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CESARE ANGELINI

IL FOSCOLO LEGGEVA LA BIBBIA

In C. Angelini,
Altro Ottocento (e un po’ di Novecento),
Bologna, Boni Editore, 1973 pp. 3-9.

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Ugo Foscolo

Dipinto di Andrea Appiani, 1801
Pinacoteca di Brera, Milano


In quel suo romanzo autobiografico che è l’Epistolario, il Foscolo ci rivela un aspetto poco noto o, meglio, poco considerato, della sua personalità: l’aspetto, diremo, religioso, che può sorprendere chi lo conosca solo attraverso la sua produzione poetica. La quale, per la grecità che egli aveva nel sangue, è tutta trattenuta nel mondo eroico e di quei miti gemmanti; quello che si usa dire il suo neoclassicismo.
L’11 aprile 1811 (era il giovedì santo) scriveva al conte Giovio: «Voglio piamente spendere la settimana santa a rileggere Isaia, ei mi darà vigore all’immaginazione e consolazione dell’anima...; e adempirò in parte agli uffici della mia religione, meditando i libri più belli, più sapienti, più sacri ch’io mi conosca». L’intenzione della lettura è già tutta in quel piamente.
Il Foscolo leggeva volentieri la Bibbia, per quel sentimento di tempo eterno che ci trovava dentro. Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, dice che Didimo (un suo travestimento) «leggeva quanti libri gli capitavano; non rileggeva da capo a fondo che la Bibbia». Ci spiega che non la leggeva per sole ragioni di coltura ma per edificazione e aumento di sapienza di vita. Nel gennaio del 1808 scriveva alla Martinengo in Brescia: «Mi ricordai del tuo Ufficio della Madonna e dei Salmi e delle lezioni ch’io leggeva e cantava; e ne recitai tutti gli squarci ch’io mi ricordava; poi ripresi in mano la Bibbia, e lessi senza interrompermi fino a mezzanotte con la meditazione d’un fedele e la espansione di un’anima contrita; ho letto tutto il libro di Giobbe, e non lo staccherò così presto dal mio tavolino né dal mio guanciale».
Quella di Giobbe era una lettura particolarmente diletta, quasi un pio esercizio di virtù, e lo dice: «Benedetto il giorno in cui ho imparato a leggere il libro di Giobbe, perché io pure ho bisogno che il Cielo mi armi di santissima rassegnazione». E ancora : «La pazienza che ho imparato dal libro di Gobbe...». Fino a dire: «L’anima di Giobbe s’è trasmigrata nella mia». Ancora nel gennaio del 1808 scrive a Isabella Teotochi Albrizzi: «Ora sto rileggendomi e copiandomi in un libricciolo tutto il libro di Giobbe; lo trascrivo col testo greco e latino. Sublime libro! Come è pieno di grande magnanimo dolore! Come parla con Dio senza superstizione, e con le proprie sciagure senza bassezza!». In quei gran versi gli pareva di vedere l’eternità, e vi si consolava come in una luce divina.
Non solo in quei versi, ma in ogni libro della Bibbia, da farglieli preferire ai suoi classici: «Ho abbandonato Virgilio, e sto, nelle ore che ho voglia di leggere, con la Bibbia, e medito spesso il capitolo Ego vir videns paupertatem meam ecc. E potrei dirtelo tutto a mente. Questo gran libro della Bibbia!». La lettura si fa più intensa di anno in anno, come è ora documentato nei cinque volumi delle lettere disposte cronologicamente nell’Edizione Nazionale. Gli si fanno più pronte le citazioni, in italiano e in latino, particolarmente dei Salmi, da far pensare che li citi a mente: «Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum... Sicut nicticorax in domicilio et passer solitarius in tecto... Il giusto pecca sette volte al giorno... Initium sapientiae, timor Domini. Laqueus contritus est, ecc.».
La consuetudine della lettura, dentro di lui si compone in armonia e si fa luce, creandogli un linguaggio sacro. Ne nascono espressioni da dare profondità a libri di discipline morali: «Il santo aspetto della virtù», «il santuario della coscienza», «il silenzio delle passioni», «la sacra disavventura» ecc. O esclamazioni fiduciose: «Sia fatta la volontà di Dio». «Dio sa quello che fa». «Dio mi aiuterà». «L’uomo propone e Dio dispone». «Faccia il Cielo! Voglia il Cielo!». Il lettore si chiede se, per caso, stiamo leggendo la Filotea... Stiamo invece ripercorrendo l’epistolario del Foscolo. Il quale, del resto, conosceva bene la Filotea. Scrive a Chiara Giovio Parravicini: «Piacciale di aprire la Filotea all’ultimo paragrafo della quarta parte, dove un Santo di vita incontaminata e attiva, ecc.».
La misura del suo sentimento religioso è più piena in talune lettere scritte quando più forte era il sentimento dell’esistenza morale e il bisogno di comporre la sua vita in armonia. In quella, per esempio, del 9 luglio 1812 ad Alberto Barbiano: «Nel recitare il Pater noster, ripeto tre volte fiat voluntas tua; Dio mi aiuterà». E in un’altra, ad Antonio Veneri, sparsa di elegante e cristiana malinconia: «Desidero ch’ella sappia che io vivo non lieto né sano, ma ad ogni modo confortato dalla speranza, perché sono certo — come dice San Paolo — d’avere una buona coscienza. E ho letto il Locke Sul modo di intendere le Epistole di San Paolo; ne ho ricavato gran lumi per la mente ma molto maggior consolazione per l’anima».
Parlando della Bibbia, s’intende anche il Vangelo, le cui citazioni sono frequentissime. «Vorrei che si ricordassero anche dell’Evangelo — scrive a Francesco Tognetti nell’ottobre 1815; — e s’io fossi predicatore, mi torrei le più volte per testo quelle parole: “Omnis arbor quae non facit fructum bonum, excidetur et in ignem mittetur”».E nel maggio del ’14, scriveva alla contessa d’Albany: «Egli (il Maestro) ha detto: — Non gittate le perle ai porci». Sentiva il fascino e la forza di queste citazioni.
Come sentiva la suggestione delle feste cristiane. Scrive a Luigi Cagnoli, il 1° aprile del 1908: «Io aspetto la Pasqua come aspetto impazientemente il sole tiepido e i fiori». E ci par di capire che parla della Pasqua non soltanto come aspetto nuovo del cielo e del tempo, ma della festa cristiana e della sua novità spirituale e benefica; di quelle feste di cui parla in un’altra lettera alla Martinengo: «Io trovo sacre certe giornate in cui le dolci consuetudini domestiche si celebrano nelle famiglie dei ricchi e dei poveri, in cui si ricorda la religione degli avi e i costumi dei padri nostri; e tutti, o per costume o per cuore, diventano generosi».
Il sentimento di vita cristiana, derivato dalla lettura dei libri sacri, lo persuade alla preghiera. Scrive a Paolo Giovio: «Prego Gesù per la mia gioventù crescente; e tu pregalo per la mia gioventù declinante». E alla contessa d’Albany, nel maggio del 1814: «Tutte le sere quando, nel dire il Credo tra le mie orazioni, arrivo all’articolo della Risurrezione della carne... ecc.». Scopriamo anche un Foscolo che ogni domenica, da buon cristiano, va alla messa. «A Milano, dove le campane delle chiese diventano libidinosamente indiscrete, e il mio vicino San Bartolomeo, in pena forse ch’io non gli sia molto devoto (sebbene tutte le feste io ascolti la Messa al suo altare), ecc.».
In questa luce diventa rito religioso anche la benedizione ch’egli invoca dalla Mamma chiudendo ogni lettera a lei: «Nicolò (o Ugo), ti chiede, cara Mamma, la tua santa benedizione»; ch’egli poi metteva nel cuore come una sacra reliquia propiziatrice.
Non abbiamo ancora detto che il Foscolo s’era adottato due motti, cavati non dai suoi classici, ma ancora dalla Bibbia: uno della Cantica — «Cor meum vigilat» — e pare interpretare la sua insonne inquietudine amorosa: l’altro dal Vangelo di Matteo: «Est est, non non» e ci dà l’aspetto lineare del suo carattere fiero.

