CESARE ANGELINI CANTI GRECI A PAVIA
In C. Angelini, L’osteria della luna piena,Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1962, pp. 9-14.
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Pavia, Casa Bonfico (“La casa del Foscolo”)
Fotografia di Guglielmo Chiolini
Da Augusto Vivanti, Pavia da scoprire, Pavia, Luigi Ponzio Editore, 1975 |
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Nessuna biografia potrà darci il senso procelloso (e spesso tenerissimo) della vita del Foscolo con l’immediatezza con cui ce lo comunica la lettura del suo Epistolario, che nell’Edizione Nazionale è arrivato al suo quinto volume.
Lettore assiduo di Giobbe («sto rileggendo e copiando in un libriccino tutto il libro di Iob: lo trascrivo col testo greco e latino. Sublime libro! Come è pieno di grande e magnanimo dolore! Libro divino; non lo staccherò così presto dal mio tavolino e dal mio guanciale»), il Foscolo sentiva come velocemente il fiore della vita si scolora, ed era portato a vivere con la massima intensità per coglierne il meglio, per non perdere nulla del meglio; e nelle lettere scritte con quel cuore che batteva sempre a «palpiti immensi», ci trascina nella concitazione dei suoi viaggi, dei suoi amori, dei suoi errori, delle sue passioni («le matte passioni di questa vita che fugge»), lasciandoci l’immagine d’un rapido viaggiatore della vita.
Raggruppate secondo cronologie ragionate, le lettere ci dànno i vari momenti della sua esistenza non lunga, segnati dalla pubblicazione di un’opera, dal nome d’una donna (o due o tre), dal colore della città dove trasmigra per ripartirne subito e veder nuove genti e cose nuove. E questo senso di anima perpetuamente migrante sarà certo aumentato dalla pubblicazione dei volumi sesto e settimo che (non più curati dal povero Plinio Carli) raccoglieranno rispettivamente quelle del soggiorno svizzero e dell’esilio inglese, durante il quale il Foscolo morì, a quarantanove anni.
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Ma c’è un periodo — breve, di circa un anno — in cui pare che il poeta abbia trovato un po’ di riposo: l’anno della sua vita pavese, particolarmente casalinga e casta e balenante dell’allegrezza del caminetto. L’episodio ci è conservato intero nelle lettere scritte tra la fine del 1808 e il luglio del 1809, quando insegnava dalla cattedra già tenuta dal Monti. Al raccoglimento lo invitava l’indole quieta della città di provincia, che allora contava sì e no ventimila anime; più orti che case. Aggiungete il tempo in cui ci era capitato, il novembre, e nell’acquosissima Pavia l’autunno e l’inverno sono stagioni assai lunghe con freddi e nevi e geli. («Freddo, Brunetti mio, freddo da bruciare un carro di legno la settimana, scaldandosi il corpo dinanzi ed esponendo al vento e al reuma le spalle. Sospiro un Franklin, ma se mi tocca di lasciar Pavia dopo quest’anno, sono danari sacrificati al dio freddo con pochissimo pro. Freddo insolito. La neve è alta undici once…»). Ma più lo impegnava la preparazione della prolusione e delle lezioni all’Università, che diventavano un puntiglio da vincere, per lui arrivato alla cattedra in un modo tutto straordinario, senza la formalità del concorso; si direbbe per chiara fama. «La prolusione mi occupa corpo e anima, e per più ore della notte mi tiene con gli occhi spalancati».
Così gli mancò la famigliarità dei pavesi, coi quali non amò mescolarsi; ma qui trovò quella pace che anche più tardi rimpiangerà: «Sospiro la pace di Pavia». E, con la pace, un senso di patria (lui che aveva pur scritto: «La Patria! Il cielo non me ne ha concesso») nella presenza di taluni greci, professori o studenti, che in quegli anni l’Università di Pavia ne accoglieva molti: Andrea Mustoxidi, corcirese, che «aveva l’Ellade chiusa dentro l’anima»; Dionisio Salomos, nativo di Xante, iniziatore di una nuova poesia greca e, più tardi, autore di un elogio del Foscolo; Costantino Metaxas di Cefalonia; Aristotele Valaoritis, Gerasino Marcoras, e, tra i più devoti scolari, un Giorgio De Rossi, zacintio, che poi, tornato in patria, diventò arconte della pubblica istruzione delle Isole Ionie.
