discorso sul testo, la pubblicazione si arrestò per il fallimento o il tradimento dell’editore inglese, il signor Pickering; e l’anno dopo, il Foscolo discendeva nel sepolcro con una tristezza in più.
Più tardi, un altro grande italiano pure esule a Londra, Giuseppe Mazzini, si prese a cuore l’inedito del Foscolo; e, pur di pubblicarlo, curò con lo stesso metodo il commento del Purgatorio e del Paradiso. La pubblicazione avvenne nel 1842 presso Pietro Rolandi, libraio italiano in Londra (esule anch’egli?), che aveva comprato il manoscritto dall’editore inglese, al prezzo di quattrocento lire sterline.
La lettera al Capponi, pubblicata nel n. 104 dell’Antologia di Firenze, dice anche il modo come il Foscolo tentò l’illustrazione del sacro poema: nella magia dell’illusione «di dire di lui in guisa nuova e non ancora tentata da veruno». Non poteva dirlo più dantescamente. Aggiungeva: «Mi rimane solo il vantaggio d’aver bene imparato il modo di illustrare il poema di Dante. E vi ho tanto studiato sopra e con tanta insistenza che oggimai non mi bisognerebbe che tempo e opportunità di stampare».
Ma qual’era questa guisa nuova e mai prima tentata da nessuno? Ci accadde una volta di dire che il Foscolo, citando i versi di Dante, rischia di migliorarli; e non intendevamo solo in virtù d’una sua magica recitazione o trascrizione, ma proprio quel suo saper ridurli alla miglior lezione, la più vicina alla mente di Dante tutta quanta: il recupero del testo genuino. Un lavoro accanito e infinito e spinto quant’esso poteva andare. Testimonianze del vasto disegno e programma, rimangono il Discorso sul testo e l’Avvertenza al lettore.
Ma, in effetti e al di sopra degli intendimenti e programmi, il commento cosa vale, che non è mai venuto di moda? Ecco, vale prima di tutto per la restituzione di alcune lezioni o varianti severamente vagliate dall’incontentabile Ugo nell’esame dei tanti codici a penna e a stampa.
Parlando di varianti, oggi s’intendono quelle fatte dagli stessi autori; e una volta mi capitò di ascoltare una genialissima prolusione di quel galantuomo delle lettere che è Lanfranco Caretti, sulle varianti, dagli stilnovisti a Ungaretti, a Montale. Qui, intendiamo piuttosto le varie lezioni introdotte nei codici dal copista che non sempre ha capito, o dal chiosatore che s’è divertito in margine alla sacre pagine a metterci del suo.
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È ora di darne qualche esempio, citando, poniamo, il verso 6 del canto II dell’Inferno:
M’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì della pietate
che ritrarrà la mente che non erra.
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Tutte le edizioni correnti portano questa lezione. Esaminando i discordanti Codici, il Foscolo sceglie e adotta quest’altra, del Codice Angelico:
che ritrarrà la mente, se non erra.
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E commenta: «Ci senti la verecondia nel dubbio del poeta intorno alla fallibilità del suo intelletto. Ché, se egli era pur certo che la sua mente non errava, a che invocare l’aiuto delle Muse e l’alto ingegno del suo Maestro? («O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate...»).
Verecondia che vediamo confermata altrove; per esempio, nel XX del Purgatorio, al verso 147:
Se la memoria mia in ciò non erra.
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Senza dire che la lezione accolta dal Foscolo, libera il verso dal peso e dalla durezza dei due relativi che... che..., che cozzano nel verso come teste di montoni.
Altro esempio di recupero finissimo è nella famosa terzina del canto XIII, dove si parla delle Arpie. In tutte le edizioni si legge:
Ali hanno late, e colli e visi umani.
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Foscolo, sul codice meno conosciuto del Poggiali, legge invece così:
Ale hanno late, e colli e visi umani,
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e stupendamente esalta la sua scelta: «La modulazione generalmente acuta della i (ali) ristringe col suono la espansione e la tensione qui necessarie all’immagine, e che la e lascia meglio distinguere nell’ale. Questi, ad altri parranno sogni; pur hanno tanto quanto il merito d’esser poetici più che pedantici. L’orecchio delicatissimo a sentire i minimi modi diversi con che alcune voci possono scriversi, e il giovarsi di quello che più conferisce all’immagine col suo suono, è una delle doti naturali al poeta, e Dante n’era vaghissimo». Certo la lezione foscoliana, che non vediamo continuata nei moderni editori del poema, aiuta sensibilmente la lentezza degli spondaici, o vogliam dire dell’immagine. In coerenza al suo sentimento finissimo delle parole e del loro suono che ne aiuta il senso, altrove (canto XVI, verso 87), allontanandosi dai Codici che hanno ale, il Foscoli starà con quelli (Mazzucchelli e Poggiali) che hanno ali:
Ali sembiavan le lor gambe snelle,
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perché la parola qui è connessa a un’idea di rapidità, e il verso deve esprimerla alla svelta. L’esperienza d’arte e la sensibilità del poeta lo guidano sempre a scegliere tra i vari Codici le varianti più richieste dalle situazioni; le più luminose, o che più tengono occupata la fantasia del lettore, o meglio ne accarezzano l’orecchio. Valga quest’altro esempio de canto IX, versi 124-126:
E io: — Maestro, quai son quelle genti
che seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir con li sospir dolenti?
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Restaurato nel primo verso il quai in chi (chi son quelle genti), sui codici Mazzucchelli e Poggiali recupera al terzo una diversa lezione:
Si fan sentir coi sospiri dolenti,
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e il verso è più melodioso e, per la mutata accentuazione, più patetico come vuole la descrizione, libero dal troncamento sempre vizioso del numero plurale: li sospir.
Un esempio di pienezza del suo commento, ce lo offre il verso 60 del canto II; l’apostrofe di Dante a Virgilio:
O anima cortese mantovana
di cui la fama ancor nel mondo dura
e durerà quanto il mondo lontana.
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Altri codici scrivono:
e durerà quanto il moto lontana.
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Commenta il Foscolo: «L’una e l’altra lezione, pregne di pregi e di dubbi, sono del poeta; né a me sarebbe libero lo scegliere, se potessi congetturare quale fosse l’ultima adottata da esso. Edizioni e Codici stanno per l’una e per l’altra. Il Mazzuchelli legge moto, il Roscoe mondo; agli scienziati piacerebbe moto, e mondo ai poeti; e Dante, benché nato poeta, adombrava le sue immagini e il suo stile con troppe dottrine, allusioni, e formole filosofiche. Aristotile, dal quale imparò quasi tutta la sua filosofia, gli suggerì moto, con la sua definizione del tempo... E altre e più calzanti ragioni mi inducono a tenere moto per la vera lezione. Di che, vedi Discorso sul testo». Al quale il Foscolo si richiama di frequente, come al gran retroterra della sua felice navigazione.
Tra i litigi delle chiose e delle varianti, il Foscolo cerca sempre di veder giusto, guidato da un suo sublime udito. Scarta (e lo dice) le tenebrose e le posticce, le fiorentinesche e le municipali, e mira dritto alle sincere; accompagnando la scelta con osservazioni di buonissimo polso, fatte con quel rilievo di gusto classico che dà il piacere indefinibile del perfetto.
Naturalmente abbiamo citato dall’Inferno, la Cantica commentata dal Foscolo; l’altre due — l’abbiamo già detto — le ha brevemente annotate il Mazzini. Sicché, quello che si salva del suo commento, quantitativamente non è un gran che: una spanna di roba. Ma è del Foscolo. Del Foscolo che ci mena a Dante.
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