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CESARE ANGELINI

UNA RISPOSTA SU L’ERMETISMO

In C. Angelini,
Cronachette di letteratura contemporanea,
Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 41-48.

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Savatore Quasimodo, che, insieme ad Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Mario Luzi e Carlo Betocchi, è tra i massimi rappresentanti, in senso stretto, del movimento ermetico.


Per certe espressioni con cui i discettatori di poesia ermetica s’ingegnano di farci capire cos’è, m’accorgo di trovarmi in presenza d’una parente prossima di quella che venticinque anni fa chiamavamo «poesia pura». Con questa differenza, se mai, che allora la poesia pura rappresentava soprattutto l’oggetto di un interesse critico, un gusto aereato di lettori: liberare nella pagina i punti più rarefatti, gli attimi innocenti, i fili di brezza, i versi dove il canto si fa incauto e l’esito è tutto fantastico. (Leggevamo Rimbaud, si frantumava il Pascoli). E su questo piano critico la poesia pura ha acuito senza dubbio la sensibilità del lettore; tant’è vero che da questa nuova fiducia e passione sono nati i poeti puri o li abbiamo scoperti vicino a noi, vivi e belli.
Oggi che essa è più liberamente intesa come il momento di un’attività creatrice, è diventata ermetica, una cosa difficile, che trova le sue ultime testimonianze nei migliori tra quanti, presi per incantamento, viaggiano sulla nave delle Muse.
Ora una definizione della poesia ermetica (ma d’una cosa ermetica se ne potranno dar tante) potrebb’essere questa: poesia che richiede collaborazione attiva del lettore a intendere quello che il poeta ha eliminato: cioè gli elementi che egli giudica non rigorosamente essenziali per la resa dell’approfondimento fantastico, e che son pure necessari alla chiarezza: colmare i silenzi, creare i ponti, ritrovare i nessi. Indovinare. Rifare il processo che il poeta va significando attraverso le sue accensioni liriche, le sue fulgurazioni.
Quest’impegno che si è venuto a creare col lettore, finisce naturalmente per dare alla poesia un limite di poesia per iniziati. Paucis. Sicché, mentre le altre, arti oggi vanno decisamente verso la massa, che vuol dire verso la vita e i valori universali, la poesia (che è per sua natura cosa solare) viene mortificata nella sua funzione e aspirazione d’esser dono di tutti, e diventa espressione di un esasperato e chiuso individualismo. Così gli ermetici, a forza di corrodere con processi amari, a forza di dissodare la poesia nell’illusione di scavare in una vita più intensa, rischian di farne una cosa staccata dalla vita; il loro lavoro li porta a isolare l’essenza della poesia, col rischio di soffogarla, inaridirla.
La rosa (poiché anche la poesia è un fatto naturale e umano) è nella sua pienezza, cioè nel suo disegno e foglie e colore e profumo e stelo e radice. Isolarne l’essenza del profumo, è isolarne la parte più incantata, ma è uccidere la rosa. Togliere alla poesia ogni tessuto connettivo, ogni ritmo logico, è toglierle la linfa della vita; il respiro.
Parlano dei lirici greci, Alceo, Saffo, che superata l’epica, nella quale i motivi lirici erano dispersi, sarebbero riusciti a liberarli — a isolarli — raggiungendo l’estremo della purezza lirica nell’estrema brevità della durata. C’è un equivoco. Anche la grande lirica greca tendeva al mito, che è essenzialmente narrativo. Corinna diceva a Pindaro che non si fa poesia senza il mito; e Saffo e Alceo scrissero cose disegnate, costruite, tant’è vero che Alceo ci ha dato l’ode alcaica e Saffo la saffica. Quei frammenti che, secondo gli ermetici rappresenterebbero la massima conquista nella purezza lirica, sono arrivati a noi come frantumi; nativamente erano parti di liriche costruite. E di Saffo ci restano due liriche intere, a testimoniare.
La tendenza a giustificare, quasi storicamente quei frammenti rivela la volontà di esaltare l’immagine per l’immagine, che può essere indizio di povertà inventiva, di poesia intesa come gioco ingegnoso e brillante ma che non sa più costruire.