La sera, li ospitava nella sua bella casa Bonfico, in Borgo Oleario, una via fuori mano, nella parte orientale della città, ancora quasi paese. Lunghe sere di novembre, di dicembre, in cui la città affondava nella nebbia fredda, tenebrosa, che si rovesciava alle porte, alle finestre. Il poeta gustava il piacere di temperare la cattiva stagione standosi attorno al fuoco, prendendo caffè e fiutando rapé «da una tabacchieruccia cappuccinesca», raccontando poi tutto all’amicissimo Ugo Brunetti, in lettere che rimangono tra le più tenere e ricche della ilarità di quell’ingegno. «Quanto alla mia vita, io sto sempre in casa; specialmente la sera sto al mio fuoco con alcuni giovani greci, pieni d’amore per le lettere e la patria». Le lettere e la patria; pareva dare l’avvio al suo corso di lezioni sull’origine e sull’ufficio civile della letteratura. E ancora: «Tornati al fuoco, troviamo compagnia di tre o quattro greci, viaggiatori o studenti, ma né laureati né laureandi; allora si disserta, si ride, si canta canzoni greche e cantofermo a modo degli Albanesi; e ieri quelle arie tra il barbaro e il passionato esilararono la pensosa anima mia».
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Il Foscolo che canta in greco coi greci, era ben un quadro da tentare il pennello di un pittore pavese come Cherubino Cornienti, che ebbe l’idea, ma non ne fece niente. Erano canti d’amore, che via via tradivano la loro derivazione dalla pianura o dai monti o dalle isole, legati a tradizioni antiche e intrisi dell’aria e dello spirito del popolo più sereno del mondo; con ritornelli dove le parole più ricorrenti erano filìa e filìmata: amore e baci. O erano canti patriottici, che impegnavano l’anima degli esuli alla vicina riscossa per l’indipendenza nazionale. In esilio, il canto era patria e cantando si sentivano più greci. Ma il più greco era lui, il Foscolo; non soltanto perché nato in Grecia e col gusto di chi è stato allevato sui greci; ma perché, privato di patria fin da fanciullo, si sentiva esule per vocazione.
Non sempre i suoi ospiti erano studenti; talvolta erano mercanti profughi dal Pindo e passati alle isole, simili nell’aspetto a faticose immagini di Dei usciti dai poemi di Omero, o, insomma, da quella ricca mitologia. Il poeta congioiva con loro, cantando con quella sua voce vigorosa di capitano abituato a comandare all’aperto; o recitando versi di popolo «in quella sua tal cantilena di salmodia». E questo era il modo di ridere di quell’uomo solitamente taciturno.
Anche più tardi, tornati essi in patria, egli li ricordava e li desiderava: «Vorrei pure vederli, e parlare con essi dell’aere, della terra, delle piante e del mare delle nostre isole, e cantare con essi la canzonetta del pastore siracusano: “Calà pólis á té Zácuntos...”».
Borgo Oleario diventò nell’Ottocento via Foscolo, ma è rimasto qual era, nelle sue movenze settecentesche, nella sua solitudine di paese, nell’aria un po’ logora e assorta delle sue case solidali, dando l’impressione del tempo che non passa. E questo aiuta a recuperare, dietro la pusterla e le finestre della casa ch’egli abitò, le reliquie del tempo e la voce e l’immagine e gli affetti del poeta, che ha dato giorni illustri a Pavia, e all’Italia il suo canto più moderno e immortale.
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