Ora ci si domanda: come mai tutta questa Bibbia e questa decisa ancestralità cristiana, il Foscolo non le accosta mai alla sua poesia, anzi, puntualmente le esclude? L’uomo Foscolo parla dunque un altro linguaggio del Foscolo poeta? Perché le date di molte lettere che sono ossequio o celebrazione di sentimenti religiosi coincidono proprio con la pubblicazione dei Sepolcri e delle Grazie. Il Foscolo, come coltura era un classico e poteva ben dire «Sto tutto con Apollo», essendo sua convinzione che non si potesse far poesia senza lo splendore dei miti. Ma, come temperamento, era romantico; e le sue «matte passioni» e le avventure e l’amor di patria, e donne e gloria e religione erano il suo romanticismo, e quella sua persuasione (non ostante l’Ortis) che la morte non vale mai più della vita. È tutto quello che ci racconta nel generoso Epistolario, in una scrittura che somiglia al parlare, e perciò sincera. La sua grecità era tutta nella dimensione apollinea; l’altra dimensione, la dionisiaca, è rimasta nella vita.
Contraddizione? Forse. Ma il Foscolo è pieno di contraddizioni, che sono poi ricchezza, universalità. E proprio qui sta il suo fascino: in questo suo saper comprendere e sentire in sé gli opposti e le loro ragioni.


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