Altro equivoco (soprattutto dei critici ermetici) è il richiamo alle pagine segrete di un Foscolo, d’un Leopardi, facendone quasi dei precorrimenti e giustificazioni d’arcaismo. Mentre si tratta di assaggi provvisori: approfondimenti fatti su un materiale espressivo, esperienze di stile, studi di sensibilità, che aspetta di rivivere in qualcosa di più umano e largo; improvvisi avvisi d’arte a più pensate opere. Pagine segrete, che ci spiegano l’attenzione fervida di quei poeti al fatto poetico e alle sue varie rivelazioni. Una cosa è tuttavia vera ed è bella: che l’ermetismo — poesia e critica — è nato dal fastidio di una letteratura commerciale che ci soffoca. Sitibondi di cose fresche roride e innocenti, gli ermetici voglion fare della poesia una cosa nobile, magari aristocratica, appartata; ricrearla attraverso la restaurazione della parola ripresa nella sua forza nativa, nel suo valore vergine. Colore? Ma non di tavolozza: d’anima.
Per questo guardiamo all’ermetismo con fiducia, con passione quotidiana, lieti se possiamo salutarne qualche frutto di rallegrante purità. E ogni tanto c’è; sciolto e lieto come il lavoro della fanciulla che nel frammento di Saffo intreccia rametti di aneto.
Ma c’è caso, e forse se già detto, di confondere la restaurazione con l’esasperazione: ossia ridurre la parola a vivere di ritmo solo, di puro suono evocativo, in un contrappunto festoso, che è un eluderne l’ufficio e renderlo inutilissimo; allo stesso modo che nell’ordine architettonico un elemento che perde la sua funzione costruttiva e si fa semplicemente motivo ornamentale, diventa un elemento scaduto. Ora c’è caso di portarlo ad accostamenti e ardiri che sboccano su rapporti assurdi, su suggestioni ambigue e allucinazioni, da far pensare a un componimento prezioso che s’è frantumato e la sua materia è andata tutta insieme. O al cumulo delle foglie nell’antro di Sibilla, che abbiamo visto a Cuma.
Quella degli ardiri fu sempre esigenza dei poeti, specialmente dei grandissimi. E nomino Dante che parla, per esempio, di circulata melodia, o di un lume che canta o di un santo riso o dell’arsura fresca; o giunge là dove il sol tace. Esempi nei quali gli accostamenti dei vocaboli creano metafore arditissime e le percezioni visive si fanno uditive e viceversa. Ma in Dante c’era, prima di tutto, «il fren dell’arte», che è salute e salvezza. Poi, d’ogni sua metafora mentre senti l’ardimento, avverti la funzione precisa. Ma negli ermetici? Essi fan piuttosto pensare (quando permetton di pensare) a preziosismi e decadentismi d’altre epoche, che vorrei dire barocche e, talvolta, burchiellesche. Troppo spesso, leggendo i loro versi inversi, cerchiamo un chiarimento evadendo, per burla, verso i Nominativi fritti e mappamondi, suon di campane in gelatine arrosto..., con uno scoppio di ilarità, se mai, più pronta.
Quanto al Leopardi, i critici ermetici lo incommodano troppo. Lasciamo stare che in lui c’è sempre una profondità di sentimento che colma la parola e le dà vibrazioni impaurite. Ma Leopardi non fu mai padre putativo di ermetici. Dal suo splendido squallore nascono verità indolite, illusioni disperate, uno splendor fermo, di smalto. Penso alla soddisfazione per cui, finito di scrivere un idillio, doveva dire: — Ho raggiunto il massimo della limpidità comunicativa: cioè dell’onestà artistica. Per contrario, penso a un poeta ermetico che, finita la sua lirica, deve dire: — Ho raggiunto il massimo dell’oscurità. Proprio come diceva Mallarmé, ma senza l’autenticità di Mallarmé.
E penso al Leopardi lettore, che innanzi alla petrarchesca Canzone alla Vergine, si ferma al verso famoso Con le ginocchia della mente inchine, e commenta: «Un moderno crede che il poeta scrivesse: Con le ginocchia e con la mente inchine. Certo, scrivendo così, avrebbe scritto meglio».
Ma Giargiulo, De Robertis, Macrì, Bo, ecc., cioè i difensori della poesia ermetica nella sua parte più seria (seria per i nomi che vi si impegnano), ci portano un capitale di passione e di confidente ingegno... Io sento il peso e l’autorità della loro intelligenza, e ne provo soggezione. D’altra parte, capisco essere giusto che ne sciupino un po’. Sanno d’esserne ricchi.

[1942]